Giovanni Perrino, originario di Corleone in Sicilia, ama profondamente la Russia. Per un quinquennio (2005-2009) ha vissuto a Mosca un’intensa esperienza professionale presso l’ambasciata italiana. La sua raccolta « Dorso d’asino – Possibili rallentamenti » (Ed. Interlinea 2012) costituisce un incontro originale fra due culture, quella siciliana e quella russa dei nostri giorni. “Le poesie di Perrino sono bellissime: quelle russe in particolare, fra memoria, evocazioni di poeti e di storia, di schianti e di stazioni e paesaggi sempre un poco metafisici..” (Giorgio Barbieri Squarotti, dell’Università di Torino).
SUONO DELLA LINGUA E VALORE DELLA PAROLA NELLA POESIA DI GIOVANNI PERRINO
Ho già avuto il piacere, qualche anno fa, di presentare un altro volume di poesie di Giovanni Perrino “Ellis Island”, che era accompagnato da una fascetta dal titolo significativo: “Poesie dopo l’11 Settembre”. Erano compendiati dunque, nella copertina, due riferimenti importanti legati a due tragici momenti della storia umana. Ellis Island è l’isoletta nel porto di New York a cui approdavano i bastimenti carichi dei nostri emigranti, dopo viaggi lunghi e penosi verso una terra che avrebbe fatto patire loro sofferenze e umiliazioni d’ogni genere, ma al cui benessere avrebbero grandemente contribuito col loro duro lavoro. Di fronte all’isoletta sorgevano le due torri gemelle, il cui crollo in seguito al tragico attentato ha segnato una svolta importante nella storia recente. Simbolicamente, rappresentano il crollo delle speranze, impersonate, queste ultime, da Ellis Island. l’isola degli arrivi, che simboleggiava l’inizio di una vita nuova e di un sogno di libertà.
L’ispirazione legata a questi eventi rivela già uno degli aspetti dell’opera poetica di Giovanni Perrino, l’impegno civile, che lo porterà alla condanna della violenza nelle sue varie forme, anche in questo recente volume, Dorso d’asino, il cui titolo insolito si riferisce, letteralmente, a quel sollevamento tondeggiante del fondo stradale che obbliga l’automobilista a rallentare la sua corsa. Questa denominazione, in italiano, non è molto comune: da noi si preferisce quella di dissuasore di velocità o semplicemente di dosso. Dorso d’asino è un francesismo, dos d’âne. E’ la prima testimonianza, già nel titolo, della formazione poliglotta dell’autore, che attinge dal multiculturalismo molte fonti d’ispirazione.
Anche in questo volume, inoltre, abbiamo un sottotitolo: “possibili rallentamenti”, che, riferendosi apparentemente alle finalità del dorso d’asino stradale, illustra il significato profondo dell’opera.
L’Autore stesso, nella nota iniziale, spiega il senso che ha voluto dare a questa immagine; ci sono momenti, egli dice, in cui è necessario rallentare il ritmo e fermarsi a riflettere. E ci riferisce anche un costume delle popolazioni andine, che prima di intraprendere un viaggio, hanno l’abitudine di fermarsi dietro una curva che non permette di guardare lontano.. Questa sosta viene chiamata “attendere l’anima”. E’ dunque un momento di riflessione, di attesa, di ripiegamento su se stessi, di meditazione su ciò che può attenderci dietro la siepe che nasconde l’orizzonte (ricordiamo l’immagine leopardiana) cioè quella linea circolare in cui pare che cielo e terra si tocchino: e queste poesie riflettono appunto i due aspetti, quello materiale e quello spirituale, di cui fanno parte anche la ricerca e il timore dell’ignoto e del futuro.
La poesia, com’è noto, permette anche di esprimere gli attimi di dubbio o di smarrimento di chi, lungo il percorso della vita, si interroga su ciò che lo attende.
In questo volume si può sempre cogliere una riflessione sulle ragioni stesse dell’esistenza: si tratta dunque di poesie che esprimono un possibile rallentamento della nostra corsa, spesso caratterizzata da velocità, imprudenza, superficialità e quindi mancanza di riflessione.
