La scelta “politica” di Basaglia si pone come elemento di modernità in contrapposizione ad un mondo sempre più omologato. Il rapporto follia e ragione nella complessità dell’esistenza umana. Interviene Rossella Bonito Oliva, Professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli Studi « L’Orientale » di Napoli.
La follia è oggi un argomento di grande attualità. Basta questa frase innocua e banale per richiamare l’attenzione sul paradosso che non da i nostri giorni presenta questa condizione umana segnata diagnosticamente come patologia dell’anima, disagio del soggetto, distonia del comportamento, fino ad essere associata in maniera più trionfale al genio di alcuni individui. Un prodotto per tutti i gusti e per tutte le stagioni, quasi a segnalarne l’inquietante presenza nella vita degli uomini.
Percorrerne la storia può essere un primo tentativo per sottrarre questa parola alla banalizzazione dell’epoca che ne fa oggetto di festival, rassegne, convegni, occasioni di finanziamenti di progetti a vario titolo culturali. Non è necessario cercare lontano per ricostruire la vicenda di questa patologia dell’anima, è sufficiente rovesciare la storia della ragione, come ha insegnato Foucault. Meglio ancora sarebbe spingersi fino alla scoperta dell’inconscio per scoprire che la follia è stata il “compagno segreto” della ragione, forse più segreto che sodale. Nella patologia mentale sono rifluite nel tempo le paure, ma anche le aspettative umane, se solo si pensa alla “divina manìa” o alla melanconia come disagi di una dismisura nell’umano in grado di portare là dove l’occhio prudente dell’uomo saggio non osava spingersi, consapevole del rischio di uscire di senno.
Quale minaccia poteva mai costituire la sofferenza o il discorso alterato di un individuo per attirare tanta sorveglianza da parte delle istituzioni a cui era demandato l’ordine della vita in comune? E’ la follia di per sé pericolosa più di una ragione che pretende un ordine assoluto e discriminatorio dell’umanità a cui pure per qualche tempo in un recente passato è stato riconosciuta la legittimità del governo? O sarebbe più esatto dire che la follia ha costituito la parola magica in cui far confluire tutto ciò che non era accettato, consentito, tollerato dall’ordine della comunità?
Vorremmo affermare che la follia è il fantasma che minaccia la ragione, ma come tutti i fantasmi è creatura stessa della ragione, sarebbe difficile liberarsene fin quando la ragione rivendica la sua autonomia, il suo potere capace di dar luogo a soggetti sovrani. E’ l’ossessione stessa della modernità la follia, da Cartesio a Kant, solo per fare alcuni esempi. La follia è inquietudine, disordine, ossessione, ma ha una sua logica se solo il discorso della filosofia trovasse la pazienza per occuparsene, se dagli ospedali, ai manicomi, alle comunità fosse messa in crisi l’illusione rassicurante di aver elaborato una strategia capace di curare, garantendo la giusta distanza tra malattia e sanità.
Una malattia contagiosa la follia se solo si pensa alle condizioni di reclusione a cui erano sottoposti i malati di mente fino a qualche anno fa, in Italia fino all’approvazione della legge Basaglia che oggi viene ridiscussa perché giudicata per molto versi inefficace. Inefficace a che? Cosa ha comportato l’apertura dei manicomi? Solo lo smascheramento dell’incapacità del nostro vivere in comune di tollerare la differenza, anche di chi soffrendo ricorda continuamente che la nostra civiltà, il nostro ordine, la nostra sovranità è a rischio. Se c’è un dubbio che la legge Basaglia può suscitare è sulla possibile compatibilità tra ragione e follia nella misura in cui questo “compagno segreto” è stato barrato da anni di negazione, di emarginazione che hanno eretto muri e barriere per rafforzare il potere di un modello più che la voce della ragione messa in condizione di parlare solo nel silenzio o nell’unanimità assordante.
Non è necessario richiamare quante voci hanno posto l’accento sui disturbi di questo logos a una dimensione, disponibile per costruire una forma di esistenza sedicente appagata, perdendo il suo significato più originario di legame. Sarebbe stupido pretendere di cambiare la storia o definire il sogno della ragione soltanto un delirio, ma ciò che quest’ultima ha costruito nella storia per il suo sogno risponde a un’esigenza umana autentica di una civiltà del benessere, del consumo, del tutto a portata di mano. Certo il prezzo è qualche disagio, ma poca cosa rispetto alla sicurezza offerta dall’ordine.
