Anticipiamo il prossimo mensile dedicato a i 150 anni dell’unità d’Italia, con un’anteprima dedicata alla storia e alla cronaca del nostro sindacalismo. Con particolare attenzione alla CGIL (Confederazione Generale Italiana del lavoro), ripercorriamo, guardando all’attualità, la storia dei controversi rapporti sindacali e della lotta per i diritti dei lavoratori in Italia.
Il protagonismo del lavoro, la sua condizione, le trasformazioni indotte da una visione liberista sono “argomenti” al centro dell’ agenda sociale del paese. E, con il lavoro, il rapporto sindacato-lavoratore, rappresentanza, rappresentatività, conservazione e modernità, sono argomenti che fanno parte integrante di questa agenda.
In questo contesto si muove la CGIL. Ovviamente forte degli oltre 100 anni di storia e contestualmente consapevole che la storia evolve e se si deve far tesoro dell’esperienza maturata è altresì necessario definire strategie d’azione innovative.
Esperienza e innovazione costituiscono un binomio inscindibile che si regge sulla forza dei valori che si intende rappresentare e sulla idealità che gli stessi esprimono.
Come per qualsiasi soggetto socio-politico anche per il sindacato vale quel metro di misura che permette di valutare il rapporto tra strategia, tattica, azione. Si tratta, nel caso di soggetti che devono rispondere eticamente alle persone che ne sono la base costitutiva, di un metro di misura stretto, difficilmente adattabile a decisioni strategiche o ad azioni tattiche che si discostino dai principi costitutivi.
Nel caso della CGIL i principi costitutivi sono contenuti nello statuto e nei richiami che lo stesso fa ai valori della nostra costituzione, in particolare pe tutta quella parte della nostra carta fondamentale che si riferisce al lavoro e ai diritti sociali.
Ma la Costituzione ha stentato ad essere applicata, ha stentato ad entrare nelle aziende; nel dopoguerra si è nuovamente sparato su operai e braccianti in sciopero e l’Italia repubblicana ha assistito sbigottita alla strage di Portella della Ginestra del 1° maggio del 1947.
Già allora, pur lontani decenni dalla così detta globalizzazione, Giuseppe Di Vittorio e Ferdinando Santi avevano ben compreso la piega che stava prendendo quel tipo di sviluppo economico che poneva i lavoratori in condizioni di inaccettabile subalternità.
Proprio come nella fase attuale, poiché andava a consolidarsi la logica della vecchia imprenditoria italiana protesa a collocarsi nella competitività dei mercati negando diritti elementari, comprimendo i salari ai livelli più bassi del continente, mantenendo un sistema di protezioni sociali debole e insufficiente.
La Cgil denunciò allora, come accade oggi, che si stava andando allo svuotamento della Costituzione con la differenza che il peso di quelle politiche ricadeva principalmente nelle fabbriche e nelle campagne, mentre ora il coinvolgimento è assai più ampio e tocca il lavoro nei servizi, nella scuola, nella pubblica amministrazione.
La costante è sempre la stessa: quando al lavoro non era e non è riconosciuta la piena dignità, quando un lavoratore era ed è licenziabile con il semplice gesto di una mano, il sindacato, la CGIL, potevano ben dire che non era e non è questo il lavoro di cui parla la nostra Costituzione.
L’aggravante attuale è che mentre allora si partiva dalla guerra, dal fascismo, dalla legislazione corporativa e quindi si trattava di innovare positivamente il quadro di riferimento esistente, oggi, nella condizione attuale si sta perpetrando il saccheggio sistematico della legislazione sociale in nome di un finto modernismo che ha quale unico obiettivo quello di ricostruire nuove ghettizzazioni sociali per poter accede a prestazioni lavorative a basso costo, senza regole, senza prospettiva di sviluppo.
