Ho avuto la fortuna di leggere una testimonianza di vita « Allora vi racconto… » che – a mio giudizio – consacra vero scrittore il suo autore: Romano Vlahov.
Romano Vlahov, che è nato a Trieste e vive a Duino, nel corso della sua avventurosa vita ha avuto una grande esperienza dell’estero.
Il libro è costituito da una serie di episodi della vita dell’autore, ma copre soltanto la prima fase, quella giovanile, ossia i primi 20 anni di vita di Romano, con l’emigrazione in Sud Africa. Il resto lo dovremo attendere in un libro successivo, che speriamo non tardi.
Il quadro geografico delle vicende varia: Trieste, Brindisi (1954), poi Londra (1958) per apprendervi l’inglese. In seguito, un viaggio che durò ben quattro mesi dall’Italia all’Australia, e ritorno. Infine il matrimonio, appena ventenne. E quindi l’emigrazione per il Sud Africa.
Nessuna pagina del libro è banale né mai il lettore perde il gusto della lettura. Lo scrivere di Vlahov ha un’intensa chiarezza, e così le « storie » del libro hanno grande immediatezza, forza, vivacità e riescono a darci il sapore che ebbero quando fu l’autore a viverle. A ciò va aggiunto anche il felice tocco di una comicità spontanea che rallegra molte pagine di questo delizioso libro.
Prendiamo il primo incontro di Romano Vlahov con la realtà del Sud, sbarcando dal treno a Brindisi, nel 1954, in un’Italia ancora afflitta da miseria. Vi è l’episodio del bambinetto che alla stazione gli offre per cinque lire di trasportargli la valigia. E, subito dopo, assistiamo ad un evento inaspettato: un sanguinoso duello all’arma bianca tra due individui; il tutto sotto gli occhi semichiusi di un poliziotto che mangia tranquillamente un panino. Quest’ultimo interviene solo alla fine, a spargimento di sangue avvenuto: « Per due volte si passò il dorso della mano per pulirsi le labbra dalle briciole che gli erano rimaste attaccate, si aggiustò il cinturone che durante il pasto gli era sceso lungo la coscia, si sporse dal chiosco, valutò la scena ‘rebus sic stantibus’ e solo dopo aver appurato che la guerra era finita si decise a intervenire. »
L’autore ci descrive in pagine vivaci e divertenti, in un’altra parte del libro, il suo soggiorno a Londra, dove si recò, diciottenne, allo scopo di perfezionare il proprio inglese maccheronico. Le avventure da lui vissute, sempre fragranti di giovinezza e di passione per la vita, e spesso anche comiche e ridicole, mettono in evidenza personaggi di ogni sorta come ad esempio l’infaticabile vestale del sesso, a Londra, che costringe il nostro Romano, pur stakanovista in occasioni del genere, ad una disperata fuga dal letto nel quale era stato relegato dalla sua « mantide ».
Pur riferendo inevitabilmente a se stesso il mondo particolare che ci presenta, poiché la sua è un’autobiografia e non un romanzo, egli non appesantisce la sua scrittura con lezioni di saggezza e, men che meno, con quel cinismo-moralizzatore, ispiratore di costanti lamentele e condanne, che sembra essere il marchio di fabbrica di tanti italiani quando parlano o scrivono di sé. Attraverso uno scrivere provvisto di eccezionale freschezza e vivacità, riesce invece a renderci partecipi « in toto » di quanto ci racconta.
La filosofia della vita di Vlahov, il suo credo, i suoi valori non sono mai da lui espressamente enunciati. Cionondimeno i valori umani di Vlahov emergono con tranquilla sicurezza dallo scritto: che si pensi alla sua presentazione, per nulla retorica e scontata ma umana e gentile, di Barbara, la giovane donna spinta dalla miseria degli uomini e dei tempi a prostituirsi in una « casa chiusa ». O di Carmela, « di una bellezza, primitiva« , « alta, dall’aspetto vigoroso, i capelli biondi ricci che sembravano impastati con qualcosa di unto e opaco« , che affascina tanti, parroco compreso. O all’episodio del bambino in fasce che gli viene affidato sul treno da una madre che poi scompare…
Fra i valori espressi da Vlahov emerge, semplice ed istintivo, e senza odi per l' »altro », il sentimento dell’appartenenza e della fedeltà alle origini. La terra dei suoi avi è la Dalmazia (per l’esattezza: la minuscola località di Sepurine). « Fu mio nonno che per motivi commerciali scese a Trieste verso la fine dell’800 e consolidò la sua permanenza sposandosi una triestina e mettendo al mondo due maschi: mio padre e mio zio. » Romano Vlahov ci spiega che il suo cognome è ereditato dagli antenati dalmati, e diligentemente chiarisce ch’esso ha un profondo legame con la latinità e la romanità. Esso vuol dire, infatti, « figlio di Vlah », e il termine « Vlah », ossia Valacco, identificava il combattente romano della Dacia. Egli scrive con orgoglio: « Posso dunque asserire con il pieno supporto degli storici che il mio nome sta a rappresentare ancora oggi la continuità di coloro che al tempo venivano indicato dai barbari come cittadini o legionari romani rimasti a vigilare i confini orientali dell’impero. »
A Brindisi Romano Vlahov ha una reazione violenta e manda gambe all’aria con un pugno ben centrato un suo superiore che lo ha appena apostrofato nella maniera che non avrebbe dovuto: « Pezzo di slavo, stai sull’attenti e non sputare nel piatto dove mangi! » Romano fu « allontanato dal collegio per insubordinazione, ma fu riconosciuto che la mia reazione, anche se esagerata, era giustificata dalla gravità dell’offesa ricevuta. »
Il viaggio per mare da Trieste in Australia (1958) e ritorno, che gli fece cambiare opinione sul navigare, come ci spiega, gli permette ci regalarci alcune delle più belle e interessanti pagine del libro; pagine che rendono il lettore in grado di capire cos’è il navigare quando si fa parte della ciurma. Tra gli innumerevoli episodi da lui ricordati, e che rivivono nel libro con l’immediatezza di un magico presente, vi è il cruento duello rusticano tra lui – Romano Vlahov – e un altro marinaio sardo, violento e paranoide, uscito completamente di testa. Degno poi di un film di Hitchcock è l’inquietante quasi onirico racconto, dagli ambigui risvolti, di un omicidio al quale Vlahov assiste a Porto Said, in Egitto.
