L’8 dicembre alla Libreria sarà presentato il libro del politologo Emidio Diodato dal titolo: “Tecnocrati e migranti”. Dopo Brexit e Trump, alla vigilia del referendum in Italia e con le incognite sulle elezioni politiche in Francia e in Germania, quale futuro ci attende? Per prepararci a questo evento abbiamo posto alcune domande a Diodato che gentilmente si è offerto a questa breve intervista.
Il prossimo 8 dicembre alla Libreria, 89 rue du Fbg. Poissonnière – 75009 Paris ore 19,00, sarà presentato il nuovo libro del Politologo Emidio Diodato dell’Università per stranieri di Perugia, nonché firma della rubrica Italy per il nostro sito. Il suo ultimo lavoro si chiama: “Tecnocrati e migranti – L’Italia e la politica estera dopo Maastricht”. Un libro di stringente attualità.
Il fenomeno dell’emigrazione vede oggi contrapposto il governo italiano e la Commissione europea, con picchi di polemiche e minacce di non approvare il bilancio europeo, che costituiscono una novità nelle nostre relazioni internazionali. Ma l’incontro sarà anche l’occasione per allargare lo sguardo su quanto sta avvenendo in questi mesi dalla Brexit ed il futuro della stessa Unione, all’affermarsi dei populismi, alla sorprendente vittoria di Trump, al referendum costituzionale in Italia fino alle prossime ed incerte elezioni presidenziali in Francia e politiche in Germania.
Sarà l’occasione per approfondire riflessioni, per porre e porci domande su dove stiamo andando, per capire quali potranno essere gli scenari futuri possibili e quali i rischi per le nostre democrazie.
Per prepararci a questo evento abbiamo posto alcune domande a Diodato che gentilmente si è offerto a questa breve intervista.
NG.: Emidio Diodato, il suo libro si chiama « Tecnocrati e migranti » ed ha un sottotitolo : « L’Italia e la politica estera dopo Maastricht », intanto chi sono oggi i tecnocrati in Europa.
ED.: La parola tecnocrazia fu introdotta nel 1919 negli Stati Uniti, dove ebbe grande diffusione dopo la crisi economica del 1929. Il “movimento tecnocratico” guidato dall’ingegnere statunitense Howard Scott fu per breve tempo appoggiato dalla Columbia University e incontrò il favore dell’amministrazione Roosevelt, anche se la tecnocrazia rimase un progetto politico che non trovò attuazione in nessuna concreta esperienza di governo. I tecnocratici americani rivolgevano critiche tanto ai politici quanto agli imprenditori: parassitari i primi e interessati solo al profitto i secondi. Secondo il movimento tecnocratico, politici e imprenditori non erano in grado di affrontare una società complessa e in rapida ascesa come quella americana all’inizio dello scoro secolo. Solo i tecnocrati erano dotati di un intrinseco sapere e potere egemonico. A differenza dei tecnici, che si qualificavano come esperti del particolare al servizio dei politici e degli imprenditori, i tecnocrati si proponevano come sapienti, dei generalisti capaci di pensare un piano sintetico per l’azione sociale. Il tecnocrate, insomma, muoveva dalla necessita di vincolare gli altri sulla base di competenze che miravano al comune interesse. Nel libro sostengo che il tecnocrate moderno, che fa capolino negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929, ha avuto un ruolo centrale nel processo d’integrazione europeo. Oggi egli ha il volto del “giacobino benevolente”: il suo compito è mantenere una solidarietà de facto tra i popoli europei.
NG.: Come si arriva dall’Europa sognata a Ventotene a quella della teocrazia attuale. Cosa si è sbagliato e c’è un momento chiave nel percorso europeo che ci ha sviato dal “sogno” degli Stati Uniti d’Europa? Se sì quale.
ED.: Per lungo tempo non si è riflettuto sulla fretta con cui si è dato corpo al progetto europeo d’integrazione del dopoguerra. Un sincero europeista, Altiero Spinelli, attribuì a Jean Monnet, ideatore del progetto tecnocratico europeo, il grande merito di aver costruito l’Europa, ma anche la responsabilità di averla costruita male. Oggi, semplicemente, i nodi vengono al pettine.
