La Parigi di Stefano Montefiori nel libro Parigi è sempre Parigi. Guida in 20 storie alla nuova metropoli.

Stefano Montefiori, a Parigi dal 2010, fa parte di quei corrispondenti che, come Sansa, Cavallari, Valli, Toscano e Romani ai rispettivi tempi, diventano un riferimento di rilievo nei rapporti – non solo giornalistici – tra l’Italia e la Francia. E lo è sia per i suoi articoli non solo politici sul “Corriere della Sera”, ma pure per i libri scritti per eliminare gli equivoci tra i due Paesi: dopo il “Rendez-nous la Joconde! Et autres malentendus franco-italiens” (ed. Stock), di successo al Festival del libro di Parigi nel 2023, ora con “Parigi è sempre Parigi. Guida in 20 storie alla nuova metropoli” (ed. Solferino, 2024) egli ricorda quasi con la stessa passione di Lucia Bosé e Marcello Mastroianni nell’omonimo film di Emmer del 1951 che quest’affermazione è vera, includendo nel “sempre”, i cambiamenti continui della capitale: soprattutto quelli non visti dagli italiani di passaggio o da altri turisti.

La distinzione tra la rive droite e la rive gauche della Senna è infatti oggi meno evidente di quella tra est e ovest, perché le marche di moda e lusso sono ormai presenti nelle strade della zona del Boulevard Saint-Germain quasi altrettanto che in quelle tra Place Vendôme e l’Avenue Marceau, e le gallerie d’arte attirano gli artisti e collezionisti da ambedue le parti del fiume.
Più importanti sono allora gli sviluppi urbanistici a est, per esempio quelli intorno alle 4 torri della Bibliothèque Mitterrand e del XIII arrondissement (che si è conseguentemente rivalorizzato fino al punto di trattenervi l’intellettuale Michel Houellebecq, di avervi i grandi centri commerciali lì sorti e di attirarvi le persone anche per la sede “Diderot” dell’Università e l’Institut du monde arabe); sviluppi quasi “in parallelo” a quelli, sulla riva opposta, di Bercy (e della rivalorizzazione a suo tempo del Marais) e a quelli, sulla stessa riva, oltre la Tour Eiffel dove c’erano le fabbriche automobilistiche; e sviluppi che rispecchiano quello a ovest della Défense.

Parigi allora è sempre Parigi con i suoi cambiamenti se vi si includono quelli della periferia ancora più rilevanti, come a La Villette rivalorizzata dalla Cité des Sciences et de l’Industrie, o come a Saint-Denis dove lo stadio, i nuovi uffici e più recentemente il villaggio olimpico e la nuova linea metropolitana 14 (con il capolinea all’estremo opposto di quello dell’aeroporto di Orly) sono stati realizzati prevalentemente al fine di contrastare gli estremi delle disuguaglianze sociali, etniche ed economiche ancora visibili anche a Barbès dove i turisti possono capitare solo perché è vicina a Montmartre o per visitare il cinema Louxor. Oppure se non si dimentica l’aria del Boulevard Mortier, dove la DGSE (Direction Générale de la Sécurité Extérieure) con i suoi agenti segreti costituisce una singolarità in più tra il quartiere dei Lilas e quello del cimitero del Père Lachaise, non lontano da quello di Belleville (con, dopo l’”Algérietown”, la sua “Chinatown” come quella del XIII arrondissement).

Se l’est e l’ovest prima si differenziavano perché nel primo (dal Marais, prima della rivalorizzazione con l’arrivo del Beaubourg e del Forum al posto dei mercati generali alle Halles, fino ai quartieri sopra indicati) figuravano le classi meno abbienti e nel secondo (dall’VIII al XVI arrondissement) quelle più benestanti, oggi questa considerazione è altresì attenuata dalla quantità di manifestazioni al Trocadéro: sia quelle di protesta (pur non al livello di quelle alle piazze de La République o La Bastille), sia quelle organizzate dalle autorità: compresa quella con la cantante di origine malese Aya Nakamura per l’apertura dei giochi olimpici, così entrata nella classificazione BCBG=“bon chic bon genre” nella piazza dei comizî precedenti di Sarkozy, Fillon e Zemmour; classificazione quasi di reazione a quella dei bobo=”bourgeois bohèmedivenuti sempre più ciclisti tra il Marais e il Quartier Latin.

