Per Missione Poesia Antonietta Gnerre, un’autrice che in un’accurata miscellanea di ricordi e alberi, ci propone un percorso quasi sacro nel quale, non tarderemo a verificare come gli elementi personali (sentimenti, destino, corpo) trascendano dalla loro condizione primaria, per diventare elementi cosmici, precisi e perfetti nel disegno divino, forgiati con la lingua della poesia quale offertorio di grazia e di vita.
Antonietta Gnerre è poetessa, critico letterario, scrittrice, giornalista, laureata in Scienze Religiose presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale.
Si occupa, come studiosa, della poesia spirituale del ‘900. Collabora con la cattedra di Diritto e Letteratura del Prof. Felice Casucci presso l’Università del Sannio. E’ presente in numerosi blog letterari, siti web, riviste cartacee e in rete con interviste e critiche poetiche a poeti e scrittori tra i quali ricordiamo: poesiablog raimews di Luigia Sorrentino, Farapoesia, Abruzzo Cultura, Viadellebelledonne, lucaniart, liteaty, sapereincampania.
Ha curato le pagine culturali del settimanale cattolico Il Ponte. Collabora a riviste letterarie come Gradiva, Poesia Meridiana, Capoverso. Fa parte del comitato scientifico del Festival della Poesia dei Paesi del Mediterraneo. E’ presidente del Premio Prata, la cultura nella basilica. Ha curato le rassegne Conversando, Calici di Parole, Itinerari Culturali per l’associazione Agorà di Pratola Serra e Autunno in Reading. Ha pubblicato le sillogi poetiche: Il Silenzio della luna (Manni, 1994); Anima di foglie (Delta 3, 1996); Fiori di Vetro – Restauri di Solitudine (Fara, 2007); Salici di Seta – Il viaggio del silenzio nei poeti Irpini (Fara, 2008); Preghiere di una poetessa (Fara, 2008); I ricordi dovuti (Progetto Cultura, collana Le gemme, 2015).
Per la saggistica, sono stati editi i seguenti libri: Meditazione poetica e Teologica in Mario Luzi ( Delta 3, 2008); Cristina Campo – Il viaggio silenzioso e spirituale, ne Il silenzio del diritto nei Saggi di Diritto e Letteratura curati da Felice Casucci (Esi, 2013; Il respiro universale del maestro Nicola Leone – nel catalogo a cura di Concetta Anna Leone nel 2014.
***
Conosco Antonietta Gnerre da alcuni anni, e posso dire di stimarla molto, per il suo impegno culturale e scientifico sia in ambito poetico che saggistico. La sua ricerca intorno alle tematiche religiose si estende spesso, e volentieri – inevitabilmente – si incontra con le tematiche proprie dell’animo umano, andando a indagare laddove vi è una necessità di riconoscersi nelle “cose” del mondo, di identificarsi con il creato, con le sue creature, nonché dove siano in particolar modo queste riconducibili all’ambiente arboreo, simbolo di vita e radici, di sensibilità e di forza. La sua attività di promotrice culturale la porta, inoltre, a promuovere importanti iniziative che, a livello nazionale, si propongono ormai tra le eccellenze degli eventi organizzati per riconoscimenti attribuiti in ambito culturale e sociale.
***
I RICORDI DOVUTI
Non c’è artista, autore, poeta che non si sia confrontato con quanto di più ancestrale esista a livello inconscio per ognuno di noi: il ricordo, spesso confuso e/o identificato con la memoria anche se, in realtà, i due termini hanno un significato diverso proprio a partire dalla loro etimologia.
Memoria viene dal greco mimnésco, e indica un’attività della mente che tende a un valore etico: il mantenere in vita dei contenuti del passato. Nella tradizione classica era nota Mnemosyne, la Musa della Memoria, nonché madre delle Muse, alle quali era affidato il compito di trasmettere e continuare la conoscenza della bellezza nel tempo. Oggi la Mnemotecnica è una scienza che vuole preservare nell’uomo questi compiti e la memoria è diventato un termine tecnologico: la memoria del computer.
Ricordo viene dal latino re-cordor ovvero richiamare al cuore: ha più a che vedere con il campo semantico dei sentimenti, è più soggettivo e sottoposto a filtri – di cui si può essere più o meno consapevoli – attraverso i quali restano o compaiono esperienze del passato.