NG.: Vorrei andare al secondo capo del titolo del suo libro, gli emigranti. Teniamoci sull’attualità. Da una parte un’Europa che nella migliore delle ipotesi sembra sorda al problema, nella peggiore costruisce muri, dall’altra parte il governo italiano che sembra combattere da solo la battaglia di un’accoglienza più o meno inevitabile. Come ne veniamo fuori?
ED.: Come scrivo nel libro, nei rapporti annuali dello Special Rapporteur dell’Onu sui diritti umani dei migranti è dimostrato che la politica europea impedisce i diritti legali e il benessere personale dei richiedenti asilo, compreso il diritto a un equo esame della domanda d’asilo. Il flusso dei migranti che raggiungono l’Europa è la pietra dello scandalo dell’utopia tecnocratica europea. Occorre riconoscerlo.
NG.: Nel suo libro lei evidenzia le diverse linee politiche che hanno caratterizzato l’instabile politica estera degli ultimi decenni. Quando c’era la Lega al governo con Berlusconi, politiche per gli immigrati restrittive e al limite del lecitamente sopportabile con richiami dell’Europa. Oggi viceversa, appare che la stessa sia infastidita dalla politica del governo che soccorre gli immigrati in mare. Come vive l’Europa questi continui rovesci italiani sulla gestione del fenomeno migratorio? Cosa manca alla realizzazione di una politica estera comune?
ED.: Gli accordi di Schengen sono del 1985. L’ingresso dell’Italia nel sistema di Schengen è del 1997, ed è dovuto alla necessità di essere accolti nella moneta unica europea. Penso che entrare nel sistema di Schengen sia stata la decisione più importante della politica estera italiana dopo la fine della Guerra Fredda. Trovo fastidiosa la retorica populista della Lega. Ma a proposito delle dichiarazione della Commissione europea sulla questione delle migrazioni, mi vengono in mente le parole di De Gregori… “lo sposo è impazzito, oppure ha bevuto…”
NG.: Quando Lei verrà l’8 dicembre per la presentazione del suo libro saranno già noti gli esiti del nostro referendum costituzionale. Davvero il risultato potrà incidere sul futuro dell’Europa? Come ha sostenuto in una recente intervista con noi Gianni Pittella capogruppo dei socialisti europei?
ED.: Vivo male la grande incertezza degli italiani e su questo rinvio al mio ultimo editoriale sul vostro sito. Ma non drammatizziamo l’eventuale spaccatura dell’elettorato! Sbaglia Stefano Rodotà, che stimo moltissimo, a dire che la Carta che ci ha uniti oggi ci divide. Gli inglesi si sono divisi sulla Brexit. Negli Stati Uniti la maggioranza degli elettori ha votato Hillary Clinton, ma ha vinto Donald Trump. Insomma, ci sta che l’Italia si divida e questo non inciderà sul futuro dell’Europa. Tutto l’insieme, tra cui il referendum italiano, inciderà sul futuro dell’Europa tecnocratica.
NG.: Il Brexit, Trump, il prossimo referendum italiano e a maggio il rischio Le Pen per la Francia, per non parlare delle elezioni in Germania. Ovunque i populismi avanzano e la politica tradizionale sembra in difficoltà. Quasi che la risposta alla globalizzazione sia il ritorno dei peggiori egoismi e dei sentimenti più nazionalisti e reazionari. Cosa ne pensa?
ED.: Dopo la crisi degli anni Settanta, gli anglosassoni con Thatcher e Reagan hanno segnato una doppietta, calcisticamente parlando, segnando il futuro del capitalismo e della globalizzazione: neo-liberismo, deregulation, etc. Cogliere un’analogia dopo la crisi del 2008 con Brexit e Trump è forse semplicistico. Del resto, il successo a sinistra di Jeremy Corbyn e di Bernie Sanders dimostrano che anche gli anglosassoni hanno grandi incertezze, come gli italiani. Ma non c’è dubbio che gli ultimi risultati elettorali alimentano le forze populiste europee, quelle che ribaltano di 180 gradi i sistemi politici nazionali: non più destra vs. sinistra, ma basso (popolo) vs. alto (establishment). Comunque le rivoluzioni si fanno a 360 gradi!
Intervista a cura di Nicola Guarino