Intanto anche nelle zone intorno al XVI arrondissement “bon chic” (quasi con l’irradiazione di Versailles nella stessa direzione) è diventato “chic” chiamare il Trocadéro “Trocà”, sulla scia della generalizzazione delle stroncature e abbreviazioni che gli SMS e simili hanno praticamente esteso in tutte le classi: incluse quelle delle migliori scuole tra cui il Lycée Henri IV (diventato “H4”) dalle quali dopo il “bac”=baccalauréat (=maturità) si accede alle “prépas” (=classes de préparation) per entrare successivamente in quelle universitarie: “Sciences Po(=Ecole de Sciences politiques, abbrevazione come il “bac” già ufficialmente istituzionalizzata da decenni) o “Normal Sup”=Ecole normale supérieure o “HEC”=Haute École de Commerce o altre di prestigio, per le quali la selezione ai livelli di studî precedenti è condizionata dal prestigio delle scuole. Dal quale dipende pure il prezzo delle case nella zona, il cui peso per coloro per cui è insostenibile è solo assai parzialmente compensato dalle altre considerazioni sugli studenti nelle piattaforme centrali di selezione “Affelnet” e “Parcoursup”. Rimane dunque fin dalla scuola l’“arcipelago” (secondo la definizione del sociologo Jérôme Fourquet) di “isole” sociali, anche quando si rimedia inviando i figli in scuole private i cui costi compensano parzialmente quelli delle abitazioni, e poi alle Università all’estero evitando “Parcoursup”. “Isole” che dagli occhi dello straniero di passaggio rimangono allora altrettanto distanti degli “Espaces d’Abraxas”, ossia di quel complesso abitativo di circa 45 anni fa a circa 45 minuti di distanza che, nonostante l’architettura di Bofill, è soprannominato “Alcatraz” per il suo isolamento sociale. O “isole” sconosciute come il buio di quei corridoi sotto la città di coloro che vi si nascondono dai “flics”(=poliziotti, o con la loro complicità), corridoi dunque dei “cataphiles” ricercati dai “cataflics” nei sotterranei non visitabili dal pubblico come le Catacombe a Denfert-Rochereau.

Espaces d’Abraxas

Anche in superficie sono comunque numerosi i luoghi sconosciuti ai turisti più frettolosi, ad esempio:

    • La Ruche”, ossia l’alveare di quei pittori (Modigliani, Chagall o Léger) che non potevano inizialmente permettersi di abitare a Montmartre o Montparnasse, e allora vivevano in questo posto nel XV arrondissement creato dal pittore e scultore Boucher, con una rotonda costruita con i resti anche di Eiffel dall’esposizione universale del 1889, e oggi mantenuta a seguito del mecenatismo della coppia René Seydoux e Geneviève Schlumberger;
    • il “Petit Palais”, la cui visita è purtroppo sacrificata da quella del “Grand Palais” e degli altri musei più noti (Louvre, Beaubourg, Orsay, Picasso, Jacquemart-André, Marmottan, Orangerie, Jeu de Paume, ecc.) nonostante i Rubens, Brueghel, Monet, Sisley, Courbet, Corot, ecc. al suo interno, e nonostante la vicina statua di Churchill (rare a Parigi quelle delle personalità straniere) e il vicino “Bouquet of Tulips” dello scultore Jeff Koons offerto dall’Ambasciata statunitense dopo gli attentati del 2015 e 2016 (11 anziché 12 tulipani nella mano, in assenza di quello per le vittime, offerti come augurio per il ritorno alla normalità);
    • il “Select”, ristorante al Boulevard Montparnasse con il vantaggio di essere più periferico e meno noto del Café de Flore e del Deux Magots al Boulevard Saint-Germain: dunque più comodo anche per il produttore Luc Besson con le accuse rivoltegli per i suoi vari atteggiamenti finanziari, societari, politici e sessuali, o per lo scrittore Édouard Louis con le polemiche rivolte a lui e gli altri autori simili per i voltafaccia sociali anche nei libri;
    • il “Bouillon Chartier”, ristorante (quello originario) alla Rue du Faubourg Montmartre, il cui brodo di carne è sopravvissuto nella fama dalla fine dell’800 a quella della cucina delle “brasseries”, più conosciute per il loro numero maggiore con il ritorno degli alsaziani dopo la 1a guerra mondiale.
L’autore del libro: Stefano Montefiori

