Ci ha lasciati Pietro Mennea, simbolo di un’Italia che sembra non esserci più. La freccia del sud, il ragazzo gracile che divenne un campione è finito a solo 60 anni. Uno che della serietà e dell’impegno sportivo e non, con le sue quattro lauree, aveva fatto il suo stile di vita.
A sessant’anni è volato in cielo Pietro Mennea, orgoglio dell’atletica italiana e dello sport intero. Quello con la s maiuscola, quello che fa dell’etica e della lealtà i valori fondanti, come è nel suo spirito. E Pietro Mennea era soprattutto questo: un esempio raro di etica nello sport, contro ogni logica di alterazione, contro ogni doping dell’anima. E’ di certo stato uno degli atleti più decorati ed amati nella storia dello Sport italiano.
Quel suo 19’’72 nei 200 metri è un record durato per molti anni, più di diciassette, stabilito alle Universiadi di Città del Messico nel lontano 1979. Vi partecipò da studente in scienze politiche, e lì nebulizzò il precedente record che apparteneva a Tommie Smith. Ma un altro statunitense, Michael Johnson, gli strappò il primato alle Olimpiadi di Atlanta, nel 1996.
Era nato a Barletta il 28 giugno 1952, nella città pugliese passata alla storia per la “Disfida” del 1503 fra francesi e italiani sotto egida spagnola. Città, dunque, per tradizione abituata a sfide ed a rivalse. Questo vento di lontano soffiò forse sulle ali di Pietro, che lo rendevano leggero ed irraggiungibile, fin da ragazzino, quando – leggenda vuole – correva su campi sterrati o sui basolati della sua Barletta.
Dall’aspetto asciutto o addirittura gracile, Pietro ha rappresentato la nostra atletica pulita, la cultura più evoluta dello sport, lui uomo di cultura plurilaureato oltre che pluripremiato. Soprannominato la “Freccia del sud”, tutt’ora detiene il primato europeo e italiano dei 200 metri. Nel 1980, alle Olimpiadi di Mosca, con una straordinaria rimonta, conquistò la medaglia d’oro, sempre nei 200 metri, che si somma ai quattro titoli europei, a un argento e un bronzo ai Mondiali, ma anche ad altri due bronzi olimpici, il primo dei quali conquistato sulla pista di Monaco di Baviera ai Giochi del 1972: quella gara vinta da un altro campione, il sovietico Borzov. Mennea è stato anche straordinario staffettista e ha pure trovato fortuna nei 400 metri piani. Quando il mitico Cassius Clay lo incontrò, gli sussurrò: “Ma lei è un bianco”, alludendo forse alla straordinaria potenza nella corsa fino ad allora attribuita solo agli atleti di colore.
Pietro Mennea si è spento con una grande dignità del dolore: in pochissimi erano a conoscenza della sua grave malattia (al colon). Spegnendosi avrà perso pure la sua gara più importante con la vita, ma nel cuore di quanti lo hanno apprezzato, di quanti in questi decenni si sono esaltati per le sue straordinarie imprese, rimane un faro, una meta difficilmente eguagliabile. E soprattutto per le nuove generazioni, per quanti sentiranno lo sport come una avventura esaltante della vita, nel segno della dedizione e del sacrificio. E nel rispetto degli altri.
Grazie Pietro. Viva Mennea.
Armando Lostaglio