In queste “attese d’anima” confluiscono sia i bilanci sulle molteplici esperienze fatte nella propria vita, sia il richiamo delle radici, cioè di quella parte di noi profondamente legata a un terreno da cui ha tratto alimento: nel caso di quest’opera, le radici sono rappresentate dal dialetto siciliano, strettamente collegato a un’immagine frequentemente ricorrente, quella della madre, che è alle origini della vita.
Tra le esperienze che alimentano questa poesia c’è poi l’intercultura, che caratterizza il nostro tempo, in cui tutte le barriere di comunicazione sono cadute e le frontiere sono sempre più facilmente valicabili. Ma l’abbattimento degli steccati e le cadute dei muri non bastano se non si penetra nelle realtà nuove cercando di coglierne l’intima essenza.
Come sappiamo, l’unificazione europea e l’universalismo culturale non devono mai portare a un rifiuto delle proprie radici, ma, al contrario, alla loro valorizzazione, agevolata dalla conoscenza reciproca a cui anche un’opera poetica può contribuire.
Da questo punto di vista, questa silloge è forse la migliore interpretazione poetica dei significati dell’intercultura, che è sinonimo di apertura verso gli altri ma anche di comprensione e approfondimento di ciò che caratterizza le altre civiltà e le altre forme di vita e di conciliazione dialettica delle diversità.
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PERRINO E LA RUSSIA
Questo è evidente soprattutto per quanto riguarda la Russia. Il nostro poeta ha vissuto vari anni a Mosca e la sua opera costituisce forse il primo esempio, almeno a quanto mi risulta, di incontro, in un libro di poesia, fra due culture, quella siciliana e quella russa dei nostri giorni.
La poesia russa contemporanea, di cui Giovanni Perrino è profondo conoscitore, e soprattutto le poetesse Anna Achmatova, Bella Achmadulina e Marina Cvetaeva, sono frequentemente citate insieme ai luoghi in cui hanno vissuto e che le hanno ispirate. Questo dipende probabilmente dalle caratteristiche della loro poesia, che presenta alcune analogie con l’ispirazione poetica di Perrino. Il tono intimistico della Achmatova, autrice di autentiche piccole miniature psicologiche, da cui però non sono esenti spunti di poesia civile ispirati alla realtà storica contemporanea; il culto di Bella Achmadulina, per la forza simbolica della parola e per la purezza espressiva; la tensione emotiva, la sperimentazione linguistica e la sensibilità per il ritmo della Cvetaeva, che ha saputo trasporre in forma lirica lo spirito russo espresso nei canti popolari, hanno certamente dei punti di contatto con la poesia di Perrino, che tuttavia ha una sua profonda originalità, come è possibile constatare attraverso un’attenta lettura delle sue liriche, in cui i paesaggi esprimono stati d’animo o verità universali attraverso immagini simboliche o allusive. Il fascino di queste poesie consiste infatti anche nell’espressione di ciò che un paesaggio così diverso dal nostro suscita nell’animo di un poeta siciliano, il quale dell’anima russa ha saputo cogliere la dolcezza e la malinconia, attribuendo sempre ai paesaggi un particolare significato.
Città poco note come Barnaul, nel sud-ovest della Siberia, ad esempio, appaiono come il percorso finale di un viaggio allegorico in cui il paesaggio si scompone e i confini rappresentati dai solchi si dissolvono sotto la pioggia: e l’insistenza di questo termine, dissolvenza, che indica il dileguarsi e lo svanire, contiene un’allusione alla fugacità del tempo e all’idea della fine.
L’evidenza sensibile delle cose, gli oggetti e i paesaggi rimandano così a realtà non dette ma percepibili e intuibili e sempre di grande intensità emotiva. Dietro le apparenze del quotidiano affiorano sempre le inquietudini dell’inconscio o della sofferenza interiore, che si traducono in trame analogiche di grande suggestione.
