L’eloquio politico e la ricerca del consenso. Mettiamo a confronto tre esempi di possibili discorsi perfetti quelli di Roosvelt 1933, di Berlusconi 2004 e Macchiavelli 1513. Come preparare il discorso perfetto del 2013?
Alla domanda «Perché il linguaggio è fatto così?», il linguista Halliday (1925), risponde che la struttura del linguaggio si pone in stretta relazione con le prestazioni che ad esso richiediamo. Pertanto, in un tempo di richiesta di performances pubbliche così cogente come il nostro appare, sondare il legame tra linguaggio e politica può orientarci a capire meglio chi abbiamo di fronte e a operare con il voto la nostra scelta consapevole.
Se è vero che la bellezza inizia quando iniziamo a scegliere, – parole, fiori, colori, persone non importa-, ne consegue che ogni oggetto del reale in contesto, di cui anche la scienza politica sonda l’evoluzione, possa essere sottoposto a una selezione, per così dire, estetica.
A febbraio 2013 l’Italia ritornerà sotto i riflettori internazionali per un avvicendamento al governo che dipenderà in buona misura dal potere di persuasione che gli homines politici avranno sul blocco di votanti. Votanti eterogenei anche e soprattutto nella predisposizione d’animo. Parlare alla collettività non presuppone soltanto una padronanza delle regole grammaticali e sintattiche della lingua scelta come veicolo, ma anche e soprattutto una consapevolezza matura dell’arte oratoria e delle numerose potenzialità che questa offre a chi sa farsela amica.
Gli idealtipi della comunicazione politica non nascono oggi naturalmente; in uno sguardo retrospettivo e oltreconfine, mi sembra di poter posizionare il picchetto di inizio exursus nella Grecia di Gorgia e Corace [[I fori di Atene: l’ambito sociale che creava necessità di organicità e strutturazione del monologo nell’antica Grecia era sicuramente quello giudiziario; infatti l’arte retorica, intesa come capacità di persuadere l’uditorio e di portarlo a favore dell’oratore nasce per supportare cause e difese. Gorgia per primo, opponendosi alla rigidità di Corace, introdusse nella disciplina del parlare bene le figure retoriche o di senso, quasi del tutto desunte dal linguaggio poetico ed epico. Questi stratagemmi sopraffini avevano come obiettivo quello di convincere il pubblico non soltanto attraverso lo svolgersi delle argomentazioni verosimili (non sempre veritiere), ma anche tramite artifici linguistici in grado di incantare e, aggiungiamo, distogliere il ricevente dal vero focus on. Linguaggio stereotipato e ragionamento sillogistico. Per approfondimenti, Maurizio Migliori, La filosofia di Gorgia, Milano: CELUC, 1973.]] per arrivare alle modalità di gestione della cosa pubblica adoperate dai leader del tempo presente, dall’America alla Cina. Ad avvalorare la tesi di una modalità di interazione con le masse che deve farsi raffinata e certosina affinché soddisfi le necessità dei referenti in ascolto, si può menzionare anche il singolare caso di un successo cinematografico del 2010, “The king’s speech” (Il Discorso del Re), in cui un acuto Tom Hooper mette “in bocca” all’erede al trono di Giorgio V delle parole che il principe balbuziente riuscirà a pronunciare soltanto dopo allenamenti estenuanti e correzioni di varia natura (logopedica, fonetica, psicologica).
L’espressione politica non si improvvisa dunque.
La modalità di analisi del discorso qui proposta prevede un gioco a specchio tra pagine di eloquio completamente differenti per provenienza geografica e momento storico, ma assimilabili per condizione di partenza dei paesi che ne erano (e sono ancora) destinatari: una condizione di sacrificio.
