A proposito dei disastri (alluvioni, frane, piene dei fiumi, persone da evacuare) che si stanno drammaticamente manifestando in questi giorni nel territorio emiliano e romagnolo. Al momento in cui pubblichiamo il bilancio provvisorio è già di nove morti e i danni sono incalcolabili a colture, infrastrutture produttive, abitazioni civili e rurali. Una riflessione su una lezione mai appresa di Ennio Cirnigliaro, storico e archeologo di Genova.
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“Spectant victores ruinam naturae” (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 33, 73)
Secondo l’ISPRA, Istituto superiore per la ricerca ambientale, un ente pubblico controllato dal Ministero dell’ambiente, in Italia vengono consumati ogni secondo 2,2 metri quadrati di territorio, irrimediabilmente impermeabilizzato e sottratto alla produzione agricola, oltre che alla natura. Contrariamente a quanto il buonsenso e la crisi climatica – ancora negata o minimizzata persino da parte di alcuni esponenti delle Istituzioni – dovrebbero suggerire, lungi dal fermare tale nefasta tendenza e dall’invertirla promuovendo la sola grande opera necessaria, ossia un processo di rinaturalizzazione dei suoli che permetta il recupero delle aree cementificate, in Italia si procede in direzione opposta, assecondando gli appetiti sempre più ciechi e voraci di una pletora di soggetti locali e nazionali i quali, con scarsa lungimiranza, mirano al profitto immediato invece che al bene comune.
Proprio pochi giorni fa (mi si perdoni l’approssimazione e si guardi con indulgenza ad essa, concentrandosi invece sul contenuto), ascoltando un dibattito radiofonico in tarda serata su una rete nazionale, sono rimasto interdetto nel sentire l’invitato (un industriale fra i tanti) sostenere la necessità di costruire una linea Tav anche sul versante Adriatico dal momento che i cantieri aperti permettono alle aziende di guadagnare il doppio di quanto hanno investito. Senza alcun pudore, e senza contraddittorio, questo signore dichiarava apertamente di voler mettere sottosopra chilometri e chilometri di costa adriatica semplicemente per raddoppiare i guadagni. Orbene, il fatto stesso che una simile affermazione sia passata come “normale”, senza che l’intervistatore gli facesse neppure mezza domanda, mi ha dato plasticamente la misura di quanto tutto ciò che stiamo vivendo, lungi dall’essere frutto del “destino cinico e baro” ( per dirla alla Saragat), costituisce il frutto avvelenato di decenni di regresso culturale delle classi dirigenti, ormai appiattite su un “particulare” che fa dell’eterno (e illusorio) presente l’unico futuro possibile.
Oggi l’ignoranza abissale e arrogante di certa politica, del giornalismo, delle grandi imprese capitalistiche che hanno devastato i territori, si sta drammaticamente manifestando anche coi disastri nel territorio emiliano e romagnolo, i quali non sono i primi e – temo – non saranno gli ultimi.
Tutta quella regione, di cui la Via Emilia, aperta nel 187 a.C. razionalizzando un percorso pedemontano risalente addirittura alla protostoria, fonda il suo delicato equilibrio sul rapporto con l’acqua, irreggimentata dagli umani almeno già dall’età del bronzo, quando la popolazione che edificò le terramare fece del reticolo idrografico emiliano una vera e propria “regione acquatica”. In passato quel territorio ha già conosciuto inondazioni drammatiche, in primis quella del 589, la quale ricoprì letteralmente la Modena romana con uno strato di fango, oltre a rivoluzionare l’intero reticolo idrografico (non solo in Emilia. In Veneto venne addirittura deviato il corso dell’Adige). Questa civiltà dell’acqua e dei canali (nel Modenese esistono addirittura dei corsi d’acqua sopraelevati), come in altri luoghi d’Italia, in primis Milano, è stata stroncata negli ultimi due secoli, quando i processi di industrializzazione e, successivamente, la motorizzazione del Paese, hanno ridisegnato la Penisola ad uso e consumo di un capitalismo il quale certamente ha portato anche del benessere (lungi da me la nostalgia reazionaria dell’Ancien Régime), ma che ha anche causato danni incalcolabili, a partire dal già citato consumo di territorio il quale negli ultimi anni, di pari passo con la progressiva involuzione parassitaria del capitalismo italiano e delle borghesie locali, si è manifestata sotto forma di rotonde, svincoli, varianti, tangenziali e soprattutto capannoni che, come funghi velenosi, in vent’ anni hanno cementificato ettari ed ettari di terre agricole le quali, in quanto manufatto, richiedono manutenzione quotidiana e non cementificazione.
Come insegnano i grandi maestri, in primis il dimenticato Emilio Sereni, autore di un saggio indimenticabile e dimenticato, la celebre “Storia del paesaggio agrario italiano”, l’ambiente in Europa, e soprattutto in Italia, lungi dall’essere figlio di un naturale e spontaneo sviluppo della copertura vegetale, è ormai un manufatto risultante da un processo di trasformazione delle originarie coperture vegetali iniziato nel Neolitico. In particolare, Carlo Cattaneo chiamava la Pianura Padana “un immenso deposito di fatiche”; secoli e secoli di taglio della foresta planiziale, di creazione dei fontanili, di canalizzazione degli alvei, elementi che in Emilia Romagna culminano con le grandi centuriazioni romane intorno alle città e innestate sulla già citata Via Emilia. Migliaia di anni di delicato equilibrio, raggiunto grazie al lavoro quotidiano di mani e generazioni anonime, alterati da una pletora di geometri comunali, imprenditori senza scrupoli, aziende di movimento terra, fautori delle grandi opere, delle autostrade, dei centri commerciali come nuove cattedrali di questa età di mezzo fra il Novecento e il nulla, delle tangenziali persino nei comuni più piccoli, delle villette tutte uguali in quello stile di cui parlava Gadda quando raccontava la Brianza, e soprattutto del Tav, simbolo fra i simboli di una visione alterata della categoria dello “sviluppo”, che fra Piacenza e Bologna crea una vera e propria muraglia ingentilita qua e là dai ponti di Calatrava.
Chiudo con una suggestione da film post-apocalittico: dal momento che la realtà è sovente più efficace di qualsiasi metafora, ho sempre visto nell’assurda e decontestualizzata stazione “mediopadana” del tav vicino a Reggio Emilia, un incrocio fra un aeroporto di qualche staterello petromonarchico e un film distopico, la rappresentazione plastica dell’ybris di questo “secol superbo e sciocco” che, distruggendo la consapevolezza e la memoria storica, in primis in seno a classi dirigenti di rara ignoranza, ha pensato di piegare ad un eterno presente un paesaggio plurimillenario. Un paesaggio che, inevitabilmente, prima o poi presenta il conto.
Ennio Cirnigliaro
(Da Genova, 17 maggio 2023)
Ottimo articolo: l’ignoranza e la spocchia e la cupidigia distruggerà il pianeta.