Compivo dieci anni, c’era una piccola festa con i miei amici: si erano presi la fetta di torta e poi si erano messi a guardare la partita alla televisione. Lasciandomi solo; a me la partita non interessava. 1975, aprile (il più crudele dei mesi, dice il poeta), il giorno aveva cinque teste, Pasolini (i poeti, che brutte creature) sarebbe morto spiaccicato come un gatto del Colosseo qualche mese dopo; ma non lo sapeva ancora, o forse sì. Io niente sapevo. Il calcio no, non mi interessava.
La partita era Italia-Polonia. Zero a zero. Le partite della nazionale, allora, si giocavano al pomeriggio. Nel sole di Roma con il verde degli alberi e il cielo blu di Roma, blu anche quando è nuvoloso. Però mica li vedevamo il verde e il blu: la televisione era in bianco e nero. I miei amici, tutti pazzi per il calcio. Io no. Finita le elementari, entrai alle medie, e cominciai a interessarmi al calcio. Per viltà. Conformismo. Per far parte del gruppo. Del branco.
Alle elementari eravamo tutti maschi. Alle medie (malefiche) c’erano pure le femmine. Mia nonna diceva: se metti la paglia vicino al fuoco… Io non capivo: non ero né paglia né fuoco. Ero maschio (e lo sono tuttora, ndr), per evidenza genitale. Le femmine ballavano, il sabato pomeriggio: Bee Gees, Olivia Newton John, John Travolta. La professoressa di italiano aveva detto a mia madre: “è che a quest’età le femmine sono più maliziose”. Io non ero malizioso: ero nato bambino. Ma tutto attorno a me (i grandi la scuola il cielo il comitato centrale il prete il sindacato) diceva che per essere maschio devi interessarti a due cose: una, il calcio. L’altra, le femmine. Scelsi il calcio (furbo, eh?).
Del resto, non si parlava d’altro. Periferia di ponente a Genova d’uomini destri (Ansaldo, San Giorgio, Sestri). Tra la vita e la morte, tra le due squadre della città, la Sampdoria e il Genoa, scelsi la Sampdoria. Mio padre e mio fratello erano sampdoriani. Per qualche tempo, sia pure distratto, mi ero dichiarato tifoso del Genoa (a ripensarci oggi, non sembra neanche vero). Mio fratello aveva sul comodino una bandiera con i colori della Sampdoria (blucerchiati, come si dice con formidabile intuizione linguistica: blu bianco rosso e nero), fatta con i pastelli su carta a quadretti. Io ne avevo fatta una con i colori del Genoa: rossoblù. (Per questo outing penso che molti miei amici sampdoriani mi toglieranno il saluto).
Mia madre all’epoca dei fatti si dichiarava svagatamente genoana: io seguivo la mamma, in opposizione ai maschi di casa, come da manuale di Edipo. Ma era un fuoco di paglia (appunto). Al momento di scegliere e di andare, ero diventato sampdoriano. A scuola, maggioranza di genoani, parecchi juventini. Qualche tifoso del Torino; venivano dal basso Piemonte. I loro padri, all’immobile campagna, avevano preferito la vita da operai in fonderia, con il mare che si muove anche di notte, non sta fermo mai. Alcuni genoani dicevano che a Genova, “i veri genovesi “ erano loro. Il concetto di “vero genovese” non poteva che farmi scegliere all’istante di stare dalla parte opposta. Scelsi la Sampdoria perché non esisteva alcuna ragione per sceglierla. Né patenti di identità locale (i genoani la pretendevano per loro, in esclusiva), né buoni risultati sportivi (la Sampdoria andava malissimo), né glorie passate (a differenza del Genoa, all’epoca la Sampdoria non aveva alcun trofeo nella sua bacheca. Bacheca che si sarebbe imprevedibilmente popolata tra gli anni Ottanta e i Novanta, in una inattesa belle époque. Che presumibilmente non si ripeterà mai più. Come la vita di ognuno di noi). E il calcio cominciò a essere un pezzo della mia vita.
La mattina a scuola, il pomeriggio a giocare a pallone (io, malissimo) nei cortili. La domenica, lo stadio. Andavamo tutti, sempre, i biglietti costavano poco (mica come adesso), un poco che per noi era tanto (c’erano i ricchi e c’erano i poveri: i poveri eravamo noi). Duemiladuecento lire per entrare in gradinata. Su un muro vicino allo stadio stava scritto: “Genoa, Doria, alienazione: sono strumenti del padrone”.