Luoghi e cose diventano in tal modo fortemente allusivi ed emblematici, come ad esempio il viaggio verso la Siberia; e i versi dall’andamento meditativo, ricchi di echi e rispondenze, creano tra le parole inattesi legami di senso svincolati dalle usuali logiche espressive e sempre profondamente ricchi di risonanze. Anche l’uso frequente della metafora crea una particolare atmosfera che evoca problemi esistenziali. Paesaggi ed elementi della natura diventano espressione di stati d’animo spesso non apertamente rivelati ma resi comprensibili attraverso allusioni e raffigurazioni che portano però alla rivelazione di una realtà universale.
Insieme alla natura, inoltre, in questa poesia sono sempre presenti la storia, col suo carico di dolori e di sofferenze, e il tema del tempo e del ricordo. La poesia del ricordo traduce la sensazione di una vita che, come dice un verso, “sbiadisce dentro senza rumore”. Nella lirica Il giardino dei ciliegi, titolo che richiama la famosa commedia di Cecov e in cui, come nella commedia, c’è, sullo sfondo di un clima autunnale, una particolare atmosfera d’ambiente intrisa di tristezza, troviamo il tentativo di “rincorrere il tempo”, il fascino dell’autunno, gli alberi quasi umanizzati come “l’olmo severo” e “ l’ontano esausto“ e l’invito a “generare sogno” e a “cantare il silenzio”.
Anche qui il contrasto canto-silenzio è espresso da un’originale e apparentemente contraddittoria immagine, quella della canna che, “penetrata dal silenzio“, lo canta.
Il richiamo al canto ritorna nell’immagine del dodux, uno strumento musicale russo fatto col legno di albicocco. E ritorna ancora nella lirica Il musico, dedicata al grande violoncellista e direttore d’orchestra Mustislav Rostropovic, in cui i versi esprimono raffinate sensazioni musicali come “la docile armonia dell’ouverture” e il suono delle viole che “velano l’ora di pianto”; ma la capacità di esprimere poeticamente l’effetto dei suoni non necessariamente musicali è resa anche dalla scelta di termini particolarmente efficaci come quelli che si riferiscono ai treni sferraglianti nella vecchia stazione e allo stridio delle rotaie: così, il contrasto tra rumori aspri e acuti e la malinconica dolcezza di delicati strumenti crea una significativa contrapposizione tra i diversi aspetti della vita. E il contrasto ritorna in Koktebel, nome di una località in cui Marina Cvetaeva trascorreva le sue vacanze. Anche qui al suono delle viole si contrappone il malinconico stridio tra i sassi e le percussioni che coprono le viole “come suole il vento d’autunno”. E ricordiamo anche, a proposito degli effetti poetici ispirati da determinati strumenti, le immagini legate, in Ellis Island, al suono dell’oboe, dal suono cupo e profondo.
Nella lirica Koktebel suoni e rumori creano un’atmosfera di tristezza che accompagna la tragica fine della poetessa, morta suicida a Elabuga, dove “il vento spazzò i vicoli inchinando gli steli”.
Anche nella lirica Tarusa, nome di una località dove la Cvetaeva aveva una dimora estiva, l’opera della poetessa ispira a Perrino un’efficace definizione critica che è nello stesso tempo profondamente poetica: “I versi picchiano come sassi sui vetri/ rompono pinnacoli di ghiaccio e stelle”.
E’ frequente, nell’opera del poeta, lo avevo già rilevato a proposito di Ellis Island, la mescolanza di colori, sentori e termini musicali e la fusione di paesaggi diversi che si sovrappongono alimentando sensazioni molteplici. Nella lirica Via del ritorno, ad esempio, campi di fiori e di stoppie, annunci d’autunno e aspirazioni a una “lama di luce” lasciano scorgere, oltre ad un sentito rapporto vitale con la terra, il senso della fugacità del tempo e della caducità della vita, con l’immagine della torre di carte che una voce di flauto scompiglia: e anche questo riferimento alla voce melodiosa che distrugge le illusioni è altamente allusivo.