Luoghi allora meno noti degli altri descritti da Montefiori come:

      • la place Dauphine sull’Île de la Cité la cui geometria triangolare può aver eccitato André Breton nel suo romanzo con “Nadja”, finita per disperazione in manicomio come la scultrice Camille Claudel dal vicino Quai de Bourbon sull’Île Saint-Louis, il ché evidenzia un altro contrasto tra la tranquillità di quei posti e la vulcanicità delle persone, fino al punto da rendere inevitabilmente incompleto il ricordo di tutti anche in un’esposizione come quella attuale al Beaubourg sul centenario del suo “Manifesto del Surrealismo”;
      • il Panthéon, dove la lapide che ricorda il calciatore Rino Della Negra e gli altri 4 italiani (Fontanot, Luccarini, Salvador e Usseglio) tra gli stranieri del gruppo di Missak Manouchian fucilati al Mont Valérien nel 1944 fa parte della solennità con cui, all’entrata della salma dell’armeno, è stato in febbraio celebrato il loro ruolo nella Resistenza;
      • lo stadio “Parc des Princes, dove “principi” (al posto di quelli che a loro tempo passeggiavano nei suoi dintorni) della sua squadra, il “Paris Saint-Germain”, sono diventati gli emiri del Qatar che ne hanno fatto un successo (con Beckham, Ibrahimovic, Mbappé, Neymar e, meno, Messi), fino al punto da voler comprare lo stadio stesso alla Ville de Paris, ai cui rifiuto minacciano il trasferimento della squadra allo Stade de France di Saint-Denis o altrove;

    E sulla rive gauche:
    – la casa di Serge Gainsbourg e Jane Birkin a Rue de Verneuil, mantenuta dalla figlia Charlotte per le visite con tutto il disordine della loro vita, esempio provocatorio per i contestatori del decennio precedente la morte di lui avvenuta nel 1991;
    – la place Saint-Sulpice da dove Catherine Deneuve, trasferitasi lì da Auteuil (quartiere a sud-ovest), va ogni tanto ad riaccarezzare il rinoceronte di ghisa di Jacquemard davanti al Musée d’Orsay;
    – l’Esplanade des Invalides, dove vicino ai picnics più o meno tollerati nel quartiere tra i più cari di Parigi opera una delle sedi dei “restaurants du coeur”, non chiamate mense da Coluche che le aveva fondate per non avvilire i beneficiarî;

    sulla rive droite:
    – l’Elysée, sede (con i saloni “Cleopatra”, “degli Ambasciatori”, “Napoleone III” ecc.) del Presidente della Repubblica, impenetrabile per chi non vi lavora o è ricevuto, ma da dove è dovuto partire dopo che si era fatto lucidare lì le scarpe Weston (le più care) Aquilino Morelle, consigliere di Hollande (fotografato con il casco su una moto della scorta sotto casa di Julie Gayet nella vicina Rue du Cirque, come se questo nome dovesse rendere questa relazione meno drammatica di quella del Presidente Félix Faure con Marguerite Steinheil, nei cui stringimenti è morto nel 1899!).

  • Ancora sulla rive droite, “Parigi è sempre Parigi” per la presenza di “Les chandelles”, club di ritrovo di “scambisti”, di Valérie Hervot, che nel libro “Les dessous des chandelles” (éd. Cherche-Midi 2021) racconta d’averlo fondato nel 1993 per reazione a quanto aveva subito dal nonno e dal marito. Un “dessous” (di sotto), comunque, che impone l’eleganza per raggiungerlo, e la discrezione anche di qualche personalità politica che alla luce delle candele anziché dei riflettori si nasconde quando ci riesce dal bersaglio dei rotocalchi o del giornale satirico “Le Canard enchaîné”.
  • I “dessous” di Parigi di Montefiori integrano allora le descrizioni della città di Alberto Arbasino (“Parigi o cara”, ed. Feltrinelli 1960) e di Serena Dandini (“Avremo sempre Parigi”, ed. Rizzoli 2016) che gli ha così “ricordato come si possa parlare in modo personale di una città che è di tutti”!
  • Lodovico Luciolli

SCHEDA DEL LIBRO SUL SITO DELL’EDITORE

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