Il gusto della letteratura russa e dei suoi grandi romanzieri, rivive in questa piccola storia di Vladimir Popov, che sembra sospesa nel tempo tra « antico » e « moderno ». Passione ed emozioni in una piccola saga sulle fragilità giovanili. Ancora una volta va in scena e non sensa ironia l’incontro, scontro tra Ragione e Sentimento.
Tutto cominciò con l’inevitabilità dell’arrivo della primavera. Anche se il giorno del 31 maggio (In Russia che vive secondo il calendario giuliano, l’estate inizia il primo giugno, ndr…), secondo il calendario, chiudeva la bellissima stagione. E proprio quella lontana serata, tiepida e serena, piena di eccitante aroma di lilla, rimase nel mio cuore come “rimembranza del primo “incontro” (così dicono i poeti!). Quanto alla poesia … Circa un mese dopo rimai quattro righe – banali, come le considero oggi – ma proprio adeguate al mio stato d’animo di un diciannovenne innamorato pazzo, come lo ero allora:
Quel giorno sarà immortale
Quando ti ho incontrata.
Evviva, l’amore fatale,
Addio, la vita scordata!
L’incontro inatteso avvenne al tramonto. Portato a termine il primo anno di matematica applicata, stavo ritornando nella casa dello studente, immerso nei pensieri beati sulle prossime vacanze dai miei, in una piccola cittadina vicina alla famosa Transiberiana. A venti metri dal portone sentii un lieve sfiorare alla spalla. Mi voltai – una ragazza sconosciuta. Pantaloni chiari aderenti, labbra dolci, treccine buffe, sguardo scherzoso.
– Salve! Abiti quì? Non ti ho mai visto! Vuoi andare a raccogliere fiori di lilla? – propose alla buona. Chiama gli amici, conosco tanti bei luoghi!
La socievole Liuda frequentava lettere ed alloggiava in uno stabile vicino. Tutta la notte saccheggiavamo il parco universitario, ai piedi delle colline Vorobiov (dei Passeri), componendo dei mazzi rigogliosi. Oramai ci incontravamo ogni sera. Purtroppo, quelle serate felici erano poche – otto giorni dopo l’espresso transiberiano mi portava verso la casa paterna. Ma la prima settimana d’estate, la trascorsi con la divina filologa nelle passeggiate nei pressi del campus universitario. Esse sembravano infinite – il tempo pareva fermarsi sotto il cielo notturno, folgorante di stelle folli. Ed erano riempite di una massima pienezza di vita, di un’inspiegabile fusione con la natura, raggiungibile solo in euforia amorosa. Ci separavamo per le calde ore diurne, ci ritrovavamo nella tiepida notte – miglior amica degli innamorati – e percorrevamo insieme le immense radure del parco o seguivamo i sinuosi sentieri sulle colline. Perché furono chiamate dei Passeri? Forse questi umili uccellini svolazzavano lì solo di giorno? Ma nelle magiche notti di giugno si sentivano esclusivamente trilli di usignoli. Di che cosa parlavamo? Sì, scambiavamo qualche parola, ma sopratutto stavamo zitti, ascoltavamo quei magnifici canti di uccellini, abbracciandoci. La notte prima della partenza per la Siberia mi sdraiai supino sull’erba che tratteneva ancora il calore del sole, trovai tra le infiorescenze dei lilla astrali le stelle dell’Orsa Maggiore, guardai a lungo l’eterno cucchiaione. Triste, Liuda mi sedeva accanto, poi si sdraiò su di me, mi si strinse forte. I nostri cuori battevano all’unisono.
– Mi senti? – mi bisbigliò all’orecchio.
– Certo che ti sento.
– Non guardare le stelle, guarda me! Domani parti, eh ?..
– Si, parto.
– Vuoi che ti lasci un’impronta per sempre?
– Lo voglio …
Un rapido, leggero batter del suo cuoricino, lo sento ancora oggi, quarant’anni dopo.
Partii innamorato cotto. Dalla Siberia le scrivevo quasi ogni giorno, le dedicavo versi – la prima volta nella mia vita! Mi rispondeva di rado, ma teneramente; diceva che si annoiava da sola, che mi aspettava. All’ improvviso arrivò la lettera dell’amico Slava, il cui contenuto mi sconvolse assai. Prima di partire gli avevo chiesto di andare a trovare qualche volta la mia cara, di aiutarla se necessario. L’amico fedele mantenne la promessa. Non riuscì a vedere Liuda, invece conversò con le sue compagne di studi. Le ragazze dipinsero la mia fata di lilla, della cui purezza di animo e di corpo non avevo nessun dubbio, come una creatura poco seria, insincera e semplicimente bugiarda. “Vuoi un consiglio d’amico?” – mi scrisse Slava. – “Non fidarti di lei!”