Altri particolari del paesaggio russo, caratterizzato, oltre che dalla neve, dal vento, definito impietoso e grigio e tale da scolorire gli alberi (e anche questa immagine del vento che toglie il colore ha una sua particolare forza) si accompagnano all’idea della fine, espressa da immagini statiche e silenziose, come quelle di una notte senza vento, un giorno vuoto senza parole, una piazza deserta, il silenzio di un “polveroso” wagon-lit. E anche qui la scelta dell’aggettivo polveroso richiama l’idea del passato e dello scorrere del tempo. C’è, a questo proposito, un altro verso particolarmente significativo: “sui vetri scorrevano le teche della memoria”. Il paesaggio che normalmente si vede attraverso i vetri di un vagone è sostituito qui dalle teche, le custodie che contengono una reliquia: non si poteva esprimere in modo più efficace il trascorrere del tempo formato da ricordi e da ciò che resta di qualcosa, cioè da una reliquia, preziosamente custodita nella memoria, simboleggiata dalla teca. Questi versi sono contenuti nella lirica intitolata Piazza Ostrowskij, dal nome del famoso drammaturgo russo.
Il paesaggio nordico ispira sempre immagini indimenticabili, arricchite dall’uso sapiente dei termini e soprattutto dagli aggettivi, come il rosso anseatico attribuito a un’alba in cui “un sole intrigante lambì sinuosi contorni”: l’aggettivo intrigante traduce bene l’immagine di una luce che cerca di penetrare e di insinuarsi per lambire i “sinuosi contorni”, altra definizione efficace e poetica di una linea costiera frastagliata e disuguale. Ogni termine è dunque abilmente scelto per rappresentare un ambiente immobile e senza tempo in cui, ed ecco un altro verso straordinario, “ un’attesa insolente consumava il respiro”. Consumare il respiro significa interrompere la vita : e l’attesa è “insolente”, cioè non rispettosa, non attenta alle convenienze, che in questo caso corrispondono alle norme e alle leggi che regolano l’esistenza.
Altrettanto pregna di significati la descrizione dell’estate di Yervan: vi si parla dell’inabissamento di un’imbarcazione e dei legnami trascinati al largo dall’onda gonfiata dalle piogge insistenti. I legnami sono definiti stanchi, quasi a sottolineare la lentezza di un percorso che terminerà dove “muschi e murene attendono silenti/ al giaciglio il suo tumulo”. Anche qui, i termini che indicano la fine, come giaciglio, silenzio, tumulo, in sapiente progressione, alludono a un lungo riposo: ma, ed ecco un riferimento al sottotitolo del libro, è ancora possibile un rallentamento, una breve sosta, in cui cogliere qualche attimo di emozione o di felicità. La lirica si riferisce all’estate, con immagini ispirate alla mitologia, che vanno dai trionfi di Dioniso all’immagine delle Pleiadi che “danno ai calici insperata luce”: una luce fredda e siderea che contrasta con l’ebbrezza dionisiaca. Dalla luce si passa poi al buio dei fondali su cui si spengono i sogni che però, in forma di parole, tornano la sera “al malinconico doduk sui regni alti del vento”. Fondali bui e altezze in cui spirano i venti sono cos’ accomunati dal suono malinconico di uno strumento russo che crea un’atmosfera di particolare, anche se triste, dolcezza.
Ma vi sono anche, come nella lirica Kamenka, rievocazioni o riferimenti ad aspetti folkloristici, sagre, giostre e pietanze tipiche, che sono pur sempre espressione della vita di un popolo e che consentono di abbinare alla tristezza un sorriso, come sempre avviene nella vita. A questa vivacità si contrappone però un’allusione alla gelida indifferenza della natura: “immobile la luna biancheggia sul fiume”.