Nel vecchio stadio si sentiva il gracidio delle radioline (diceva lo scrittore della mala genovese, sampdoriano, Edoardo Guglielmino). Un bellissimo libro di Fernando Acitelli, poeta ed ex fuochista (nella vita ha acceso caldaie, per mestiere), “la solitudine dell’ala destra”, uscito per Einaudi, racconta perfettamente quel mondo: “da queste parti a maggio / la penultima di campionato è un eterno spareggio./ (…) A dribblare nel fango non basta, /così di stinco al novantesimo, con in aiuto un lapillo, segna Cristin che poi ringhioso esulta verso i popolari”.
Cristin era un vecchio giocatore della Sampdoria. Una fotografia in bianco e nero nella pioggia primaverile, con il campo infangato. Poi, a forza di spareggi primaverili, la Sampdoria, nel 1977, era retrocessa in serie B. Tristissimi (e bellissimi come può essere bella la tristezza, ma non ditelo troppo in giro) campionati cadetti. Si tornava dallo stadio, alla televisione Novantesimo Minuto (ta-ta-ta-ta-ta-tarataaaaa-tatarata), poi Domenica Sprint, la Domenica Sportiva. Il calcio non era uno spettacolo. Non era un divertimento. Non era uno “show”. E forse nemmeno uno sport. Era dolce e stupido come la vita stessa (come uno scultore, Oldenburg, dice dell’arte). Come le nuvole. Gli alberi. Le case, le chiese. Una storia popolare. Un’autobiografia della nazione. Brutta e bella. Piena di cose non tutte giuste e non tutte sante.
Pasolini diceva (parola più, parola meno) che la partita di calcio era l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Io andavo allo stadio sempre, io allo stadio son cresciuto. Qualche volta (quando c’erano i soldi) si partiva. L’Italia tutta intera. Pisa, Pistoia. Piccole città, bastardi posti. La prima volta a San Siro, a Milano, 1981. San Siro immenso. I treni. Io e altri imbranati, timidi, sperduti. Nello scompartimento entrano ragazzi scafati, bulletti, di quelli che piacciono alle femmine (maledetti loro), “cioè belin cazzo al limite, ragazzi, a Milano niente provocazioni, capito?”.
All’arrivo a Milano, la stazione dei disegni di Buzzati, spettrale e immensa e nordica, saranno loro stessi ad affacciarsi al finestrino e gridare “Milano – è – una – città-di-merda! Milano – è – una – città-di-merda!”. Ma non si era detto niente provocazioni? E poi è così bella Milano (nel freddo, nella nebbia). A Pistoia, rigore contestato per la squadra di casa, il pubblico sfolla, un tipo altissimo e incazzato nero, grida: “cittadini di Pistoia” (pausa studiata), “pezzi di merda!”, e dà un colpo su una macchina bloccata tra la gente. Segue rissa. Sono cresciuto così. In questa cosa qui. Il calcio.
Quella cosa che a Parigi non esiste. Quell’ambiente indubbiamente da zoticoni. Che a tanti parigini fa (giustamente) un po’ schifo, orrore. La Sampdoria è stata la mia casa, un pezzo della mia vita. Lo sport, in generale, mi stufa, non lo capisco, e non lo seguo. Il calcio è stato per me un’altra cosa. Romanzo popolare, formidabile macchina narrativa. Educazione sentimentale. Libro di sociologia, tesi sulla società (in)civile. Il calcio (dice lo scrittore e giornalista Stefano Rissetto) è qualcosa di molto diverso dal calcio. A Genova, poi, l’appartenenza calcistica era (è) un elemento di identità. Io portavo dentro questo sentimento di appartenenza.
Essere sampdoriano era per me come essere cattolico a Belfast. Portatore di un’identità di opposizione, che doveva ogni giorno riaffermare il suo diritto ad esistere. Tra noi sampdoriani ci riconosciamo al volo: un montaliano fischio, un segno di riconoscimento. Città nella città. Comunità. Ho un’istintiva vicinanza a questo tipo di cause. Sarei stato (sono stato, in altre vite) cattolico a Belfast, nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi (come cantava de André che invece era genoanissimo, e di quelli cattivi, accidenti a lui; a differenza del suo amico fraterno Paolo Villaggio, sampdoriano come me).
Negro (negro) in Texas. Ebreo – dovunque. Nel tempo certo le cose sono molto cambiate, e anche a Genova, come altrove, queste differenze si sono attenuate. Talvolta rovesciate nel loro opposto: i dirimpettai cittadini, tifosi del Genoa, per una sorta di contrappasso, hanno anche loro dovuto attraversare un deserto, si sono anch’essi trovati a dover affermare il loro diritto a esistere, quando per un decennio (tra anni Ottanta e Novanta), la “povera” Sampdoria si è imprevedibilmente ritrovata a essere una squadra di primo piano. Perché ognuno, a turno, è il cattolico di Belfast, il negro del Texas, l’ebreo di (quasi) ovunque di qualcun altro. Prima o poi ognuno di noi (la vita attende paziente) si ritrova a varcare la conradiana linea d’ombra, ad essere, infine, l’altro: l’ospite, l’intruso, l’imprevisto, quello che non dovrebbe esistere, con la faccia da straniero, la gueule de métèque, de Juif errant, de pâtre grec.