E se in quegli anni furono i lavoratori italiani nel loro migrare dal sud al nord, dall’Italia all’Europa, alle Americhe, all’Australia, i protagonisti di un esodo che viveva più di scarsi salari, pochi diritti e deboli protezioni sociali che di benessere, nei giorni nostri tale condizione pesa sia trasversalmente sui giovani precari, sulle donne, sugli immigrati e su migliaia di lavoratori espulsi dai cicli produttivi che vivono in una disperata attesa di un nuovo lavoro.
La sfida che si pone al sindacato in questa condizione è dunque quella di affrontare cambiamenti epocali senza perdere i riferimenti valoriali che lo contraddistinguono.
Statuto della CGIL, art. 2
“La CGIL basa i propri programmi e le proprie azioni sui dettati della Costituzione della Repubblica e ne propugna la piena attuazione.
Considera la pace tra i popoli bene supremo dell‟umanità.
La CGIL ispira la sua azione alla conquista di rapporti internazionali in cui tutti i popoli vivano insieme nella sicurezza e in pace, impegnati a preservare durevolmente l‟umanità e la natura, liberi di scegliere i propri destini e di determinare le proprie forme di governo, di trarre vantaggio dalle proprie risorse, nel quadro di scambi giusti e rivolti al progresso e allo sviluppo equilibrato tra le diverse aree del mondo, a partire da un rapporto equilibrato tra i Paesi industrializzati e quelli del Sud del mondo, ad un nuovo ordine economico, ecologico, culturale e in materia di diritti umani.
La CGIL considera la solidarietà attiva tra i lavoratori di tutti i Paesi, e le loro organizzazioni sindacali rappresentative, un fattore decisivo per la pace, per l‟affermazione dei diritti umani, civili e sindacali e della democrazia politica, economica e sociale, per l‟indipendenza nazionale e la piena tutela dell‟identità culturale ed etnica di ogni popolo.
La CGIL ispira a questi indirizzi la propria partecipazione alle attività della Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi, proponendosi di contribuire alla sua affermazione come autentica Confederazione sindacale internazionale, per la promozione, la difesa ed il consolidamento delle organizzazioni sindacali rappresentative in tutto il mondo e « per l‟esercizio di un autonomo e indipendente ruolo sindacale nei confronti dei governi e delle istituzioni politiche, economiche e finanziarie internazionali. …”
L’analisi storica o sociologica che va adottata per esprimere un giudizio sull’azione della CGIL in quest’ultimo decennio non può prescindere dal valutarla in funzione proprio dei principi che ne trasmettono quello che io intendo chiamare “il tratto distintivo”.
Ogni altro metro di misura e fuorviante e si basa sull’idea che soggetti estranei all’organizzazione stessa possano con diverse motivazione, modificare la natura stessa del sindacato per adattarla di volta in volta al punto di vista imprenditoriale, governativo, politico.
Oggi è in particolare il Governo a voler giocare questo ruolo e, nel Governo, un impegno straordinario per operare in questa direzione è quello del Ministro del Lavoro che in tutti questi anni prima da sottosegretario, poi da parlamentare e oggi da ministro, ha costantemente operato per mettere all’angolo la CGIL e le sue organizzazioni di categoria.
L’anomalia sindacale, sia nel panorama europeo che in quello internazionale è data dalla forte natura confederale delle grandi centrali sindacali. Sia la CISL che la UIL e la stessa UGL si presentano come grandi confederazioni che traggono, al pari della CGIL, la loro identità da una visione generale del mondo del lavoro e dalla capacità di garantire uno sviluppo armonico delle relazioni sindacali.
Per la verità la CGIL ha un tratto distintivo più robusto in questa direzione: a differenza delle altre Confederazioni che, in un modello piramidale sono la struttura che “confedera” i diversi sindacati di categoria (modello largamente diffuso negli altri Paesi), la CGIL è direttamente una organizzazione di iscritti che poi si organizzano in categorie merceologiche diverse.