La terra russa ispira dunque versi che esprimono varie gradazioni di luce e di ombre.
però soprattutto l’influenza di tre colori che si alternano creando suggestive gamme: gli inverni nevosi contengono l’alternarsi del bianco e del nero, le betulle rosseggiano nella breve estate, e, nella via Precistenka, dove furono assassinati l’avvocato Stanislav Makelov e la giornalista Anastasia Babirova, un verso traduce con mirabile sintesi il contrasto tra altri due colori, il bianco e il rosso: “il sangue rappreso rosseggia sul ghiaccio”. Sempre ai colori sono poi legati, in questa lirica, le immagini dei guanti sporchi dei necrofori e le croci sfiorate dalla luce bianca. Sono riportati poi in russo, quasi a voler sottolineare la forza della lingua originaria, due versi che compaiono sui monumenti ai caduti in guerra: “Nessuno è dimenticato, niente si dimentica”.
Se i luoghi brumosi e nevosi della Russia, con il loro carico di dolori e di sofferenze, ispirano versi così pregni di significato, non bisogna dimenticare che esistono, in questa raccolta, altre liriche che hanno come sfondo paesaggi solari e mediterranei, come quelli di Orano, di cui troviamo una suggestiva interpretazione poetica preceduta dai versi di una canzone di Klaaled, noto cantante algerino. Ma anche in questa luminosa rievocazione è presente l’idea della fine, rappresentata dalle immagini rasserenanti di un al di là visto con gli occhi dei classici: lo dimostra l’accenno agli Alyscamps, l’antica necropoli romana di Arles, dove si susseguono gli artistici sarcofagi, o l’accenno ai fiori cosparsi “manibus plenis”, secondo la famosa espressione latina che si riferiva ai fiori con cui ricoprire le tombe. E c’è anche un’altra lirica, Volo, in cui un verso, “che la sorte ti sia lieve” ricorda molto il detto legato, nel mondo romano, alle sepolture: “che la terra ti sia lieve”.
E questo offre lo spunto per parlare di un’altra caratteristica di questa poesia, l’influenza della cultura classica, che ha profondamente segnato la formazione dell’Autore. Lo dimostra anzitutto la suddivisione in tre parti, che avevamo già trovato in Ellis Island, e cioè Parodo, I, II e III Stasimo. Il parodo, che nella tragedia greca rappresentava il momento in cui il coro faceva il suo ingresso sulla scena, è anche qui l’annuncio dei vari temi che compariranno via via nella poesia: ma il parodo è anche simbolo di una coralità, dell’ispirazione individuale che diventa esperienza collettiva, della partecipazione al dolore di tutti. E questo dà alla poesia i suoi accenti civili, attraverso la rievocazione di momenti tragici del passato, con la citazione della famosa affermazione in tedesco che si legge sul cancello di Aushwitz, “il lavoro rende liberi”, in quel caso tragicamente e crudelmente falsa, o il verso “lo sguardo fisso al dolore dell’altro” o quello della lirica dedicata alle vittime della stazione di Bologna, dove “la campana segna altra partenza”.
Lo schema da tragedia greca ambientata nel mondo moderno e nelle varie latitudini dà poi a questi temi una patina di classicità nel senso più alto del termine e cioè come recupero della lezione umana di elevatezza spirituale offerta dai classici.
Di stampo classico è anche il metro, che è spesso l’esametro, solenne e armonioso: in questa cornice si inserisce però, come avevo già notato in Ellis Island, l’eco dell’ermetismo e della sua particolare aura arcana. L’abile uso del potere evocativo della parola e la ricchezza espressiva derivante da analogie, metafore e mescolanza di registri lessicali esprimono non solo l’intensità e la simultaneità delle sensazioni e l’anima segreta delle cose, ma anche quell’interculturalità che è un’altra caratteristica peculiare di questa poesia.
La capacità di esprimere gli inattesi rapporti di affinità tra realtà diverse è dovuta anche alla maestria del verso e alla scelta delle parole, dalle “estreme, infinite possibilità”, come diceva il poeta stesso in una lirica di Ellis Island. Si tratta dunque della capacità di servirsi del potere della parola in modo poliedrico per esprimere realtà diverse su piani multiformi.