Possibile? Che stupidaggini! La notizia mi gettò nello stupore più profondo, quasi depressivo, ma quello stato d’animo durava ben poco. La mente, giovanile e flessibile, trovò subito una logica spiegazione alle calunnie delle compagne: “L’invidia! Semplice invidia muliebre! Tutte le loro parole non valgono un soldo. Che moraliste! Chi potrebbe conoscerla meglio, la mia Liuda? Non ero proprio io che sentivo il batter del suo cuore la notte prima della partenza? E le ragazze … cosa ne sanno, queste ragazze? La loro natura femminile gli impedisce di stringere amicizia con le donne, di apprezzarne i pregi. Povere oche invidiose!”
Fatti quei ragionamenti, mi rassegnai un po’ e continuai ad aspirare all’incontro dopo le vacanze. Alla fine di agosto tornai a Mosca, gli studi del secondo anno cominciarono, però nessun teorema o problema mi toccava il cervello. Tutto lo spazio del mio corpo da diciannovenne, dalla testa ai piedi, era colmo d’amore. Solo d’amore. Pensai a Liuda dalla mattina alla sera quando corsi nel famoso grattacielo nello stile staliniano dove coesistevano aule, appartamenti dei professori e persino un ostello per studenti forestieri. Il mio tesoruccio ci alloggiava ormai in una camera singola, la 1805 al diciottesimo piano. Come mai riuscì ad averla? “Sono piaciuta all’amministratore”, – spiegò dandomi un bacio tenerissimo. Ed aggiunse: “Non stiamo meglio così?”
Ma certo che così stiamo meglio! Trascorrere le fredde, umide serate di autunno è senza dubbio più piacevole in una riscaldata stanza accogliente che all’aperto. Passavo nella 1805 alcune ore beate, poi ritornavo nel mio stabile, scavalcando senza fatica il cancello alto circa quattro metri. Il mio caro amico Slava con cui dividevo la stanza, matematico per eccellenza, preferiva studiare di notte. Ogni volta, pieno di emozioni dopo un ennesimo rendez-vous con Liuda, lo rendevo partecipe dei miei entusiasmi. Slava ascoltava senza commenti, solo una volta buttò là: “Assomiglia ad un romanzo di Turghenev”.
Un’osservazione esattissima! La nostra storia si sviluppava, settimana dopo settimana, in un modo piuttosto platonico. Non facevamo l’amore, nonostante le condizioni ideali della camera singola. Le donne, non le avevo ancora conosciute, ed anche nella mia ragazza apprezzavo e custodivo la verginità di cui ero sicuro. Mi bastavano baci ardenti. Sembrava che anche a lei bastasse così. Un dolce sonno amoroso durò dal 31 maggio al 31 dicembre, sette mesi interi. Un risveglio terrificante avvenne senza tardare.
Da secoli in Russia la festa di Capodanno è la più importante dell’anno. Liuda accettò con piacere di festeggiarla insieme. Mi procurai due biglietti per il caffè studentesco al quindicesimo piano. La sera del 31 passeggiavamo a lungo nella hall centrale, ornata da rami di abete e da ghirlande di lampadine multicolori. Un grande abete sorgeva nel centro, emanando profumi di bosco, mescolati a quello dei ceri. Suonava la musica, gli studenti ed i professori si auguravano un anno felice. Verso mezzanotte, abbracciandosi nella cabina dell’ascensore, salimmo al nostro caffè. Liuda era splendida nel suo lungo abito aderente e ben scollato. Ci mettemmo a tavola, bevemmo una coppa di champagne, danzammo, ci sedemmo di nuovo. Dall’inizio dell’ anno ci separavano pochi minuti. Di colpo al nostro tavolino si avvicinò Max, studente poco conosciuto del terzo anno. Si chinò, invitò la mia cara a ballare, chiedendomi il permesso: “ Non sei contrario?” Fissai Liuda – forse avrebbe rifiutato? No. Si alzò leggera ed i due si nascosero subito nel vortice della folla in allegria. La lenta melodia del “Fioretto” fu per me una tortura. Ma ecco, finalmente la musica smise di suonare. “Dov’è la mia benamata?” – pensai. – “Tra un attimo l’orologio a carillon del Cremlino annuncia l’arrivo dell’Anno Nuovo!”
