Al museo Diego Pignatelli Cortes di Napoli, fino al 5 luglio, une grande retrospettiva dedicata a Vincenzo GEMITO, uno dei protagonisti della scultura europea tra Ottocento e Novecento, attivo a Napoli tra il 1868 e il 1925.
Violento broncio di primavera, davanti a un manifesto che mostra l’emozione dipinta di una zingarella. Si scompiglia il mare di Santa Lucia. Le onde sollevano una cortina di nebbia che appanna l’austerità di Castel dell’Ovo e intimorisce i passanti, investiti, sul lungomare di via Partenope, dalle lacrime marine e dal vento che le fa imbizzarrire. La furia del tempo vìola la tranquillità delle imbarcazioni all’ormeggio, attonite per il repentino capriccio del cielo.
Con l’audacia suggerita spesso dall’incosciente giovinezza, un babydelfino naviga tra le funi delle ancore, ma resta impigliato con la coda nella bolgia di corde. Piangendo, si dibatte nella trappola, impaurito dall’imprevisto e dall’incapacità di sfuggire alla tenaglia che lo imprigiona. Commosso, un anziano pescatore si tuffa con pantaloni, camicia e scarpe da ginnastica, vincendo nella lotta contro quel groviglio.
Babydelfino, grato gli strofina il muso sul corpo, mentre un esitante raggio di sole rasserena la tempesta. “Tranquillo adesso, il peggio è passato. Mi ricordo quando avevo la tua età, saltavo sugli scogli , afferravo pesciolini guizzanti… Ero uno scugnizzo e spesso per strada incontravo un tipo bizzarro con una lunga barba bianca e gli occhi fiammeggianti d’inquietudine che mi parlava di sé, ragazzo di strada diventato scultore, celebre nel mondo…”.
Docile il delfino lo segue nuotando con lui fino al pontile, di fronte ai ristoranti e lo saluta con una capriola lasciandogli nello sguardo una spuma d’azzurro. Il vecchio si raddrizza sulla terraferma ; la fronte corrugata nei pensieri si distende in un sorriso. Si rivede catapultato agli inizi del secolo scorso, quando sgambettava da ragazzetto di nemmeno sei anni… Quel giorno osservò un signore staccarsi da un corteo funebre e indicare l’orizzonte… “Guardate, non è morto… I delfini lo stanno riconducendo nella terra del mito che lo ha inviato da noi”. Lui, bambinetto stordito da quella scena, gli strattonò un lembo della giacca. “Ma chi è che sta camminando sull’acqua?… Io non vedo niente”. Allora l’altro lo sollevò dal marciapiedi e lo sistemò su un muretto a pochi passi da loro, sedendosi accanto a lui. “Adesso ti racconto la storia di un genio arso vivo dalla propria genialità…”.
Vincenzino
“Vincezì…”. Un ragazzino di nove anni sgambetta tra le bancarelle di Napoli, osservando
i volti rugosi degli ambulanti che si stampano nel suo sguardo tormentato. Talmente assorto dai pensieri che scolpiscono l’idea dei volti popolari, sorvola la voce femminile. “Vincenzì…”. Mamma tenera, Giuseppina Baratta, ha preso con sé quel neonato abbandonato in una notte d’estate del 1852 dalla disperazione di una donna, sorveglia i passi d’arte del talento nemmeno adolescente.
“Mammà, mo venghe…”. Lo sguardo perso in un mondo lontano di cui sente l’eco sempre più forte : il suono da quell’epoca antica è talmente forte da farlo camminare nella realtà come se abitasse in un sogno perenne. Una voce misteriosa gli suggerisce i suoi passi, giorno dopo giorno. E sua madre, popolana dall’intelligenza acuta, l’ha capito subito, da quando l’ha accolto in casa sua.
Gli accarezza con indulgenza i capelli scarmigliati. “Vincenzi’, ’a mammà… Comme si’ bello… Ma devi studiare… non puoi stare sempre pe’ strada…”.
La libertà infantile è già ribellione d’artista: “Guardo quei visi d’ a gente che passa… E’ questo il mio studio…”. Giovinezza trascorsa da vagabondo con un altro compagno d’arte, Antonio Mancini, finché non asseconda le decisioni materne. Scuola serale prima, istituto delle Belle arti dopo. Respira aria classica, ma in testa ha già il tarlo della modernità. Le curve dei suoi bozzetti e dei suoi schizzi inseguono la provocazione della realtà. In una città che ha ancora il profilo da capitale, si confronta con il passato che per lui è rivisitazione di luoghi già abitati e di un’energia primitiva posseduta prima dell’ultima reincarnazione.
Lo guida sempre la forza d’istinto, allontanandolo dalla freddezza di una perfezione impersonale e avvicinandolo al soffio dell’anima di chi raffigura. Napoli, dalla vocazione europea, spinge Vincenzo a Parigi e qui lo raggiungerà la sua amatissima compagna Mathilde Duffaud (nel 1877) ritratta su suolo francese in quella terracotta dove il capo un po’ reclinato e il sorriso mesto rivelano l’inizio di una malattia che la spegnerà, quattro anni più tardi, a Resina, sotto il fiato del Vesuvio… Le parole del racconto vengono stroncate da un boato. Lo scugnizzo balza dal muretto e si sdraia supino con le orecchie tappate per annullare il fragore, mentre l’adulto è spazzato via dall’impennata dell’atmosfera.
Profeta
Pressione d’un istante che si placa poco dopo. Lo scugnizzo prende coraggio e si rialza. Davanti a lui la figura di un anziano dalla barba lunga e incolta. Lo sorprende quello sguardo d’implorante umanità, in cerca di sollievo per la propria sofferenza.
“Stai tranquillo, non ti farò del male. Ma non ce la facevo più ad ascoltare la filastrocca della mia vita nella bocca degli altri. Chi ero io, lo so solo io. Sciocchezze, ne hanno dette tante. Recluso nella mia solitudine per vent’anni, folle dicevano… E citano le mie lettere… Quando, io affranto, scrivevo di vivere in un labirinto d’immagini terribili e mi laceravo per una gelosia inconcludente nei confronti della mia Cosarella, Anna, mia moglie,
che mi ha donato Giuseppina, mia figlia… Schizofrenico, dicevano… è vero, non avevo più memoria; non riuscivo più a incidere nulla nel fiume dei miei ragionamenti che mi conducevano sempre lì, nell’Ellade della creatività, la Grecia di Alessandro che mi apparve in tutta la sua chiarezza dopo un lungo periodo di ricerca… Non c’è mai stato buio nella mia mente, ma tensione verso un obiettivo: interpretare la bellezza dell’imperatore macedone meglio di come aveva fatto Lisippo, perché il vero erede di Lisippo sono io, capace di cogliere particolari che lui non colse… Essere profeta : è il compito che mi hanno affidato i Padri dell’Eternità. Interprete del nuovo che nasce dal passato…
Un brivido scuote il vecchio davanti a quei ricordi. “Aveva ragione”, riflette guardando quel cartellone che riassume la grande esposizione di Gemito nei fasti di villa Pignatelli, sui resti della remota chiaja. Ravveduta, Napoli, adesso lo proclama veggente. ..
Donatella GALLONE
Per saperne di più su Vincenzo Gemito e la mostra