L’abile scelta delle parole emerge ancora una volta nella lirica dedicata alla grande traduttrice dall’italiano Elena Dimitrieva. Qui troviamo tutta la forza e l’incisività dei termini, spesso collegati ad immagini insolite che danno loro inaspettati significati. Di un aggettivo difficile da trovare è detto che “si ritrae”: e questo suo sfuggire è paragonato a quello di un’eterea medusa , mentre gli oggetti legati ai ricordi sono simboleggiati dai trifogli secchi “rannicchiati nella pagina” e le foto di bambini o i vecchi almanacchi costituiscono un “polveroso ripostiglio”: sono “i dimessi oggetti nel silenzio del tempo”. L’arte della traduttrice è definita in un verso che esprime, oltre allo sforzo linguistico, il valore del risultato finale :”Le parole che annodi filtrano nel filo di luce”: e le parole sono sempre espressioni di vita, come è detto negli ultimi due versi, che si riferiscono sempre alla traduzione, fatta nel chiaroscuro di una stanza nelle serate di neve: “In quel cono d’ombra chiede estremo spazio/ la parola e la sua vita”. La parola non è considerata quindi qualcosa di inerte, ma qualcosa che vive e chiede una sua estensione e dilatazione, non determinata e non circoscritta, come suggerisce appunto il termine “estremo”: la parola, inoltre, chiede una sua libertà senza vincoli e senza confini, come deve essere appunto la libertà della creazione artistica.
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LE POESIE IN DIALETTO
Quanto all’intercultura espressa dalla parola, questa si afferma in modo assolutamente originale nel II stasimo, dove troviamo un accostamento insolito e, per quanto io sappia, unico tra cultura russa e cultura siciliana, rappresentata dalle poesie in dialetto. A quest’ultimo e al suo legame col tema delle radici e delle origini e di conseguenza col tema della madre e del luogo natio è dedicata una pagina in cui è rievocata anche la storia di Corleone, città demaniale che Federico II ripopolò con una colonia di Lombardi provenienti dall’Oltrepò pavese. Da questo e dalla partecipazione attiva del paese alla guerra del Vespro deriverebbero, come osserva Perrino, alcuni fonemi atipici e alcuni francesismi riscontrabili nel dialetto corleonese. E il pensiero corre spontaneamente al Pitrè, il quale diceva che nel dialetto c’è la storia del popolo che lo parla.
Ma, a proposito del dialetto, è messo ancora una volta in risalto il significato della parola poetica nella lingua natia, che fa emergere ricordi e situazioni che il tempo ha solo velato ma non cancellato. E il valore di questi ricordi è espresso dalla citazione di una bellissima frase di Gustav Mahler: “tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”.
Il dialetto, essendo legato alle origini, fa parte, come ci dice lo stesso autore, dei “possibili rallentamenti” a cui si allude nel sottotitolo del libro, cioè a quelle occasioni di riflessione che ci fanno tornare indietro nel tempo per riflettere e meditare.
Una poesia in dialetto è dedicata ai due personaggi russi già citati, Stanislav Markélov (un avvocato che sosteneva l’accusa contro ufficiali russi accusati di crimini di guerra in Cecenia) e la giornalista Anastasia Babùrova, entrambi uccisi il 10.1.2009 a Mosca. La lunga lirica è spesso intervallata da parole russe. E questo accostamento tra lingue diverse esprime l’universalità del dolore e i legittimi interrogativi che appartengono a tutte le latitudini.
Anche nelle poesie in dialetto troviamo versi straordinari come “L’aria vagnata inchi e si fa chiantu”, quasi a voler sottolineare la partecipazione della natura al dolore degli uomini. E anche la lirica Ponti granni su pietra, legata a un ponte che attraversa la Moscova, è ispirata alla fugacità della vita.
La poesia in dialetto è spesso pervasa di malinconia, come Sciatu, che ha una sua cantilenante dolcezza: in altre troviamo il paesaggio corleonese, come in A strata ra misericordia, dove è presente un forte contrasto di colori, tipico del paesaggio siciliano, come nei versi “a sudda/ c’arrussica u chianu virdi e assulicchiatu/ “ o “u lannaru ciurutu paria pittatu”.