Le coppie prendevano in fretta i posti a tavola, lo champagne stava schiumando, tutti brindavano. Liuda e Max non si fecero più vedere. “Forse si è sentita male … è andata in bagno?”
Suonò mezzanotte. Intorno a me la gente si baciava, si divertiva. Io invece scrutavo la porta d’entrata. Cinque minuti, dieci, trenta … Poi, con una maschera di burrattino sul viso, uscii, battei a lungo alla porta della camera 1805. Invano. Dove alloggiava Max, non lo sapevo. Nemmeno il suo cognome. Chiesi in alcune camere. Alle mie domande i compagni si stringevano nelle spalle, mi invitavano a tavola. Ringraziavo con un sorriso forzato ed andavo avanti.
Ne ho festeggiati tanti di Capodanni. Erano diversi – per compagnia, luoghi, abbondanza della tavola. Però … perché diversi? In effetti, molto simili tra loro: cena esuberante, vodka e champagne, auguri dei famigliari e degli amici. E’sempre così. In quasi ogni parte del mondo. Solo la notte del primo gennaio 1966 fu unica. Quella notte ho perso la ragazza che amavo. Non era protagonista di una “storia”, ma l’amore più grande della mia vita. Il prim’amore.
Per tutto il giorno seguente rimasi sdraiato a letto, fissando il soffitto. Slava partì per il suo paese, a circa cento chilometri da Mosca; non potevo sfogarmi con nessun altro. Verso sera arrivò Ivan, uno dei corteggiatori di Liuda, a fare da messaggero. Disse che lei mi aspettava nella sua camera, che aveva proprio bisogno di parlarmi. Non mi mossi. Risposi brevemente che non c’erano più argomenti da discutere. E di cosa potevamo parlare?
Un’ora dopo venne Igor, un altro spasimante della mia cara, amico di Ivan. Mi portò un bigliettino molto laconico: “Vieni. Non voglio più vivere. L.” Subito mi alzai, mi vestii e mi precipitai verso il famoso grattacielo. Fuori gelava, la neve scricchiolava sotto i miei passi.
Trovai Liuda pallida, smarrita, pietosa. Chiese di non rimproverarla, ma di darle ascolto. Disse che Max, promettendo di consegnarle un regalo, la trascinò nella sua camera e chiuse la porta a chiave.
– Ha strappato il mio abito … Per me non c’è stato Capodanno… E’ successo di tutto.
Dopo quella difficile confessione Liuda mi domandò di non lasciarla.
– Non voglio più vivere senza di te. Potrai perdonarmi?.. Stammi vicino… Ponimi la tua testa in grembo…
Non potei soddisfare l’ultima preghiera. Poco prima quel grembo che sognavo, solo sognavo da sette mesi! – conobbe un altr’uomo, ben poco romantico. Nella mia immaginazione bruciava la disgustosa scena di violenza. “Dov’è questa carogna? Che ha osato strappare… rompere… distruggere … Devo sfidare questa bassezza, difendere l’onore oltraggiato della poverina… Non mi sfuggirai, Max!”
– Scusami, ora non posso restare con te…
Superando le sue lacrime, i bisbigli ed i tentativi di trattenermi fisicamente con le braccia,
uscii risoluto dalla camera 1805 e mi diressi verso l’ascensore. Colpo di fortuna! Nella hall sul divano riconobbi Max lo stupratore, dietro agli spessi occhiali, al centro di un’allegra compagnia.
Mi avvicinai al divano, rimuovendo un tipaccio che mi stava davanti, mi accostai a Max. Gli amici tacquero, lui alzò uno sguardo perplesso e pieno di attesa. Con tutte le mie forze gli diedi una sventola al viso odiato. Ricordo finora lo scricchiolare della montatura di corno.
– E allora ascoltami, pezzo di stronzo! Liuda è la mia ragazza… La mia! Per tutta la vita. Ritienilo bene, carogna! E non toccarla più con le tue sporche mani. Mai!
Max invece non si mostrò disposto allo scontro. Mi apostrofò con parole che spensero subito il mio fervore della lotta: “Pensi davvero che io sia stato il primo?” “Mah…non lo sei stato?” – coglievo a pena il nocciolo della domanda. “No,” – tagliò Max d’un tono che non lasciava dubbi. – “E tu, ci sei mai andato?” “No,” – risposi io, ma quale abisso si aprì tra queste due negazioni!