L’autore ci presenta il suo passato attraverso episodi accattivanti, divertenti, gustosi, ma anche episodi drammatici. Tra questi spicca la rivolta avvenuta nel novembre del 1953, a Trieste, per il ritorno della città all’Italia dopo 9 anni di occupazione alleata. I capitoli consacrati a questa rivolta contro l’occupazione anglo-americana ci permettono di conoscere sia il susseguirsi dei fatti, sia la natura dei sentimenti di chi a quella rivolta partecipò: « Non posso dire che al tempo avessi avuto in odio gli anglo-americani, ma non potevamo perdonarli per essere stati spettatori passivi e indifferenti del massacro delle foibe perpetrato dagli slavi di Tito. »
« (…) e al di sopra di tutto il grido: ‘Italia, Italia!!’ Al suono di quel nome, ogni cosa, anche la peggiore, appariva sublimarsi nella finalità ideale che la ispirava. »
Il matrimonio, avvenuto immediatamente prima di emigrare in Sud Africa, ebbe luogo il 18 novembre del 1961: tre giorni dopo, il 21 novembre, gli sposini s’imbarcarono…
Cosa ci dice Vlahov di quel paese, dove allora vigeva l’apartheid? Egli ci dà in pochi tratti, con sincerità, l’immagine quale essa si presentava a chi vi viveva, come lui, dalla parte dei bianchi anche se da immigrato italiano. Non si dilunga in analisi col senno di poi, né chiede un facile perdono per non aver capito allora l’assurdità di una società in cui i bianchi la facevano da padrone. Dopo tutto – confessa Vlahov – partivo « dalla convinzione che non ero io bianco a non amarli ma piuttosto loro a non amare me!!! »
Ma allora, ci si può chiedere: Vlahov non si accorse di nulla? Sì, si accorse di tante cose, che oggi, inevitabilmente, però tutti noi capiamo meglio col senno di poi. Perché allora molti avvenimenti, in quel Paese, erano tenuti ben nascosti dal governo e dagli organi d’informazione sudafricani. Vlahov riesce comunque a capovolgere, in maniera direi esemplare, un puntello fisico-morale del pregiudizio basato sulla percezione che sempre hanno avuto i bianchi nei confronti dei neri riguardo all’odore particolare dei corpi di quest’ultimi, che le nostre nari percepiscono come un afrore. Ed ecco che in poche, magistrali righe egli ci spiega come i neri sudafricani reagissero invece, nell’intimo, alla mancanza nei nostri corpi di quell’odore:
« Voi bianchi boss… per i nostri nasi non avete odore, siete morti! » E continuò: « Vedi boss, noi neri viviamo fin dalla nascita in ambienti pregni di odori forti, quando arrostiamo la carne, godiamo stare nel fumo denso e speziato che ne deriva e spesso per cucinare usiamo lo sterco secco degli animali… Per noi odori, profumi e persino quella che voi chiamate puzza, sono sinonimo di vita, più intensi sono più stimolano i nostri sensi e crescono nella scala delle nostre emozioni… in paragone, il vostro odore corporale è debole quasi impercettibile al nostro olfatto tale da non eccitare alcun interesse, rimanete un qualcosa che non esprime vita... »
Nonostante questa citazione finale, mi rendo conto che ho sorvolato su troppe pagine, episodi, momenti degni di menzione, ad esempio la sua esperienza di convittore, finita presto e male, al Fabio Filzi di Gorizia… Ma tutto il racconto di Vlahov contiene episodi degni di essere ricordati perché spesso imprevedibili e sempre avvincenti. E dotati di una speciale freschezza che li rende contemporanei grazie a una scrittura agile, precisa, saporosa che non ha mai nulla di scontato, di ripetuto o di non sentito. Scrittura che rivela in Romano Vlahov un autentico scrittore.
Claudio Antonelli
(da Montreal)