Tale diversità non è un preziosismo organizzativistico ininfluente e lo dimostra proprio la storia di questi anni.
Con la crisi della prima repubblica e le devastanti ricadute sui partiti politici le organizzazioni sindacali sembrano non subirne una diretta conseguenza. Resistono all’onda d’urto ma ciò che va in crisi progressivamente è il processo unitario che si era avviato tra gli anni ‘70 e gli anni ’80 e che sembrava oramai giunto a compimento. Torna di moda il concetto di autonomia dai partiti e dai governi non tanto per riaffermare unitariamente una legittima quanto necessaria distinzione di ruoli, ma per ritrovare tutte le irragionevoli ragioni del dividersi sempre più lontani dal merito dei problemi.
Quando si producono i primi strappi unitari, la CGIL si rende conto che il merito diventa sostanza concreta per garantire un rapporto vero con i lavoratori ed è con questa metodologia che si cerca di mantenere saldi i rapporti con le altre confederazioni.
Ciò accade ripetutamente sia nei lunghi anni ’90 sia nel primo decennio del 2000. E’ chiaro che nessuno è disponibile a caricarsi il peso delle rotture e quando questo accade non si può che tornare ad merito delle “piattaforme” unitariamente concordate e ai risultati che si portano a casa.
E’ proprio la distanza tra rivendicazioni e risultati la causa inequivocabile della resistenza della CGIL a sottoscrivere intese sia con i Governi sia con i datori di lavoro. Ma il dato più rilevante della distanza tra rivendicazioni e risultati e politiche governative non è data, come ci si aspetterebbe, da fattori economici ma da una costante messa in discussione di diritti acquisiti o dalle incursioni della legislazione del lavoro che produce l’esplosione del precariato senza ottenere risultati verosimili sulla normalizzazione del lavoro nero.
Tornano in gioco i principi, gli elementi valoriali di una rappresentanza che è chiamata ad esprimersi a corrente alternata senza mai riuscire a definirne le prerogative e le modalità di espressione.
Il peso di tale situazione nella stessa CGIL è fortissimo. E lo si misura ogni qualvolta si affrontano temi che incidono nella condizione dei lavoratori producendo arretramenti non marginali in una costante azione di difesa dove gli esiti vanno analizzati in funzione del “minor danno sopportabile”.
Ma nei fragili rapporti unitari anche questo sembra non bastare e la complicità del governo è tale da produrre rotture drammatiche con il solo risultato di incidere negativamente nella già precaria condizione del mondo del lavoro.
Ora in molti si sono chiesti e si chiedono perché la CGIL abbia assunto una posizione considerata dai più benevoli figlia di un radicalismo estemporaneo e dai più malevoli quale cinghia di trasmissione di una sinistra estrema.La mia è una risposta soggettiva che inevitabilmente è influenzata dall’aver partecipato direttamente a questa stagione almeno fino al 2009.
Abbiamo semplicemente provato a fare il nostro dovere, anche quando è stato difficile rappresentare soluzioni poco popolari a partire dalle diverse riforme del sistema pensionistico. Ma la nostra radicalità e scattata quando è stata palese l’aggressione a diritti indisponibili perché costituzionalmente tutelati.
Ancora oggi si ripetono espliciti tentativi di cambiare la Costituzione, vi sono ministri che vogliono modificare il primo articolo o che vogliono, in nome di una modernità incomprensibile, stravolgere, più che vigilare sulla concreta applicazione, le norme previste dallo Statuto dei Lavoratori.
E’ di questi giorni l’ulteriore incursione sulle forme contrattuali nel ripetuto tentativo di cancellare i contratti nazionali per “dare sviluppo” alla contrattazione aziendale.
Mi pare questo un tema interessante sul quale soffermarsi perché dietro alle belle parole c’è un tentativo neppure troppo nascosto di riproporre una società corporativa dove ognuno si muove a seconda della propria forza o della convenienza temporanea. Uso il termine “riproporre” perché il modello corporativo della società è stato ampiamente sperimentato nel ventennio fascista ed oggi, se applicato, produrrebbe una implosione ancora più violenta del contrasto sociale.