Ma chi fu allora il suo prim’uomo? A quel punto nessuno di noi poteva dar risposta all’eterno quesito. Solo alcuni mesi dopo, a mente lucida, capii che più probabilmente lo fosse stato il bravo soldato Oleg, suo ex compagno di liceo. Ed io, scemo innamorato, agevolai di gran lunga la loro storia.
Compiuti gli studi superiori, Oleg scelse la carriera militare. Il suo reggimento era dislocato nei pressi di Kiev. Ogni tanto Liuda gli mandava delle lettere a titolo d’amica d’infanzia, una volta mi fece vedere una delle sue.
Il quarantottesimo anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre del 1917 (com’era chiamata allora), lo festeggiammo, io e Liuda, proprio a Kiev. Alla vigilia della partenza il mio tesoruccio mi annunciò di aver accettato l’invito di Ivan ed Igor a trascorrere le feste nella loro città natale. Mi chiese di accompagnarla. I desideri delle amate non si discutono. Comprai i biglietti, prendemmo il treno, la mattina seguente fummo già a Kiev. Giungemmo alla casa di Ivan dove Liuda fu accolta con molta cordialità. A me, invece, fecero capire che l’appartamento era troppo piccolo per un gran numero di invitati. Passai la notte alla stazione, sul duro banco della sala d’aspetto. Pioveva, tirava un ventaccio, alle finestre battevano all’impazzata i rami innaffiati di lilla che non avrei potuto immaginare fioriti neanche in primavera.
La mattina successiva Liuda, senza interessarsi a dove e come avevo dormito, mi comunicò di voler rimanere a Kiev per qualche giorno. Si sarebbe sistemata prima da Ivan, poi da Igor. Avrebbero passeggiato per la città. Sarebbero tornati insieme a Mosca. Dopo una lunga pausa feci finta di capire la sua curiosità per le bellezze della capitale ucraina. Ci congedammo, ritornai a Mosca con il prossimo treno.
Ogni giorno telefonavo all’usciere del diciottesimo piano, chiedendo di chiamare Liuda della 1805. Finalmente rispose. La sua vocina era stanca, depressa. Corsi da lei, la trovai dimagrita, pallida, sommessa.
– No, no, non ho niente. Tutto a posto. Sono solo stanchissima. Ho preso il raffreddore in treno. Devo riposarmi un po’. Vieni domani.
Il giorno dopo andai da lei; sembrava già più sollevata. A poco a poco i nostri incontri presero il solito ritmo. Ma una volta Igor che incrociavo spesso al diciottesimo piano mi guardò fisso e mi sconcertò con una domanda.
– Ma sai dov’ è stata ?
– Perché? E’ stata ospite di te e di Ivan, no?
– Non solo. E’ andata a trovare Oleg.
Caspita! Non era affatto un viaggio turistico! Le ragazze non vengono a trovare i soldati per niente. Secondo Igor, Liuda fu assente per due giorni. Certo che lei ed Oleg non si limitarono né ai ricordi infantili, né ai commenti sui monumenti di Kiev.
Ma il vero scopo del suo viaggio, lo capii solo dopo il memorabile Capodanno. Quel giorno invece, dopo aver parlato con Igor, feci alla mia cara:
– Dunque, hai visto Oleg?
– Te l’ha detto Igor? Ma sì, siccome ero da queste parti … lui mi ha pregato tanto. Si annoiava… E poi, siamo compaesani, amici di vecchia data. Non te la prendere!
Mi abbracciò, mi arruffò i capelli, mi subissò di baci. Le altre interrogazioni persero subito il senso.
… Quasi tutto il mese di gennaio diedi esami. Malgrado una forte tentazione, mi impedii di salire al diciottesimo piano. Slava era al corrente dell’accaduto, evitando domande inutili.
Alla fine del mese arrivò di nuovo Ivan il messaggero: “Liuda vuole vederti. Deve dirti qualcosa di importante”.
Mi recai da lei. Era bellissima, piena di quella attrazione femminile, che oggi chiamano banalmente “sex appeal”. Parlammo per un bel pezzo. Di cosa? Del più e del meno: degli esami superati, delle notizie famigliari, dei progetti per le vacanze. Finalmente mi chiese:
– Non potrai mai perdonarmi?
– Non lo so … Pensavo di non vederti più… ma eccomi quì.
