Cos’è questa noia che ispessisce le pareti tra noi e il mondo? Cosa ci costringe a questa solitudine?
Tante le risposte possibili a questi due interrogativi, domande semplici che prevedono risposte sconfinate, e una delle risposte più recenti e interessanti è data dall’opera di Marcello Fois « Nulla », testo pubblicato nel 1997 edito dalla casa editrice sarda « Il Maestrale » (130 pagine, 10 euro).
Fois nasce a Nuoro nel 1960, e proprio la Sardegna sembra essere il luogo dove i sedici racconti sono ambientati. Ma cos’è questa mania di collocare, di rintracciare l’ambientazione, di rincorrere le note dialettali fino a ritrovarne l’origine? Tutto ciò non ha alcun senso, da una parte perché la letteratura, per sua duplice natura, tende tanto al generale quanto al particolare, dall’altro perché l’autore, nelle prime pagine del romanzo, specifica il luogo da cui provengono tutte le storie che si raccontano. Il luogo si chiama « Nulla », ed è a-geografico, non si trova su nessuna mappa, non è localizzabile fisicamente, è un non-luogo esteso ed estendibile, lo portiamo dentro, forse da sempre, noi che siamo nati negli anni settanta e ottanta, senza negare l’appartenenza a chi ci precede anagraficamente o a chi ci segue.
Il libro mi colpì, tra gli scaffali di una biblioteca, per la sua copertina: due piedi in primo piano e, lontana, una strada. « Il Nulla », lessi, di Marcello Fois, « ah – pensai – il romanziere e poeta sardo ». Avevo già incontrato questo nome, varie volte, nelle librerie, ma ancora non avevo sfogliato un suo libro.
Presi il volume e cominciai a leggere, il primo racconto si chiama « Uno, diciassette anni », e mi meravigliai della sensibilità con la quale l’autore era in grado di riportarmi a quell’età, in cui fortunatamente non potevo trovare il contesto, culturale e sociale, in cui si trova il protagonista del racconto: l’aridità culturale delle campagne sarde. Subito dopo lessi il secondo racconto, poi il terzo e il quarto. Il libro scorse via e pian piano cominciai a capire quei piedi in copertina: sono i piedi di un uomo che sta per lanciarsi nel suo ultimo salto, il più alto della sua vita. Finito il libro volli rileggerlo: finalmente qualcuno che aveva ruggito, con più energia di me, a questa inconsistenza, qualcuno che aveva tradotto in parola letteraria i miei sforzi di evasione, che mi ha lasciato immaginare come sarebbe percorrere quel pensiero fino in fondo. Quale pensiero? Il pensiero del suicidio, pensiero che credo ognuno ha accarezzato più di una volta, quando la vita ti annoia e gli sforzi sembrano inutili, e quel balzo, quell’ultimo salto sembra così a portata di mano.
Vien voglia di immaginare questo « Nulla », come una città circondata dalla nebbia in cui s’ergono campanili gotici dalle pietre scure e architetture severe; ricorda luoghi già visitati, il Seneca del « De Brevitate Vitae », che suggerisce metodi semplici per liberarsi dalla vita, come ogni ramo d’un albero e un po’ di corda; torna Werther, la sua pistola, il sangue sulle pareti; i suicidi tacitiani. Ma, a ben vedere, cosa c’è di differente tra esempi citati e il nostro « Nulla »? Werther e l’amore per Carlotte, Seneca e l’amarezza dell’esilio, Tacito e le liste di proscrizione, Fois e quel « nulla » che sottrae un senso. Penso a Werther, senza la sua illusione e senza l’amata Lotte, senza poter dare significato al frac turchino e al gilet giallo.
Molto spesso i personaggi di Fois non sono angosciati da un sentimento non ricambiato, non lottano per la libertà individuale, non si sacrificano per un ideale, ma vengono scherniti dall’ignoranza, dalla retorica dell’utile e del lavoro, derubati a ogni istante dalla « tele-spazzatura », sono frustrati da discorsi come: « piuttosto che mandarti a studiare Lettere in Continente ti ammazzo con le mie mani », oppure: « …che i finocchi sono dei malati; che se ci ‘sarebbero’ stati ancora i casini; che a me mio padre mi ha portato a donne quando avevo sedici anni, e non gli avevo fatto fare brutta figura…, che tutte queste storie di scrivere e passare la notte sveglio; che le bollette della luce; che la mattina sembri un deficiente… ». A vedere i personaggi di Fois fatti di discorsi uditi in bar di periferia, con le mani grosse e l’odore rancido delle campagne sembra di averli sempre intorno, di conoscerli uno a uno.
In questo « nulla » che sfugge ai confini sono lontani i tempi dell’illusione. Virtuale e telematico entrano ad appiattire quel briciolo di fantasia che conserviamo, la retorica bigotta dei cattolici ci annichilisce, i luoghi comuni sono ovunque, e gli ignoranti sempre pronti a giudicare. Ma il « Nulla » non è un invito al suicidio, ad abbandonare ogni speranza, al contrario, è questo testo che lascia un po’ di rabbia, quella necessaria ad attraversare le giornate più buie e a proseguire in una « direzione ostinata e contraria ».
Carlo Baghetti