Forse per questo mio sentirmi simbolicamente “altro” e quindi “ebreo” per vocazione, appartenenza, destino (ed eccolo l’inestricabile paradosso, la contraddizione), forse per questo ho sempre avuto qualche simpatia per la squadra della Lazio, che a Roma si è sempre ritrovata in una situazione di “minoranza”, se non proprio di esclusione. Tutto, a Roma, sembra appartenere di diritto alla squadra giallorossa: il Colosseo, il fontanone, Antonello Venditti che canta a squarciagola.
La Roma suscita di solito ammirazione, affetto e simpatia, sicuramente meritate (non voglio dire il contrario). La Lazio, invece, attira spesso parole sprezzanti: e quindi (senza nulla togliere alla Roma), anche una mia certa istintiva vicinanza. Pecorari, dicono certi romanisti ai laziali. Vabbé. E soprattutto: fascisti. Perché la Lazio ha sempre avuto questa reputazione destrorsa. In questi giorni, poi. Alcuni sostenitori della Lazio, diversamente intelligenti, hanno diffuso adesivi con l’immagine di Anna Frank (figlia sorella nostra, perduta nella nebbia, Anna che ogni giorno perde qualcosa) con la maglia giallorossa dei rivali della Roma. Anna Frank era ebrea, ebreo è da loro considerato un insulto. O uno “sfottò”. (Che brutta parola, sfottò).
La reputazione “fascista” della Lazio in parte corrisponde a elementi reali. Ma la realtà è sempre complessa. La realtà ospita la contraddizione, il proprio negarsi (l’unica cosa, del resto, che la rende interessante ai miei occhi. Se non fosse contraddittoria e spesso assurda, la realtà sarebbe una rottura di scatole micidiale). La Lazio che vinse lo scudetto nel 1974, quando io ero bambino, era una specie di banda paramilitare di simpatiche canaglie, in maggior parte di destra. Di destra-destra, intendo. Di quella brutta sporca e cattiva.
Eppure quella squadra è rimasta nella memoria di molti, e anche nella mia, in modo indelebile. Tra i tifosi più accaniti della Lazio, vi è storicamente una forte presenza di gruppi di tendenza neo-fascista. Del resto a Roma, e in generale nella regione laziale, di “fascisti” ce ne sono tanti. Di tutti i tipi. Stupidi e no. “Fascisti immaginari”, dice un recente, bel libro. I tifosi organizzati della Roma hanno avuto per anni al loro interno forti componenti di sinistra, poi progressivamente marginalizzate; e adesso, da molti anni, ospitano anch’essi segmenti di destra-destra.
Molte delle cosiddette « curve » degli stadi sono divenute nel tempo terreno di caccia e proselitismo per gruppi di estrema destra, che altrove trovavano pochi sbocchi, e che vedevano in quel mondo un’ideale “piccola patria”, terreno di coltura perfetto per attecchire, mondo comunitario stretto attorno a simboli identitari (bandiere, colori) e « opposto » a presunti nemici. Insomma, un mondo antropologicamente e culturalmente maturo per essere di destra. Destra identitaria e comunitaria, antisistemica, non “liberale”, “economica”.
È accaduto in Inghilterra tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ’80. Ed è probabilmente da quell’infiltrazione che poi nacque l’orrore dell’Heysel, a Bruxelles nel 1985, i morti allo stadio, in maggior parte italiani, nella partita tra Juventus e Liverpool; con la tifoseria del Liverpool infiltrata da gruppi neonazisti. In Italia è avvenuto con la Lazio, ma anche con Roma, Inter, Juventus, e squadre assai meno metropolitane come l’Ascoli; c’è stata questa progressiva infiltrazione di elementi di destra radicale nelle tifoserie. Ma la reputazione scomoda resta appiccicata, nell’immaginario collettivo, soprattutto alla Lazio. Una squadra « dannata». Eppure Nanni Loy, meravigliosa persona, e militante comunista, era lazialissimo. Ed è laziale Marco Lodoli, il formidabile scrittore delle guide vagabonde per Roma, che si è trovato a scrivere (su Repubblica, nel 2005): “Bisogna che l’ Italia e l’ Europa sappiano che la Lazio non è la squadra sostenuta dai nostalgici di Salò, e che anzi tantissime persone simpatiche e democratiche si divertono e soffrono a seguire le vicende dei biancoazzurri. Gli scrittori della città, ad esempio, sono quasi tutti tifosi della Lazio: non saprei qual è il motivo, forse un certo pessimismo di fondo, forse l’ idea e il piacere di far parte di una minoranza, forse la mancanza di quell’ entusiasmo totale e un po’ fideista che caratterizza i cugini romanisti. Fatto sta che Albinati e Sinibaldi, Piperno e Trevi, La Porta e Cordelli, Zeichen e De Amicis, Picca e Montefoschi e Governi sono tutti sostenitori della Lazio, e di sicuro come me fremono di indignazione quando sentono dire in giro che la Lazio è la squadra dei fascistoni”.