In Ciaddiri cuosa troviamo un vivace ritratto di antica vita contadina ricco di fermenti e rivendicazioni sociali. Questi temi assumono un carattere di particolare drammaticità nella lirica dedicata alla madre di Placido Rizzotto, dove il richiamo a una regione lontana in cui il sindacalista aveva soggiornato, la Carnia “pitrusa ma virdi di vientu/ e sciuruta, terra povera com’a nuostra” ricorda ancora una volta gli accostamenti che è possibile fare a proposito della povertà e sofferenza nei vari angoli della terra e l’aspirazione alla libertà, che è insita nell’uomo in qualunque parte si trovi. E la madre di Placido Rizzotto che grida e accusa facendo nomi precisi, è un personaggio da tragedia greca, portavoce di un’antica saggezza contadina e di una profonda onestà interiore che le suggerisce l’unica soluzione da seguire, espressa in forma incisiva e scultorea; “Hat’a canciari testa e basta!”
Anche il dramma dell’emigrazione, espresso con l’efficacia e l’immediatezza del dialetto, raggiunge toni di alta poesia, che troviamo anche nella lirica Travagghiu, quadro di una Sicilia martoriata. Emerge sempre, in queste liriche, la figura della donna-madre, che incarna un po’ tutti i valori e i simboli della sicilianità. Un’altra madre tragica è poi quella di Paolo Borsellino, che parla al figlio con accenti dolorosi e apprensivi, simbolo della tenerezza materna.
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LE LIRICHE IN ITALIANO
Nel terzo stasimo tornano le liriche in italiano, con immagini e quadri ispirati spesso al tempo e alla sua dimensione interiore espressa attraverso termini di particolare forza espressiva. Basti citare gli ultimi tre versi della lirica intitolata Poco prima dell’alba: “Scivolava nell’acqua il tempo incrostato/ e scoloriva l’acqua che restava grigia/ adusa alle fatiche e ruvida di rovine”. Il tempo incrostato e l’aria ruvida esprimono pienamente il peso dei ricordi che si accumulano formando strati e plasmando di sé perfino un elemento impalpabile come l’aria . che, con evidente poetico contrasto, riassume in sé, in quest’insolita immagine, leggerezza e pesantezza.
Ritorna ancora una volta l’elemento musicale, col rimbombo dell’organo evocato con toni di grandiosità e solennità; e ritornano gli accenti di poesia civile, cime a proposito delle scene di violenza in un quartiere di Bagdad, dove “il dolore incupisce il candore dei minareti” e dove le madri soffrono come ovunque. Ma la morte ispira al poeta anche immagini delicate come quelle delle tombe del duomo di Lione, dove il silenzio avvolge un cuscino di marmo scolpito con effetti di pizzo macramé, mentre dai vetri dipinti del rosone penetra una luce velata. In questo scenario rasserenante è giustificato l’ultimo verso di struggente tenerezza : “ E’ dolce pensare che ami dormire”.
Le fonti d’ispirazione sono dunque molteplici e a volte inaspettate, come uno dei più antichi testi poetici trovati nei cosiddetti Memoriali bolognesi del 13° e 14° secolo. E questi riferimenti eruditi, che hanno il fascino di un lontano passato, si uniscono a quello esercitato da immagini della vecchia Praga, che non è la città d’oro ma quella dei vecchi quartieri popolari, delle case umide, degli androni cupi e freddi e delle “straziate periferie”.
Scenari gravidi di storia suscitano sogni e fantasie, meditazioni e nostalgie: in questo autentico giro poetico del mondo attraverso le sue diverse espressioni i “rallentamenti” e le “soste d’anima” ispirano dunque una poesia meditativa in cui varie espressioni stilistiche si fondono per esprimere liricamente la ricchezza interiore e la complessità dell’anima umana, sotto tutte le latitudini.
Ida Rampolla del Tindaro
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