Il neonato governo Letta che ha appena ricevuta fiducia da Camera e Senato è frutto dell’appello all’impegno e alla responsabilità di Napolitano. L’azione del Presidente ripropone il dibattito sul ruolo del Capo dello Stato, mentre Letta sembra riaprire una via parlamentarista in Italia. Ecco il punto di vista di Raffaele Bussi che rievoca un’altra stagione in cui la debolezza della politica sembrava (come oggi) favorire scenari inquietanti ed antidemocratici.
Provo ad inoltrarmi in una lettura non convenzionale di tutta l’operazione che ha portato alla formazione della compagine governativa guidata da Enrico Letta.
Se l’operazione è stata possibile il merito è da attribuire unicamente a Giorgio Napolitano che in tempi non sospetti, quali quello attuale, ha dimostrato doti ineccepibili di autorevole statista.
Del resto il marinaio esperto e capace lo puoi valutare solo quando il mare è in preda alla tempesta.
Affermazione non gratuita perchè l’uomo ed il politico Napolitano non è nuovo ad esperienze che vede nei momenti di grande difficoltà richiamare all’ordine ed al dovere tutti, nessuno escluso, per mettere la giovane democrazia italiana, e la sua struttura repubblicana, al riparo da sorprese antiche.
Il precedente? Correva l’anno 1975.
I terribili anni ’70. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone, vituperato all’epoca per poi essere riabilitato, di fronte alla pesante crisi che attraversava il Paese, la cui gravità non aveva sottaciuto nei messaggi di fine anno dal ’71 al ’74, non si crea problema nell’esternare il grande pericolo che corre la Repubblica attraverso un’intervista rilasciata a Michele Tito sulle pagine del Corriere della Sera che il 28 agosto del 1975 apre con un titolo a sei colonne: Leone afferma che non può rassegnarsi a tacere di fronte ai pericoli che insidiano la Repubblica, dove annuncia un messaggio al Parlamento per denunciare le condizioni in cui versa il Paese ed invitare le forze politiche a provvedere con urgenza.
La mia preoccupazione è grande: vedo che c’è quasi uno spirito di resa. Non sono al Quirinale per mettere migliaia di firme – denuncia Leone – molte delle quali di nessun significato sostanziale, oppure per presenziare a celebrazioni o a congressi. Occorre trovare una soluzione, è forse questione di vita o di morte per la sopravvivenza economica e civile del Paese…Per questo continuo a domandarmi: posso tacere, quale è adesso, in questo momento difficile, il mio dovere?
La denuncia di Leone sembrava fotografare il momento attuale.
Leone fa riferimento al conflitto sotterraneo tra lui ed una parte dell’establishment politico sul diritto del Capo dello Stato di esternare il proprio pensiero in modo autonomo. Il precedente di una conversazione con un giornalista che aveva riferito delle meditazioni del presidente (Segni n.d.r.) era ancora vivo: si erano levate proteste, si era affermato che non spetta al Capo dello Stato esprimere giudizi e prendere l’iniziativa di dare pubblicamente agli uomini politici suggerimenti sul da farsi.
La verità è che Leone tornava sul problema di una presenza del Capo dello Stato che, nel rispetto della Costituzione, ha il dovere di non essere estraneo a ciò che accade, perchè non c’è altro modo di essere garante delle istituzioni.
La verità è che nella contraddizione tra le esigenze quotidiane e il modo di intendere la funzione presidenziale, il Capo dello Stato è costretto ad agire spesso in via riservata con interventi a volte determinanti e, si può supporre, sempre più frequenti via via che la macchina dello Stato e la vita politica vanno verso la paralisi. Ciò che Leone non diceva, e probabilmente avrebbe negato, è che, nel vuoto di potere, c’era il dramma di un Capo dello Stato costretto ad esplorare, ormai in solitudine, tutte le possibili vie di intervento consentitegli dalla Costituzione.
Se non si valutano queste cose, chiariva Leone, occorre in qualche modo richiamare il parlamento all’orgoglio delle proprie prerogative con l’aggravante che in quei giorni di ferragosto del 1975 dilagavano gli scioperi che colpivano soprattutto i lavoratori. Era il tema di un’Italia che sembrava un Paese rassegnato alla fatalità delle disfunzioni e degli sprechi compresa l’inefficienza ed i costi della pubblica amministrazione.
L’orgoglio delle prerogative del parlamento vengono raccolte dal PCI, attraverso una replica proprio dell’attuale presidente della Repubblica Napolitano che all’epoca ricopriva il ruolo di responsabile della funzione pubblica e dei rapporti con i pubblici dipendenti del PCI, il quale affermo’ che il governo dell’epoca era troppo debole perchè diretto da un partito in crisi profonda e che fino a quando non si sarebbero sciolte le contraddizioni della DC e fino a quando le basi della formazione governativa e le basi di consenso attorno al governo non fossero state allargate a nuove forze sociali e politiche, si sarebbe potuto contare sempre solo ed esclusivamente su di un governo debole.
Napolitano dichiarava che i comunisti, attraverso molteplici iniziative, sarebbero stati pronti a dare in Parlamento e nelle Regioni contributi concreti all’elaborazione di nuovi indirizzi di politica economica, se fosse stato riconosciuto al PCI un ruolo di responsabilità di governo. Il Napolitano pensiero dell’epoca è registrato in un’intervista che l’attuale Presidente rilasciò a Gaetano Scardocchia sempre sulle pagine del “Corriere della Sera”.
Tutto questo per stigmatizzare alcune cose, prima che se i corsi e ricorsi storici in politica hanno una valenza, pur con le dovute eccezioni, le vicende attuali sembrano ricalcare quelle degli anni ’70 e che la crisi, quella attuale, è retrodatata di decenni e che solo oggi in clima di europeizzazione del vecchio continente emerge con prepotenza ed in tutta la sua crudeltà.
Tutto questo non poteva sfuggire al saggio Napolitano che, di fronte alle paure di chi ha attraversato la politica con strumenti inadeguati, non ha esitato a dettare le proprie condizioni di fronte al baratro che stava facendo sprofondare il Paese.
Una scelta coraggiosa, il segnale inequivocabile ai riottosi di farsi da parte per fare largo ai propri figli politici, quelli che senza esitazione hanno dimostrato nel preambolo di essere migliori dei padri, quantomeno nel dimostrare che riescono a parlarsi e a dialogare senza odiarsi e senza alzare barricate verso l’altro, considerato fino ad oggi il nemico da abbattere.
Sarà stata la congiuntura favorevole ad instaurare il nuovo modo di rapportarsi in politica tra chi è chiamato a governare e chi è destinato al controllo, ma pare che ci siamo arrivati a dispetto di quanti in aula hanno votato con la riserva mentale, retroterra di un’archeologia politica e parlamentare che sopravvive a se stessa, vedi Bindi, e come chi arrotandosi sulle parole si parla addosso da sempre senza esprimere concetti comprensibili per poi guardarsi allo specchio per riconoscersi bello, vedi Vendola, e di chi approfittando del vuoto monta la protesta pericolosa con linguaggio istigatore buono solo per eseguire misfatti, vedi Grillo, o di qualche giovane, nato vecchio, che è già un superato arnese da deporre in cantina.
Dalle prime battute pare che Enrico Letta voglia imboccare la strada giusta per riportare la politica ai fasti migliori della sua storia, ma soprattutto per ridare credibilità a quel partito politico senza il quale nessuna democrazia parlamentare o presidenziale è in grado di sopravvivere a se stessa.
Raffaele Bussi