Una piccola provocazione per comprendere come e perché la follia possa essere diventata un oggetto su cui sono entrate in conflitto facoltà (neurologia, psichiatria, psicologia), metodologie (farmacologia, terapie di varia impostazione, elettrochoc) e scuole di varia ispirazione (freudiana, junghiana, lacaniana). E’ la stessa difficoltà di farne un oggetto come la materia, l’atomo, a trattarla alla stregua di una realtà esterna a creare il problema, là dove come ricorda Freud la difficoltà è della filosofia prima e della psicanalisi poi perché “il soggetto non è padrone in casa propria”, aggiungeremmo noi nemmeno quando pretende di poter fare diagnosi, terapie di qualcosa sempre così vicina, così lontana dall’esperienza di ciascuno in quanto esposta a una serie di variabili, ambientali, sociali, culturali difficilmente isolabili e contestualizzabili. A meno che non si pensi di creare un ferma-immagine, come si è cercato di fare con la reclusione. Non è un caso che uno psicanalista come Ludwig Binswanger richiami alla necessità di pensare a un’analisi esistenziale che lavori sui confini tra strutture dell’esistenza e disturbi che prolungano in maniera distorta queste strutture creando sofferenza. La patologia mentale invece ha sempre richiamato attenzione come sorveglianza e pratica come rieducazione. A questa deriva Basaglia con la sua legge ha cercato di dare una risposta politica, convinto che l’ambito dell’analisi individuale contribuisse molto poco a creare le condizioni per uno sguardo diverso, possibile attraverso il riconoscimento dei pazzi come portatori di diritti. Vorremmo tentare di delineare i presupposti teorici da cui prende corpo quella legge.
Diagnosi e terapia mettono in questione l’elementare relazione tra il medico e il malato, cercando nella cura una reciprocità tra disposizioni, sentimenti di accoglienza e di abbandono. Là dove la cura apre la condizione del sofferente al mondo e all’altro, riattivando la possibilità di ricostruire una storia come propria, il medico è richiamato a una condizione comune con il malato in cui ragione e sentimento non possono più rimanere divisi. Prima ancora del caso patologico è in gioco la totalità dell’umano sempre alla ricerca di appigli e approdi a difesa di un’instabilità che può risolversi nella libertà come nell’eccentricità della malattia. Una comune condizione originaria che può essere rimossa nella distanza del medico o nella riduzione all’impotenza del malato. Solo la comunicazione e il dialogo possono riattivare quanto di comune è in gioco liberando il flusso tra universo emotivo e governo di sé. Si potrebbe dire che la malattia è situazione-limite come limite dell’essere sempre dato e non scelto dell’esistenza, là dove l’onda del passato e quella del futuro – secondo un’immagine di Kafka – rifluiscono l’una sull’altra rendendo vitale o altrimenti precaria l’unità percepita della propria vita. La sofferenza fisica e psichica, infatti, mandano in pezzi ogni possibile vissuto armonico, spezzano ogni approdo. D’altra parte la distonia esistenziale è una possibilità sempre aperta nell’esistenza umana, che non può mai essere del tutto circoscritta alla patologia, nella misura in cui non si dà un rapporto di causa ed effetto tra una specifica tonalità emotiva e il sintomo del disagio mentale. Non vi è frattura, cesura di mondi tra patologia e normalità, piuttosto intervallo e comunicazione.
La patologia è una sottrazione al mondo comune, che interrompe il filo e la continuità dell’essere con altri nel mondo, lì dove l’individuo si sbilancia lungo una linea verticale che può sostenere, orientando, il movimento orizzontale della vita, o altrimenti portare a uno sradicamento, attraverso un movimento ascensionale verso l’alto o un inabissarsi. Vita e morte nella condizione umana si decidono nell’apertura al progetto che dà senso alla vita che non è mai solo biologica anche quando fallisce nell’implosione dell’estraneamento e del disturbo.
La patologia mentale non è altro, piuttosto una forma di esistenza mancata in cui il vissuto implode nella fissità e il mondo dilegua nel silenzio. La reclusione aderisce a questo isolamento, lasciando il paziente alla sua sofferenza, solo il dialogo e la comprensione, come la riapertura del mondo al malato possono riattivare la possibilità di un’esistenza autenticamente umana.
La storia di ciascuno, nel benessere come nel disagio, non può essere narrata e scritta che dall’interprete che tessendo la trama si relaziona all’altro, nella prossimità e nella distanza, attraverso l’espresso e l’inespresso, in ogni istante e momento di una vicenda sempre aperta su una scena interpersonale e in un mondo comune.
Liberare tutto questo per una dimensione politica e sociale è stato il grande tentativo di Basaglia. Come ogni tentativo presenta certo punti da correggere, perfezionare. Al di là di questo noi siamo convinti che la legge 180 abbia cercato di aprire le porte non solo dei manicomi, ma anche a un mondo omologato e massificato. Se oggi si ritiene questa vicenda conclusa e non perfezionabile c’è da chiedersi se il mondo stesso pre-sunto normale abbia ancora qualche capacità d’ascolto e forza per misurarsi con la complessità della vicenda umana di 30 orsono. Se questo è un rischio per chi soffre, è anche una denuncia della povertà del mondo in cui viviamo.
Rossella Bonito Oliva
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