Un discorso perfetto? Franklin Delano Roosvelt (1933): con le fireside chats, il presidente americano colpito da paralisi, unico ad essere eletto per più di due mandati consecutivi, spiegò il New Deal agli americani. Già a partire dalla definizione che fu fatta dello spazio di incontro tra lui e il suo popolo: ‘chiacchierate al caminetto’, appunto, spuntiamo una particolarità: se da un lato la potenza del fuoco che brucia richiama alla mente lo scoppio delle armi da impugnare per il bene comune (entrata degli USA nel secondo conflitto mondiale), dall’altro il caminetto incarna per eccellenza l’idea di focolare domestico, quello di fronte al quale si parla in famiglia, con toni pacati e di accordo, senza battere i pugni. La semplicità delle parole usate con spin doctoring (termine oggi traducibile in “tecnica di propaganda” per dirla con Francesco Regalzi[[F. Regalzi, Ripartiamo!, ADD editore, Torino, 2011.]] ), rivendica la volontà ferrea di trovare consenso in maniera non surrettizia. Non c’è niente di insinuato. Nel discorso del 4 marzo 1933, Roosvelt cementifica i suoi argomenti proprio su un’assiomatica verità:[(«Bisogna dire la verità, tutta la verità con sincerità e coraggio. Non ci si può esimere dall’affrontare con onestà la situazione del Paese».)]
La situazione è gravissima e con la stessa gravità (linguistica in primis), il Presidente ritiene di doverla affrontare. La ricorsività dei lemmi selezionati appare chiara e martellante: «verità», «sincerità» e «coraggio». Nel prosieguo, R. si affiderà anche a metafore marziali:[(«[…] dobbiamo avanzare come un esercito leale e ben addestrato, disposto a sacrificarsi per il bene comune».)]
Mi sembra interessante rimarcare che questo discorso è a tutti gli effetti la chiamata alle armi dell’intera Nazione: un Paese che era appena uscito dal crollo della borsa del ’29 e che si affacciava con posizione di ago della bilancia in conflitti mondiali, figli “bastardi” dei totalitarismi di portata catastrofica. Un Paese mediatore e ambasciatore di pace (?), al quale il primo cittadino chiedeva sottovoce di impugnare le armi. In realtà proprio di un sottovoce comune non si può parlare.
Un capo di governo, nelle varie scelte, deve selezionare anche il mezzo mediatico attraverso cui diffondere le sue idee e aggiornare i cittadini dello status quo. R. riesce a convocare intorno alla radio intere famiglie, che pendono da labbra soltanto disegnate e evocate a partire da parole ben scandite. R. è premier in absentia (televisivamente parlando); tuttavia questa condizione di retrocessione dell’aspetto corporale (nelle sue condizioni di paralitico avrebbe potuto addirittura colpire l’elettore con il fattore pietas), non riesce a scalfire il suono delle sue parole. Tensione morale e semplicità, appello alla missione collettiva liberata dalle meschine faziosità dei partiti (nel caso americano quasi azzerate), richiamo alla tradizione militare belligerante con in seno finalità pacificatrici concorrono alla strutturazione dei discorsi roosveltiani. Lo iato tra antichità e modernità in favore di un’azione di morte hic et nunc non suona come un passo indietro: la parola d’ordine è avanzare. Andare avanti in direzione di un sacrificio umano ed economico perché la Patria chiama. Perché la Patria significa il più delle volte sacrificio. Nel silenzio della trasmissione radio, nella mediasfera di cui ha dettagliatamente argomentato Giovanni Sartori, tutto il mondo è paese. E R. sa bene che ai paesani il fuoco fa meno paura.
Un discorso perfetto? Silvio Berlusconi (2004): l’incontro verbale con gli operai nei cantieri aquilani messi in ginocchio dal recente terremoto è la dimostrazione di “un” altro metodo politico.
[(«Come si fa a non commuoversi in questo momento…[applausi dal pubblico: vai Silvio, forza Silvio, sei tutti noi!] È un momento solenne, un momento intenso…[dal pubblico: Silvio: accendi la luce!] Forse il nostro Paese ha bisogno davvero della luce della speranza e della fiducia…[applausi]. Mentre venivo qui ho pensato che c’era un matto che stava andando a incontrarsi con altri matti…[applausi dal pubblico: Silvio, Forza Italia!!! Altrimenti ci tocca scappare!].