La Lazio è perseguitata da questa maledizione, di cui è al tempo stesso artefice e vittima. Perseguitata da se stessa. Da un maledettismo, un vizio assurdo. Sono cresciuto in quel mondo, e so bene che esiste una sottocultura da stadio in cui gesti e parole orrende divengono « normali ». In cui la parola lanciata viene scordata un attimo dopo. In cui ci si può abbracciare con l’amico della squadra opposta, subito dopo averlo insultato. So anche che c’è in quel mondo un senso comunitario che genera solidarietà, vivere assieme, legami, vera generosità. I gruppi “ultras” sono spesso in prima linea nell’attività sociale – come ad esempio le recenti raccolte di fondi per i paesi colpiti da terremoti.
Ma so anche che quel mondo genera e accoglie la cultura del nemico (tipica del comunitarismo). La cultura della bandiera che oppone la propria a quella degli altri. La cultura dell’insulto, del gridare più forte. È un mondo che gioca con i limiti e i pericoli della natura umana. Rinchiudendo il conflitto con l’altro da sé in una specie di contenitore giocattolo. Giocando a far la guerra là dove la guerra per fortuna non c’è.
Ma poi il gioco finisce e qualcosa scappa di mano. Conosco la cultura da stadio, so bene che non tutto di quel mondo deve essere letto alla lettera. Eppure nell’adesivo con Anna Frank c’è qualcosa che suscita in me un infinito brivido di orrore, un orrore incontrollabile, come un risveglio improvviso in un luogo chiuso da cui si sa che non si potrà più uscire, come il riemergere di un incubo. Vi prego, lasciatela in pace, Anna figlia, sorella nostra. Cessate di uccidere i morti.
Da quando mi sono trasferito, nel 2001, a Parigi, allo stadio non ci vado più. O meglio: molto di rado. Quando mi è capitato di tornare a vedere la Sampdoria, l’ho fatto un po’ con il timore di disturbare. Come si torna in una casa da cui si è andati via. Come rivedere dopo tanti anni una vecchia fidanzata; e si ha paura di ritrovarsi tutti troppo cambiati. Ormai inutili anche per sé stessi. In realtà sono solo io ad essere cambiato, lo so.
Poco tempo fa, mi sono ritrovato a vedere una partita della nazionale francese, allo Stade de France di Saint Denis, contro la Spagna. Una partita di alto livello (avrebbero detto i commentatori televisivi), così diversa da quelle partite della mia giovinezza. Di fronte allo spettacolo di alto livello, come è giusto che sia, io mi sono annoiato a morte. Ho letto il giornale, guardato il telefonino, sbirciato le spettatrici carine attorno a me. Mi sono chiesto come io abbia potuto dedicare così tanto tempo, e tante energie affettive, a qualcosa che oggi mi appare insensato.
Tornato a casa, ho cercato su Internet vecchi filmati delle partite di quando ero ragazzo. Ho rivisto il vecchio stadio, le gradinate dove sono cresciuto. E ho ritrovato il più profondo degli abissi: il passato, l’adolescenza, la paglia e il fuoco, la scoperta del mondo, gli altri, vincere e perdere, l’insulto e la stretta di mano, e le parole di Maurice Maeterlinck: nous nous figurons avoir découvert une mine de trésors inestimables, et la lumière du jour ne nous montre plus que des pierres fausses et des tessons de verre; et le trésor, inaltéré, n’en continue pas moins à briller dans l’obscur. “Ci illudiamo di aver scoperto in una caverna tesori meravigliosi, e quando ritorniamo alla luce del giorno non ne riportiamo che pietre false e schegge di vetro; e tuttavia, nell’oscurità il tesoro continua a brillare, inalterato”.
Non mi interessa lo spettacolo, sportivo e no. E l’orrore della povera Anna figlia sorella nostra, usata per scherzo, per scherno, forse è davvero troppo. Il tesoro nell’oscurità continua a brillare, inalterato, ma forse è il momento di cominciare a tirare giù le valigie, e come per il poeta Valerio Magrelli, di dire addio al calcio.
Maurizio Puppo