Nella vita, così come nell’arte, alla memoria appartiene la necessità di tramandare il passato, di testimoniarlo anche attraverso una forma pubblica; al ricordo fa capo, invece, la volontà – quasi sempre inconscia – di migliorare la condizione della vita, come avviene in ambito psicanalitico quando ci si accorge del tentativo di rimozione di fatti traumatici. La poesia ci aiuta a capire. Così, se Machado ci fa rivivere – guarda caso attraverso i particolari di un albero – le emozioni di una sera di primavera che torna alla sua mente: Il limone sospende in abbandono/un ramo scolorito e polveroso/sopra l’incanto della fonte pura/e là sul fondo sogna/l’oro dei frutti… […] Sì, ti ricordo, sera lieta e chiara,/quasi di primavera; Maria Luisa Spaziani ci propone una dimensione in cui ricordo personale e memoria collettiva si uniscono, in un positivo recupero di archetipi universali: Io mi ricordo onde che s’infrangono/molto più forti rapide violente/contro scogli giganti alla cui vetta/non si leva nemmeno per scongiuro/mai la mano dell’uomo […]; Antonietta Gnerre, in questo libro, afferra i ricordi dovuti e ne fa versi mirabili di istantanee immagini, tra sentimento e natura: Il colore di questo istante/mi copre dal freddo di febbraio/che gocciola sui rami, dai gesti/da una virgola.//Questo istante che è agile./Perfetto nell’addio […] E, il suo parlare proprio attraverso la natura, il suo relazionarsi con essa, divenendone foglia e radici, linfa e humus, ci trasporta nell’altro grande contenitore di poetica dell’autrice, rappresentato dall’albero.
Non è sola Antonietta Gnerre in questo pensiero che accomuna sentimento-poesia-poeta con la natura, con l’albero in particolare, abbiamo detto. Solo per citare un paio di esempi, oltre a già citato Machado, e senza scomodare troppo Giuseppe Ungaretti, che in quanto a umanizzazione degli alberi la sapeva lunga (cito solamente, dalla poesia I fiumi: l’albero mutilato, schiantato dalla bombe e quindi personificato), rammento Margherita Guidacci la quale – in un articolo comparso su Avvenire riportante un suo scritto inedito -, riprendendo la definizione di arte proposta da Aristotele, ovvero che questa è un’imitazione della natura – intesa come un ripetere il procedimento della natura – affermava che:
“La poesia è qualcosa di organico, di vivo, qualcosa che ha un seme da cui poi spuntano delle radici, uno stelo, un fusto, delle foglie, un fiore e un frutto. Proprio l’immagine dell’albero è per me quella che meglio rende l’idea di cos’è un poeta, o un artista in generale. [continua più avanti, sempre nello stesso articolo, dicendo che, per lei] i poeti erano come alberi. Tutti affondavano le radici nella terra, la nostra madre comune. Tutti, avendo degli elementi diversi, perché eran stati voluti dalla natura con possibilità diverse sceglievano dalla stessa terra dei succhi diversi, quelli che più si confacevano a loro. Perciò, accanto a un giuggiolo o a un nespolo si poteva trovare benissimo un rovo, tutti radicati nella stessa terra: ciascuno ne aveva scelto le sostanze che avevano contribuito a farlo giuggiolo, nespolo o rovo, l’importante era che desse dei buoni frutti, qualunque pianta fosse.”
Al contempo, Tiziano Fratus, l’autore che proprio dagli alberi ha tratto l’essenzialità della sua poetica, con numerose pubblicazioni sull’argomento, riprende già dal titolo del suo ultimo libro “Ogni albero è un poeta” (Mondadori, 2015) il pensiero stesso della Guidacci e ne propone una sua rivisitazione. Afferma Fratus che: “Quando vaghi ramingo nel bosco, il tempo svanisce. Si compatta ed esce completamente dal tuo orizzonte esistenziale. Non sei più un animale che conta il tempo, un Homo Sapiens Sapiens Contabilis, e di questo, alla fine della giornata, sarai immensamente grato”. Il poeta del libro conosce gli alberi. Li cerca per i boschi e le foreste di tutto il mondo, li studia, li ascolta. E poi scrive libri bellissimi. A chi gli chiede come stia, risponde sempre la stessa cosa: Mi distendo nel paesaggio, e qui cammina con lo spirito in pace, ma pronto a ogni passo a farsi sopraffare dalla meraviglia, pronto a sentirsi affondare le radici dentro la terra, a innalzare le fronde al cielo.