Non credo, non credo…io credo che in questa Italia ci resteremo, ma abbiamo deciso di restarci come uomini liberi! Ebbene, pensando a questa follia che sembra aver contagiato tutti noi, e tanti altri insieme a noi, io pensavo che si era verificato ancora una volta quel che avevo scritto in una prefazione a un bellissimo libro, l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. In quella prefazione dicevo: «È vera la tesi che viene fuori da queste pagine: le decisioni più importanti, le decisioni più sagge, più giuste, la vera saggezza, non è quella che scaturisce dal ragionamento, non quella che scaturisce dal cervello, ma è quella che scaturisce da una lungimirante, visionaria follia.» [applausi][[Riprendo la trascrizione dei discorsi berlusconiani da B. Severgnini, La pancia degli Italiani, BUR, 2010, p. 104. I corsivi fanno parte della citazione dell’autore.]] )]
Preliminarmente va rimarcato che B. ama parlare in presentia: non è un caso infatti che sia sempre sottesa alla sua comunicazione una necessità di risposta (positiva) immediata, appagata dalla struttura stranamente dialogica del suo manifestarsi pubblico. Il plauso, la claque che incita e si fa consensiente alle parole dette risulta pertanto costitutiva del messaggio in atto. In seconda istanza, il focus sul lessico ricorrente dell’ex presidente può chiarire quel potere mediatico (videopolitico) che mi pare sia la cifra del suo modus operandi.
B. usa un linguaggio sintatticamente semplice: paratassi, pause di tono che enfatizzano e costruiscono in crescendo l’atmosfera di raccolta delle informazioni e indottrinamento; un italiano composito, pastiche di antico e ultramoderno, di filosofia del marketing spicciolo e allusività letteraria stereotipata. Quanti operai conoscevano Erasmo da Rotterdam? Dopo il discorso dell’ex premier molti. Almeno per nominata. Quindi un operaio che in quattro e quattr’otto diventa edotto su temi che non gli apparterrebbero di default è una testa in più, votante e illuminata. Per un momento il dramma aquilano diventa pretesto per un’operazione di s-provincializzazione e in-culturazione guidata. Nel caso nostrano non c’è un mondo che diventa paese nel megafono politico, piuttosto un politico che si trasforma rispettivamente in paesano. Se Nietzsche si era impegnato in fiumi di parole (oscure anch’esse), per incollare addosso al cattivo politico la qualifica di mistificatore perché manipolatore della folla tramite linguaggio oscuro, qui troviamo parole belle allignate su un pubblico in formazione. B. funziona nel momento in cui riesce a dare al suo pubblico anche ciò che non si aspetta. Follia, pazzia, visione: un tris concettuale che non informa sulla salita da percorrere, ma ci rassicura su un punto: il sacrificio della realtà contingente è lontano. Re della captatio benevolentiae di memoria ciceroniana.
Cambiando pubblico, bisogna cambiare codice: così abbiamo usi di vocaboli desueti come «facinorosi», «obsoleto», «plaudibile», usati in combinazione con il passato remoto, decisamente innaturale per un lombardo doc. Una sorta di codici liceali, che andavano bene quando cercavamo di farcire discorsi concettualmente scarni perché non abbastanza sedimentati e di riproporli all’interrogazione. E ancora si ha un codice spogliatoio, uno da stadio, uno amoroso e uno marinettiano identificabile con l’uso di parole predilette quali «protagonista», «moderno», «competizione» e «futuro». Lungimiranza lessicale o marketing?
Un discorso perfetto? Niccolò Machiavelli (1513): «Non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che mangi il topo», per riprendere una massima del controverso leader cinese Deng Xiao Ping degli anni ‘80. Al di là della similitudine animalesca e favolistica riproposta, il concetto rimandava tra le righe all’importanza assoluta di conseguire risultati, anche se i mezzi utilizzati per il loro ottenimento fossero stati poco ortodossi. Molte, troppe dissertazioni di carattere letterario e politico hanno voluto interpretare le teorie machiavelliche (nell’accezione non marcata negativamente dell’aggettivo), nel senso unico di un potere politico e quindi di una spregiudicatezza oratoria illimitata del Principe rinascimentale. Nella personale astensione da giudizi così coraggiosi, mi limiterei a riabilitare un concetto basico: il ragionamento che M. svolge nel Principe è orchestrato in modo da risultare avvincente per il lettore, che viene costretto a seguire la progressione di un pensiero di alta qualità intellettuale, marcato per antitesi, secondo una logica essenziale[[Il contrasto antitetico è quasi sempre fornito dalle coppie oppositive fortuna/virtù e felicità/ruina.]]. Un buon esempio del metodo procedurale adottato si ha nella lettura del capitolo XXV del Principe dal titolo “Sghiribizi scripti in Perugia al Soderino”[[Cito dall’edizione del Principe a cura di Mario Martelli, Edizioni del Galluzo, 1998, Firenze. I corsivi sono miei.]], al cui centro c’è la fortuna e le sue matrici.