– Dammi un bacio!
Io rimasi immoto. Lei si avvicinò, si strinse a me; il suo abbraccio era dolce, ma forte. Come mai prima sentii il suo seno – sodo, sconosciuto.
– Vuoi stare con me? Tutta la notte?
– No! – mi spostai, risoluto. – Posso parlare con te. Ma ormai non ti posso amare da uomo.
– Ma perché? Ho riflettuto a lungo ed ho capito che non amo nessuno. Tranne te. Ora possiamo amarci senza badare alle conseguenze.
La guardai, sbalordito. Liuda non abbassò gli occhi .
– Ti dico tutto. Sono incinta. Ieri sono andata dal medico. Rimani! Adesso ho tanto bisogno di te…
Me ne andai. Anzi fuggii. E per non vederla né sentirla più partii l’indomani per il Caucaso del Nord dai miei zii materni. Ero ben accolto, ci rimasi dieci giorni. Finite le vacanze, ritornai a Mosca.
Mi sfugge se fu lei a chiamarmi. Oppure bussai io stesso alla porta della 1805. L’importante è che sia venuto. Liuda si rallegrò, fece entrare il fuggiasco, mi si gettò al collo e… diventammo subito amanti. Senza nessuna parola né domanda. La gravidanza trasformò la ragazza diciottenne in una donna fascinosa. Il suo piccolo seno maturò, preparandosi alla maternità. Che tuttavia lei non portò a termine, abortendo.
La amai sette mesi d’un amore sacro ed alcune settimane d’un amor profano. Purtroppo questi due non coincisero. E lei, mi amava? Chissà. Una certa attrazione esisteva indubbiamente. Per alcuni mesi fui il suo prescelto. Ma lei voleva sempre piacere a molti uomini. Somigliare ad Anita Ekberg che faceva girare la testa ai suoi cascamorti nell’aria calda di Roma.
Dopo l’aborto ci vedemmo qualche volta come amici. Liuda mi confessò che Igor l’aveva chiesta in moglie. Intendeva accettare la proposta.
– Ma tu, non mi vuoi proprio sposare?
La sua domanda mi colse alla sprovvista. Non le risposi. A quell’epoca non pensavo sul serio al matrimonio. Stavo terminando a stento gli studi del secondo anno. Tanto più che nella mia immaginazione erano ancora vive le sequenze dello splendido vaso di cristallo colmo d’amore, rotto a pezzetti. Sarebbe possibile rimetterli insieme? E sarebbe giusto farlo? Il mio massimalismo giovanile non me lo permise. Non potei unire un elevato amor tradito con nuovi rapporti “da grandi”. Ad esser sincero, non ero ancora adulto.
Il ventenne Igor invece si rivelò pronto a cancellare il passato ed a costruire una famiglia vera e propria. Comprò un vestito da cerimonia per sé, un abito da sposa e scarpe bianche per Liuda. La sua mamma, con malavoglia, accettò la scelta del figlio, perso di testa. Andarono per il fidanzamento a Kiev. Le nozze furono fissate alla fine di giugno, dopo la sessione degli esami. Ma in maggio Oleg ruppe il suo contratto militare… e portò Liuda nella loro città natale. In autunno ritornarono a Mosca già sposati, lei proseguì i suoi studi di lettere, lui si iscrisse alla facoltà di legge.
Com’era la loro vita coniugale? Non lo so di preciso. Ma una volta, quando facevo già il quarto anno, Oleg bussò alla porta della mia camera. Per fortuna, ero fuori. Aprì l’amico Slava.
–Scusa, mia moglie Liuda non è passata quì per caso?
Anche da signora non riuscì a fermarsi. Continuava a confondere il gioco con la vita. Spinta dalla sua natura femminile. Femminile per abbondanza, per estremo. Giocava con molti uomini, giocava con me. Sicuramente più giocava che amava. Faceva soffrire da impazzire l’ingenuo ragazzetto siberiano. Tuttavia non rimpiango niente. Al contrario – le sono molto grato. E lo sarò fin all’ultimo respiro. Perché io la amavo. L’amavo d’un amore vero, sincero. Ero felice con questa sventata – sì! – bugiarda – sì! – ma divinamente piacente giovane donna per cui ho spezzato tanti ramoscelli di lilla nelle rigogliose boscaglie intorno al maestoso ed indifferente grattacielo della sede centrale dell’Università di Mosca.
Tradotto dal russo da Elena Kankovskaya.