Ebbene, Antonietta Gnerre, in questa miscellanea di ricordi e alberi, ci propone un percorso che non sbaglieremmo a definire quasi sacro – non si dimentichi la formazione letteraria teologica della Gnerre – nel quale, se può sembrare in un primo momento che la protagonista sia la stessa autrice, con il suo destino, il suo cuore, il suo corpo non tarderemo a verificare come questi elementi riescono a trascendere dalla loro condizione primaria, per diventare elementi cosmici, precisi e perfetti nel disegno divino, forgiati con la lingua della poesia quale offertorio di grazia e di vita: Le tracce dei mie pensieri sembravano orme giganti./Mi fermavo nel giallo ricolmo di orizzonti./Tutto era perfetto. E le spighe tracciavano le mie spalle/con fili d’erba che conoscevo solo io.
Innegabile anche la dimensione del paesaggio nativo dell’autrice, quella terra irpina così ricca di sacralità e mistero, manto verde di un’Italia dolorante, spesso colpita dalla stessa natura di cui è parte integrante – c’è un testo, nella raccolta, con un riferimento al terremoto e alle genti di quei luoghi, che qui diventano i luoghi della poesia -. Ma, innegabile, è ancora la misura che alla fine viene presa dalla Gnerre per calcolare la distanza tra il sentimento primordiale di unificarsi, immedesimarsi, e forse anche quasi celarsi con/dentro “i suoi alberi” per restituire al lettore quelle parti di sé seppellite in quelle materie nelle quali continuare a vivere, esse stesse materia vivente, esse stesse organi indispensabili al funzionamento dell’universo.
Un libro questo della Gnerre, ricco di punti fermi – anche nell’amplificazione riscontrata attraverso la punteggiatura dei versi -, un libro dove non si fa mostra di strumenti retorici o manierismo, un libro forte ed essenziale, così come appare il carattere della stessa autrice, dal quale prendere fiato dopo il full immersion nella lettura, per andare a respirare proprio laddove si trovano gli alberi e sopravvivono i ricordi.
Alcuni testi da: I ricordi dovuti
Il colore di questo istante
mi copre dal freddo di febbraio
che gocciola sui rami, dai gesti
da una virgola.
Questo istante che è agile.
Perfetto nell’addio
tra il vento che segna le date
in segno di connivenza e di pentimento.
In questo abitare l’istante
non scelgo bene né male:
palpo, concepisco
in carta sottile,
il mondo.
***
I ricordi ci guardano,
se ne stanno là, vedi, a pregare.
Ci aspettano nel fuoco delle emozioni con lentezza,
sapendo che questo nostro presente
è più grande, a volte.
Vivono negli specchi, sulle lenzuola, ovunque.
Crescono di notte bisbigliando fra loro,
sospesi sul soffitto da un batticuore.
***
Di tutti i colori amo il verde,
l’immaginazione della sua andatura.
La base quando contiene ciò che rimane,
la forma che sfila collane di acqua.
Dove trovo il verde
il tempo delle cose si ripete.
Si ripete da lontano fino dall’inizio dei rami
nel gioco dell’istante.
Dal verde tutto emerge e tutto muta
nel miracolo di un nuovo germoglio.
***
Scrivo poesie che sanno trasformarsi.
Che sfuggono dalle porte dei saloni.
Per ogni porta aperta che avvicina l’attesa.
Tiro le somme con numeri di ricordi.
Ecco, il giallo campo di mais non esiste più.
Non più le rane nel fiume.
Qualcuno ha scelto il mio destino.
Ha scelto e riepilogato i risultati,
Dall’ordine dei segreti umani.
Tutte le notti appoggio la testa
Sul cuscino per separarmi
Dai nomi di cui sono fatta.
***
Ciò che scrivo
è parallelo al suolo che mi ospita.
Le parole le aspetto quando
canta un uccello nel cortile.
Mi allargo con la mente e occupo il suo posto
tra le code delle lucertole che si attraggono.
Un albero – da lontano – parla alle sue foglie,
che non fanno rumore.
Qualcuno porta la mia vita
da annunciare sulla pagina.
Ed io non so più chi accompagnare
tra gli alberi che maturano.
Cinzia Demi
Bologna, ottobre 2017