E per sviluppare questa idea si usa la complicità della crisi. Vuoi continuare a lavorare?: bene dimentica di essere parte di una collettività, guarda il mondo dal tuo piccolo osservatorio, adegua la tua condizione alla strategia d’impresa. Strategia che ha logicamente a cuore i dividendi degli azionisti più che la condizione di chi li produce.
Mi si dirà che ragiono come un “comunista” o, meglio ancora perché più di moda, “come uno della CGIL” e che quindi sono irrecuperabile. Ed io che comunista non sono mai stato ma della CGIL lo sono da 41 anni, non posso che sorridere perché, alla prova dei fatti, un po’ di radicalità non guasta.
Domando ai “non comunisti” o meglio ai “non CGIL”: se vi propongono di scambiare opportunità di lavoro con diritti costituzionali, se vi fanno capire che la partecipazione è un optional a seconda delle convenienze, se t’accorgi che “gli altri” considerano la rappresentanza come una variabile da mettere in campo a seconda delle proprie esigenze evitando ogni rischio concreto e libero da ricatti per far contare le persone, se contestualmente ti accorgi che chi governa vuole svuotare i poteri del Parlamento, se percepisci che gli stessi aborriscono il concetto di autonomia e di separazione dei poteri dello Stato, se non puoi non cogliere che anziché favorire la convivenza civile, si incentivano comportamenti razzisti e si tenta di dividere l’Italia, se ti accorgi di tutto questo, cosa fai per impedirlo?.
Risposta semplice almeno per me e per oltre 5.000.000 di iscritti alla CGIL: cerchi di reagire. E la CGIL in questi anni ha semplicemente cercato di reagire mentre altri, con atroci delusioni, si sono seduti alla tavola imbandita.
Si dirà allora, come sogliono dire Ministri e Deputati, Imprenditori e sindacati concorrenti, si dirà allora che stai facendo politica e la politica non è il tuo mestiere.
Bene, se cercare, con tutti gli umani limiti e con tante insufficienze, di contrastare un’idea di società che sa solo scaricare sul lavoro dipendente tutte le contraddizioni della nostra epoca, se questo significa fare politica, ebbene sì, la CGIL fa politica. E lo fa partecipando attivamente alle pulsioni interne alla nostra società, assumendosene la sua parte di responsabilità e, siccome “il scendere in campo” non è solo una prerogativa dei Cavalieri, lo fa “scendendo in campo” convinta che nulla è irreversibile e che non ci si deve rassegnare ad un mondo che si trasforma scaricando sul lavoro tutto le sue contraddizioni.
La prima avvisaglia che la situazione è reversibile la si è colta alla manifestazione delle donne del 13 febbraio scorso seguita poi da altre imponenti mobilitazioni compreso lo sciopero generale proclamato dalla sola Cgil il 6 maggio scorso e l’imponente manifestazione in occasione dei 110 anni della FIOM.
E’ per questo che abbiamo i nervi saldi come dimostrato in questi anni difficili. Basta pensare che ogni occasione è buona per tentare di metterci in difficoltà: è delle scorse settimane sempre l’ennesimo tentativo del Ministro del Lavoro di dare una spallata definitiva alla Cgil.
Per giungere a questo risultato da tempo inseguito ha pensato bene, nella sua logica corporativa, di far leva su una categoria considerata sindacalmente “debole”, quella del terziario e del commercio. Un pezzo imponente del mondo del lavoro, con i suoi tre milioni di donne e uomini comprendenti le mansioni più diverse: dagli agenti immobiliari alle commesse dei supermarket, ai camerieri degli alberghi, ai bagnini, ai parrucchieri, ai portieri. Con dentro, spesso, una marea di atipici e precari.