[(«Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando gli uomini ne’ loro modi ostinati sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che rispettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano; e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.»)]
La conclusione del cap. XXV del Principe è improvvisa e esplosiva, fa seguito al fallimento del programma razionalistico volto alla definizione di una totalità in cui una virtù onnicomprensiva e assoluta sia in grado di dominare gli opposti e contraddittori colpi della fortuna. Il fallimento del programma “scientifico” e la scelta della parzialità non viene comunque ad essere una resa o una concessione alla dimensione istintuale, ma corrisponde al dovere morale di non lasciarsi andare, di coltivare la speranza e l’azione, in qualunque “travaglio” ci si venga a trovare. Il messaggio ci riporta dunque non tanto al clima del ragionamento politico rigoroso, proprio di uno tecnico della politica, quanto piuttosto allo scatto improvviso della fantasia e della passione, incapace di fissarsi in conclusioni statiche e neutrali, ma aperta all’imprevisto e al disordine possibile. Si tratta di un tipo di scrittura in cui la meditazione politica si esprime attraverso un’oratoria incendiaria del vero, e si traduce quindi in un’ utopia retrospettiva e profetica. Freddezza da scongiurare, Politica come scelte fortunate da incasellare una dopo l’altra, utopie profetiche che farebbero pendere l’ago della bilancia delle analogie dalla parte della modalità B (Berlusconi). Tuttavia in Machiavelli la politica non diventa mai missione fatalistica, ma rimane ben ancorata all’azione del reale, alla verità storica in atto di ricordo roosveltiano.
Il Discorso Perfetto del 2013: il cittadino italiano ha davanti a sé programmi e facce che proclamano in cori separati un repulisti di ogni traccia di falsità e corruzione. La partita si gioca quasi tutta sul discorso del leader che risulterà meno stereotipato e avrà la capacità di movere gli animi (nel senso ciceroniano del termine) e spingerli a votare. Il politico quindi dovrà fondarsi su un’adeguata conoscenza del destinatario, del suo ruolo sociale e ideologico e della sua competenza interpretativa, del sistema culturale di riferimento e dei problemi dell’ambiente in cui vive: una vera grammatica di riconoscimento del ricevente[[M. V. Dell’Anna- P. Lala, Mi consenta un girotondo, Mario Congedo Editore, Galatina, 2004, p. 24.]] che orienterà il candidato ad una scelta di regia discorsiva al posto di un’altra. Tale marchio di fabbrica distintivo porrà ancora più in risalto la funzione conativa del linguaggio, puntando alla ricerca del consenso e dell’adesione convinta; la sua efficacia persuasiva sarà tanto maggiore quanto più il «far sapere» slitterà in un «far credere» e da qui in un «far volere».
Machiavelli in un salto lungo 500 anni ci suggerisce ancora che il nostro principe deve far credere (anche e soprattutto nel travaglio e nel sacrificio).
Roosvelt ci riuscì con l’informazione piana; Berlusconi è riuscito a far illudere con l’informazione numerica e con la visionarietà. La domanda ora da porsi seriamente è: chi riuscirà oggi con il discorso perfetto a farci volere? Per dirla con Ezio Mauro, ci troviamo in una pianura di disponibilità democratica nella quale ci vengono incontro i cartelli pubblicitari con mille volti diversi. La scelta “estetica” è davvero fondamentale e l’astensione borbottata dai molti delusi rappresenterebbe soltanto un fallimento a tavolino. Uno strappo lacerante nel processo politico di EU-cambiamento (da intendersi non soltanto come europeo ma come migliorativo alla latina), che tutti dovrebbe coinvolgere a più livelli. Mai come in questo caso, volere sarà potere.
R. Chiara Vitolo