Noi affettiamo, tagliamo, laceriamo, spacchiamo, squarciamo, apriamo, sventriamo l’intero corpo, dall’ano al mento.
Noi passeggiamo tranquilli su strade note, pedaliamo vicoli cittadini, un signore ci urta -Mi scusi -Si figuri. Noi ci sediamo di fronte alla TV la sera, stanchi, critichiamo, ci alziamo, mangiamo, mastichiamo, inghiottiamo, espelliamo. E ricominciamo.
Il libro di Percival Everett questo fa: ricomincia. Ricomincia di continuo. Riparte da capo, riprende in mano la storia, la ripropone, avvia l’inesorabile massacro dell’identico mai uguale a se stesso. Asterisco Asterisco Asterisco. Non è un romanzo, non è un saggio, non ci sentiamo sicuri nemmeno di poterli definire ‘appunti’. Asterischi, cominciamenti, squarciamenti dell’intero apparato. Corporeo, se vi va. O statale. Umano, potreste dire. O sentimentale.
C’è una storia, ma evita sin da subito di accompagnarci per mano, lungo una linea. Ci sono dei personaggi, ci sono soprattutto degli odori: su tutti, l’acre dolciastro del legno striato di sangue. La violenza impregna le pagine, le stupra, incide un taglio orizzontale che continua, immancabile, senza fine. A violenza risponde violenza, asfissiante e scultorea. Siamo ben lontani da sparatorie splatter, di cui film e letteratura americana tanto volentieri si nutrono. Le pagine de La cura dell’acqua sembrano piuttosto essere una risposta a quell’immaginario, parole e immagini che si snodano con la sadica precisione dell’interminabile.
Al centro un uomo: la figlia è stata violentata e uccisa. I suoi occhi si fermano sul presunto assassino, su quello che potrebbe essere un innocente, ma scegliamo essere il colpevole. Niente di certo, niente di univoco. Gli eventi partono qui, ci trasportano attraverso un flusso infernale fino alla cantina del padre, palco non svelato di torture perpetue. Le righe si intrecciano e si sporcano di filosofia antica, di ricordi la cui tenerezza ha l’unico scopo di affilare la lama, delle parole di Alice. Manco morta! – disse la cuoca.
Non c’è nulla di consolatorio in ciò che è offerto, ha piuttosto l’aria della vittima sacrificale, pagine immolate come specchio di una cultura votata a un’inevitabile implosione. A violenza risponde violenza. E’ qui che le parole sfiniscono, nel dichiarasi inutili: tensione che si spezza di continuo e che quindi è impossibile tenere viva. Questo sembra dirci Everett quando chiudiamo il libro: le parole non bastano. Non sono rimpiazzabili, ma nemmeno possono più dire. Ci troviamo in quello spazio inconsolabile e inesprimibile, il vuoto verbale, il niente esistenziale.
..e quindi induciamo e scopriamo l’arduo nulla.
Qui testimoniata non vi è una sfiducia fine a se stessa, ma una messa in scena dell’inevitabile approdo di una cultura violenta impossibile da fermare. E’ questo il risultato del democratico schifo americano, assuefatto dai propri modelli, strangolato dal proprio sangue. Non ha più senso una mano che accompagni, che cerchi e crei spazi di cura, in un universo dove l’unica cura possibile è la cura dell’acqua: una tortura. Uomini vagano, in uno stato che trascende sordamente l’agonia della solitudine, e arriva a farne corpi scomposti, sventrati, putrefatti. Il minuzioso lavorio della lama potrebbe continuare all’infinito. Niente ridarà spazio alla vita e alle lettere, che restano a terra, immobili e ammutolite, lo scotch sulla bocca.
Noi passeggiamo tranquilli su strade note, pedaliamo vicoli cittadini, un signore ci urta -Mi scusi -Si figuri. Noi critichiamo, ci alziamo, mangiamo, mastichiamo, inghiottiamo, espelliamo. Ci sediamo davanti alla TV.
La faccia del Presidente del Consiglio fa da sfondo alle ultime dichiarazioni sul bunga bunga.
Stuprati,stuprati, stuprati.
Lucio Guarinoni per Altritaliani