Ripetendo uno scenario già visto con le vicende FIAT, l’occasione è stata quella dal rinnovo del contratto di lavoro. Ad un certo punto della faticosa trattativa il ministro Sacconi ha chiesto d’inserire nell’intesa un paio di elementi scatenanti ovverosia il recepimento integrale dei contenuti dell’Accordo separato firmato da Cisl, Uil nel 2009, nonché i contenuti del “collegato lavoro” approvato dal governo di centrodestra e fortemente criticato dalla Cgil.
L’intento era quello di obbligare o subdolamente convincere la Filcams (il sindacato di categoria aderente alla Cgil) a firmare il tutto, sconfessando così la casa madre guidata da Susanna Camusso.
Avevano creduto che Franco Martini, segretario generale della Filcams, considerato da sempre un serio riformista, fosse portato ad accettare l’imposizione. Così non è stato. Martini che spesso ha saputo polemizzare anche con posizioni come quelle sostenute da dirigenti della Fiom, non è stato al gioco.
Proprio da serio riformista è entrato nel merito e ha spiegato che con quel diktat si accettava un meccanismo (Ipca) che inficiava il potere d’acquisto (è prevista la bellezza di 86 euro d’aumento salariale in tre anni) e si introduceva la possibilità di deroghe onde indebolire il contratto nazionale.
Altri aspetti indigeribili riguardavano la salute (peggiorando il trattamento pagato per i primi tre giorni di malattia), mentre col collegato lavoro, si dava il via libera all’arbitrato di equità per i contratti individuali. Dulcis in fundo: una blindatura della contrattazione aziendale.
Che fare a quel punto? Martini ha chiesto che almeno si sentisse il parere dei lavoratori interessati. Non avevano fatto così anche per Mirafiori? Non ci sono state risposte positive. Anzi proprio l’altro giorno Angeletti (Uil) e Bonanni (Cisl) hanno sostenuto di non essere preoccupati per la defezione della Cgil. In tempo di crisi bisogna ingoiare quel che passa il padrone con la complicita esplicita del Governo.
Ha scritto sul “Diario del lavoro” Gaetano Sateriale, dirigente della CGIL e per lungo tempo sindaco di Ferrara, come l’attuale governo si sia posto l’obiettivo di “omologare a sé Confindustria, Cisl e Uil, considerandoli interlocutori privilegiati ed esclusivi, e confinare la Cgil all’opposizione”. E Cisl e Uil “per calcolo o per inerzia, si prestano a questa trasformazione genetica del sindacalismo italiano”. Anche se dovrebbe alle persone di buon senso apparire chiaro che “non è di questo che ha bisogno, oggi, il Paese”.
“L’Italia è ancora in grande difficoltà, mentre il Presidente del consiglio continua a parlare di un Paese che non c’è. La situazione è invece grave ed è evidente che si sono persi 3 anni. Siamo quelli che crescono di meno ed è per questo che bisognerebbe smetterla con le bugie e con le false rappresentazioni. E’ stato per esempio raccontato che noi saremmo a favore della manovra del ministro dell’economia.
Noi pensiamo che se si fa la manovra Tremonti senza prima promuovere la crescita il Paese non è in grado di sopportarla”.
Così Susanna Camusso, Segretario generale della CGIL, che ha voluto precisare il 22 giugno le posizioni della CGIL sulla manovra economica del Governo. Ed è stata l’occasione per parlare anche di Fisco, Rappresentanza, Contratti.
Ma questa è storia dei giorni nostri.
(nelle foto dall’alto in basso alcuni leader della CGIL: Giuseppe Di Vittorio in marcia, Luciano Lama, Bruno Trentin e Susanna Camusso attuale segretaria della CGIL. La seconda immagine in alto è il quadro l’occupazione delle terre di Guttuso. Il logo è tratto dal film Tempi Moderni di Charlie Chaplin)
Italo Stellon, Presidente INCA Francia