Il titolo del nostro mensile si ispira, nelle parole come per la prospettiva che vorrebbe aprire, al contributo di Lamberto Tassinari, che qui pubblichiamo, per facilitarne la lettura, in due parti, e che similmente s’intitola appunto : Spaese mio.
« Il bel Spaese » è ovviamente, innanzitutto, un nero-amaro, volutamente sgrammaticato rovesciamento del bel Paese, cioè l’Italia, nell’algida immagine da cartolina conosciuta ai quattro angoli del mondo, e che sempre di più si rivela grottescamente usurata : « gli Italiani gente allegra, poeti e navigatori, pane amore e fantasia ».
L’Italia, viceversa, non sarebbe neanche un ‘paese’ (il che, storicamente, ha il suo senso pieno) e gli Italiani, tutt’altro che allegri, soffrirebbero di un’atavica difficoltà a coabitare lo spazio comune, condizione sine qua non della civiltà.
Spaese, poi, allude anche a chi ha lasciato il proprio paese, emigrando – per ritrovarsi appunto ‘spaesato’, ma non tanto o non solo all’estero, bensì (e chi ha compiuto questa scelta sa che non si tratta di un paradosso) proprio nel paese da cui è partito, ogni volta che ci torna …
D’altro canto, per coloro che, come molti di noi, hanno lasciato l’Italia prima dell’avvento della II Repubblica (leggi : Berlusconi), lo spaesamento si fa radicale : una frattura assoluta sembra infatti separare quell’Italia democristiana, che pure aborrivamo e abbiamo fuggito, dallo sfacelo culturale prima ancora che politico che rappresenta l’odierna Italia lego-berlusconiana. Ma è così ?
Il dibattito è aperto (intervenite, intervenite…) fra chi pensa che quella frattura sia effettivamente assoluta, quasi ci sia stato nel paese un mutamento genetico, e magari rimpiange persino Andreotti, e chi pensa che questo sfacelo esistesse già prima, molto prima, forse da sempre, quasi fosse una sorta di tara di nascita dell’essere italiani. Con in mezzo, è ovvio, una vasta panoplia di sfumature.
(Senza parlare, ovviamente, di chi pensa… che non ci sia nessuno ‘sfacelo’, o comunque che le cose non vadano poi così male…)
È difficile far storia del periodo dentro cui si vive, o che l’ha di poco preceduto, difficile farla con la passione : noi che abbiamo lasciato l’Italia, spesso per un’ingiustizia subita (o molte) e che, a seconda dei casi, sogniamo di ritornarci , oppure no, non siamo sempre i giudici più efficaci, almeno nell’immediato…
Pure qualcosa di molto generale, e poi di molto particolare, è possibile di provare a dirla.
In generale, come si è già detto, verrebbe da pensare che quello che oggi ci viene spacciato come rivoluzionaria novità (e che altro non è che lo sfascio della società civile sotto il manto protettore di un padre protettore) sia tutt’altro che nuovo : è la vecchia Italia controriformista di sempre (la stessa che criticano diversamente Leopardi e Manzoni!), che prende abito di modernità, è “l’eterno fascismo italiano”, di cui parlava Carlo Levi.
Se poi restiamo al secolo nostro (cioè oramai a quello scorso) più di vent’anni di fascismo e quaranta e più di democrazia cristiana rivelano quantomeno una tendenza, come la rivela la ricorrente attrazione (estetico-erotico-culturale, prima ancora che politica) per – mi si passi l’espressione – il cialtro-furbone forte, da Mussolini a Craxi (sottrattosi, ricordiamolo, alla giustizia, e oggi, con incredibile rovesciamento, anche lui in odore di santità, magari proprio con la connivenza di alcuni di quelli che un tempo erano pronti a linciarlo. Anche lui… esageriamo a dire che l’epoca è scellerata ?). Gli attuali cialtro-furboni sono noti a tutti, senza che, nominandoli per nome e cognome, ci si esponga a una bella denuncia. (Sto scherzando, spero, non siamo ancora arrivati a questo, anche se poco ci manca…).
Mi sono tanto volte, appassionatamente, « azzuffato » con l’amico Lamberto (solo con gli amici si può discutere con passione), che sembra quasi identificare il « berlusconismo » con « l’essere italiano » : perché rifiutavo, e rifiuto, di sentirmi parte in causa di quella cultura che mi fa orrore.
E perché (gli) ricordavo, e ricordo, quella tradizione di galantuomini e « gentil-donne » (com’è sessista persino la lingua), più e meno conosciuti, di differenti orizzonti politici e mestieri, da Antonio Gramsci a Piero Gobetti, da Natalia Ginzburg a Tina Anselmi, da Franca Trentin a Pietro Ingrao (ma i nomi son tanti, cito solo i primi che mi salgono alla memoria) che rappresentano una cultura radicalmente diversa, cui meglio mi sento di appartenere. Proprio a voler definire un’ « italianità », allora, si dovrebbe meglio dire che… sono due, due culture, due paesi radicalmente diversi, all’interno di un paese spesso maggioritariamente attratto dall’uomo forte e sempre sull’orlo della guerra civile (Umberto Saba, in una prospettiva quasi psicoanalitica, che sembra riassumere genialmente tutta la nostra storia, diceva : … « Gli Italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli »).
Pure, oggi, dopo tanti anni di Francia e ancor più di Canada (ecco, arrivo al particolare, con inevitabile spiraglio autobiografico) sono costretto a dirmi che quella cultura, quella comunità di valori cui mi richiamo – e cui si richiamano, storicamente, gli Altritaliani – è fortemente, culturalmente minoritaria nel nostro paese, e forse lo è sempre stata : la « Resistenza », l’entusiasmo collettivo degli anni sessanta-settanta, Mani Pulite, non sarebbero forse che dei lampi, con noi vittime di un’illusione ottica. (« Forse » : non voglio dettare una certezza, ma proporre spunti per una discussione).
