Alessandro Moscè, già da un po’ di tempo, ci ha abituati a romanzi che rivelano una sorprendente vocazione a coltivare il tema della morte. Non è solo un poeta apprezzato, ma anche un narratore di rara sensibilità. Torna con Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018): non un romanzo autobiografico come erano i precedenti, ma incentrato su un tema a lui caro, ovvero: la “finitudine umana”, un suo vero e proprio mantra. Il talento della malattia (Avagliano 2012) lo aveva imposto al grande pubblico, con tre edizioni e recensioni favorevoli della stampa.
Moscè fa sempre i conti con la morte, forse perché da piccolo l’ha toccata con mano (è stato malato di sarcoma di Ewing ed è uno dei pochi ragazzini ad aver sconfitto questa neoplasia ossea negli anni Ottanta). I suoi libri, anche in versi, sono diretti ad un vortice buio, apparentemente inesplorabile poi, ad un certo punto, l’io narrante torna indietro, come se aver visto qualcosa di inedito lo spingesse a raccontare di nuovo la vita rimandando, per timore, l’incontro con l’aldilà.
Stavolta veste i panni di una grande attrice che fu Miss Svezia, alla quale attribuisce il ruolo di “donna più bella del mondo”: la famosa protagonista della Dolce vita di Federico Fellini che nella Fontana di Trevi accolse Marcello Mastroianni come una dea calata dall’alto, una madonna laica, “Venere del Botticelli” (così come la chiamò Salvatore Quasimodo).
Moscè, proprio perché è attratto dal sondare la precarietà dell’esistenza che anticipa la morte, coglie la ex diva, che ha più di ottant’anni e vive appoggiata alle stampelle prima e seduta su una carrozzina dopo, in una casa di riposo fuori Roma. Ma se il racconto procede secondo una linea realista, ad un certo punto lo scrittore sorprende perché si lascia andare ad un’effettività surreale e sogna che Anita Ekberg, sul punto di morte, torni, addirittura, ad essere giovane. Ma è davvero morta o è ancora viva? È tornata viva dopo essere morta?
L’artificio del narratore fa sì che non sia così facile distinguere i vivi dai morti, come fossero tutti sulla stessa barca. E in effetti un piroscafo da signori appare nel finale del romanzo. A bordo, verso il Mar Baltico, ci sono, oltre ad Anita, Fellini, Tonino Guerra, Nilla Pizzi, Orietta Berti e tante altre celebrità. Quando le ceneri della svedese verranno rilasciate in acqua, l’immagine di lei, erotica e irresistibilmente donna, attrae Fellini al punto da catapultare entrambi altrove. Dalla stazione di Rimini partono per Roma: hanno in mente di girare un nuovo, eccezionale film. Il nastro è tornato al punto di partenza perché si girino mitiche scene. Non solo la vita non viene meno, ma si riaffaccia anche una luminosa carriera. Fellini voleva rimanere un “vitellone” e Anita Ekberg era spaventata dalla perdita delle forme fisiche così imponenti.
Quale migliore soluzione che riavere tutto ciò che si può desiderare? Moscè tratta temi pesanti con leggerezza, quasi che la morte, il vero filo conduttore di tutta la sua arte, lo porti a sviluppare un senso drammatico misto perfino ad ironia. Sfidare l’impossibile lo rende un poeta “leopardiano” che guarda oltre la siepe, in un infinito che echeggia nei “sovrumani silenzi”. È nato e vive nelle Marche, a pochi chilometri da Recanati, e i suoi luoghi sono circondati da colline e da “una profondissima quiete”.
Mirella Vercelli