In questo senso, la provocazione di Lamberto Tassinari dovrebbe essere letta come un’interrogazione (« in che misura siamo responsabili dell’avvento del ‘berlusconismo’ ?), e avrebbe il merito di farci riflettere. In questa prospettiva, la completo con una citazione di Eugenio Scalfari (da La Repubblica del 12 Aprile di quest’anno), che proprio Lamberto T. mi ha spedito qualche tempo fa, meno « provocatoria », più storicamente reale, e per questo, in certo senso, più agghiacciante :
« Liberi tutti. Liberi di costruire sul bordo dei fiumi e dei vulcani. Liberi di impastare il cemento con la sabbia del mare. Liberi di lesinare sulle armature di ferro. Liberi di scempiare il paesaggio. Liberi di violare i piani regolatori. Un popolo di eroi, di navigatori e di abusivi. Sempre condonati. Spesso incitati ad abusare. Come accade quando il fare diventa un fine a se stesso e sgomita per farsi largo, egoismo che lotta con altri egoismi.
È illusorio pensare che la classe dirigente possa esser migliore del popolo che la esprime. C’è un rapporto stretto tra questi due elementi di una democrazia funzionante e governante, tra la cittadinanza e la dirigenza. Se entrambe sono parte d’un circolo virtuoso si migliorano a vicenda, ma se entrambe fanno parte d’un circolo perverso, a vicenda si imbarbariscono ».
Dal generale di nuovo al particolare, e poi al generale… Quando ero ragazzino ridevo degli stranieri che si lamentavano, venendo in Italia, degli Italiani che gettavano carte per terra, o non facevano la coda alla Posta… « Ci sono cose più importanti », dicevo… Oggi continuo a pensare che, certo, « ci sono cose più importanti » — pure mi sembra che fra il non sapere o voler fare le file e lo sfacelo odierno ci sia un filo comune : la non curanza del « bene comune », l’esaltazione dell’interesse privato, magari accodato al culto della famiglia, come unico microcosmo che vale la pena di difendere.
(Paul Ginzborg ha scritto in proposito pagine incisive… E Lamberto T., per citarlo ancora – del resto gli dobbiamo lo spunto di partenza per questo mensile – ci serve per un’altra delle sue belle provocazioni generalizzanti : « Gli Italiani diventano più civili all’estero » – ma io aggiungo, ricorrendo a Perec : « mais parfois non ».)
Eccolo, insomma, il Bel Spaese, sorta di atto di fondazione di noi, Altritaliani.
Anzi, per me (e qui parlo a titolo personale), questo « spaesamento » è anche un modo, finalmente, per (sof)fermarmi, per provare a spiegare la mia difficoltà, in quanto casualmente italiano, a parlare dell’Italia (nasciamo tutti « casualmente » da qualche parte, e di questo « caso » non c’è nulla di cui andar fieri – avendo passato fuori dall’Italia la metà della mia vita, non sento di « amare » gli altri paesi in cui ho vissuto meno di quello in cui sono nato, e provo per i nazionalismi tutti una profonda allergia ; come la provo ad esempio per l’attuale dibattito francese sull’ »identità », che trovo nel migliore dei casi insulso, nel peggiore, pericoloso).
Un tempo, quando il « berlusconismo » ha cominciato a montare, mi piaceva ricordare una vecchia frase di Marx (ma non ho mai trovato la fonte esatta) : « l’unico sentimento legittimo nei confronti della patria, è la vergogna ».
Oggi, stanco di continuar a parlare male di Berlusconi, non vedo perché la mia « italianità » dovrebbe per forza chiamarmi in causa – quasi che per vocazione gli Italiani dovessero parlare, nel bene o nel male, dell’Italia… Non mi sento più, insomma, nessun tipo di fremito patriottico.
Questo vuol dire che sono indifferente ? Ovviamente no, l’Italia è il posto dove ho trascorso i primi anni della mia vita, in Italia abitano ancora persone che mi sono assai care, quello che vi succede mi afflige, o mi preoccupa – ma non ne provo (più) vergogna, in senso stretto, né, reciprocamente, fierezza.
(Dove la lingua italiana ci ha imposto una “patria”, il tedesco – proprio il tedesco! – racconta di Vaterland e Heimat, e ci indica il Luogo, che non è uno spazio, ma appunto un Tempo, al di fuori del tempo: quello della nostra infanzia, che non si può toccare, che s’impossessa anche del silenzio dentro il quale sta immerso. Con il luogo della memoria, immateriale, e che forse non è mai esistito, si ha un legame fortissimo, individuale, che tuttavia non dà diritti, di sangue o di altro, non disegna frontiere, non esalta né abbatte…).
… Collettivamente, allora, mi sento più vicino ai tanti volti dell’emigrazione, italiana e non. E di quella italiana mi avvince, da un lato, lo struggente legame, appunto, con la memoria ; dall’altro (e sempre di più da quando, da almeno una ventina d’anni a questa parte, si è colorata fortemente nel senso della « fuga dei cervelli ») la sua capacità di interessarsi ad altro, e di aprirsi alle altre culture, di farsi stimolo critico, con un vero e proprio, fecondissimo, spirito diasporico.
Spero che tanti entreranno in questo dibattito. Intanto, per cominciare, invito a leggere appunto i due pezzi di Lamberto Tassinari, con una precisione : si tratta del testo introduttivo di un libro in via di scrittura che l’autore cercherà di pubblicare in Italia prima della fine del governo Berlusconi. (E aggiungo : purtroppo, temiamo che abbia tutto il tempo.)
Arabis