Kim Rossi Stuart, in questi giorni, è stato ospite della XV edizione del Festival “De Rome à Paris”, per presentare il suo nuovo film “Brado”. È stato per noi di Altritaliani.net, partner comunicazione di quest’evento parigino sulle novità del cinema italiano, un piacere incontrarlo.
Diventato popolare negli anni Ottanta grazie alle serie televisive (I ragazzi della valle misteriosa, Fantaghirò), ha poi recitato in molti film di valore, come Al di là delle nuvole di Antonioni e Wenders, Romanzo criminale di Michele Placido sulla banda della Magliana, Le chiavi di casa di Gianni Amelio, dal libro di Giuseppe Pontiggia sulla disabilità. Da regista, è autore di una trilogia (Anche libero va bene, Tommaso, e ora appunto Brado) sui temi dell’infanzia perduta, delle periferie, della violenza sociale, dei rapporti tra genitori e figli.
Un ringraziamento all’organizzazione del Festival, in particolare a Francesca van der Staay, Ludovica Marchi e Asia Ruperto.
INTERVISTA
Il tuo film Brado, western sul rapporto tra un padre e un figlio, è stato accostato al cinema di Eastwood.
Il personaggio che interpreto, il padre, prendendosi in giro dice: ecco il Clint Eastwood dei poveri. Ma ci sono davvero dei punti di contatto: la mia fisicità, il contesto di cavalli, il personaggio di un cowboy scalcagnato. E poi qualcosa anche a livello di struttura, nel telaio della sceneggiatura e in una sequenza che ha lo stesso tipo di ambientazione. Ci sono in effetti degli accostamenti evidenti.
È la storia di un figlio che torna da un padre che detesta.
Credo che il rapporto tra padri e figli sia difficile per tutti. È il tema che lega i miei film di regia. Una trilogia sulla necessità di emanciparsi non tanto dalle nostre ferite, quanto da quelle dei nostri genitori. Che a volte sembra abbiano scritto una sceneggiatura della nostra vita ancor prima della nostra nascita. Da cui penso sia bello pensare di potersi liberare, in una certa misura. È il percorso che compie Tommaso, protagonista di questi miei tre film. Questo è il capitolo che sancisce la liberazione, che passa attraverso i riferimenti classici della psicanalisi. Edipo prigioniero di una spirale di odio, ellittica, determinata dagli avvenimenti paterni e materni. Immaginiamo un Edipo che esca da questa spirale di odio e rancore verso il padre, e passi attraverso un’accettazione, una comprensione che lo liberi da questo odio. È lì che inizia la sua rinascita vera, l’appropriazione della sua reale identità. Le sue azioni non continuerebbero a essere conseguenza di quelle paterne.
Lo sfondo di questo rapporto è un allevamento di cavalli.
Il cavallo è metafora della vita. Abbiamo da una parte il padre che vuole dominare il cavallo, far sì che risponda alla sua volontà, che tutto vada come decide lui. Dall’altra il figlio disposto a farsi guidare sia dal cavallo sia dalla vita. La storia si svolge su questo doppio binario, questa doppia possibilità. Con i suoi risvolti anche filosofici. Da questo punto di vista l’eroe è il figlio. È lui che ha la chiave della liberazione. È disposto a farsi guidare dal cavallo, e il cavallo gli risponde. Qui il padre deve accogliere e apprendere qualcosa. Ognuno dei due fa un passo verso la visione dell’altro, per desiderio di riscoprire e rinsaldare questo amore che era perduto. Anche il figlio commette degli errori e li pagherà.
Hai cominciato il cinema nelle braccia di Catherine Deneuve. Da bambino.
A quattro anni. Pensa che proprio grazie a quello da quest’anno sono già in pensione ! Mi versarono i contributi e quindi ho quarantotto anni di carriera. Ho qualche ricordo, delle immagini. Il film era Fatti di gente perbene, di Mauro Bolognini. C’era anche Giancarlo Giannini.
Dopo, galeotto fu un passaggio in macchina.
Sul raccordo anulare di Roma. Avevo dodici anni e facevo l’autostop. A darmi un passaggio fu Pietro Valsecchi, allora aiuto-regista, oggi produttore molto famoso. Ho iniziato così. Altrimenti credo che mai e poi mai avrei fatto questo mestiere. Nonostante mio padre l’avesse fatto.
È vero che ti scocciava essere considerato bello? Guarda che noi ti invidiavamo tutti.
Da ragazzino sì, mi scocciava. A me interessava un certo tipo di cinema e la mia figura mi ostacolava. Marco Bellocchio per il Diavolo in corpo mi disse: mi dispiace, sei troppo bello. Come era già successo a Vittorio Gassman, da un certo punto in poi della carriera ho dovuto caratterizzare molto i miei personaggi, ingoffirli. In Italia è così. Il nostro paese ha sempre avuto più simpatia per le bellezze più caratteristiche. Se ci pensi, Marcello Mastroianni stesso, era magnifico, certo, però a livello somatico, quel naso schiacciato, una fronte particolare…
Mastroianni di sé diceva: ho una faccia da geometra, cosa ci troveranno le donne.
I nostri eroi sono quelli. Come Ugo Tognazzi.
Sei stato un ribelle come Lucignolo in Pinocchio, un bandito come Renato Vallanzasca, e hai rifiutato molti lavori.
Ho selezionato sempre tantissimo. Mi dicono che ho fatto una carriere con scelte estreme. Penso che si riferiscano a quello.
Hai avuto i classici momenti di crisi? Il telefono che non squilla più.
La paura di non lavorare è una cosa che ho avuto fino ai trent’anni. Dopo, no. Ma conosco bene la classica paura del telefono che non suona. Ho capito che era l’inferno e ho cercato di lavorare sul relativizzare il mestiere, non farsi prendere dal demone dell’ambizione del lavoro. È una cosa quasi impossibile in questo tipo di mondo, però tengo la guardia sempre alta.
Il cinema si sta trasformando, con la grande diffusione delle piattaforme televisive.
Il cinema è cinema. Il linguaggio non cambia. Da osservatore molto ignorante, perché non riesco ad appassionarmi alla visione delle serie, ho l’impressione che in quel mondo sia tutto molto standardizzato, che vinca l’aspetto commerciale. Ma stranamente si è creato un circolo vizioso: le piattaforme in qualche misura distruggono il cinema e allo stesso tempo lo salvano. Perché offrono la possibilità ad alcuni film di vivere, essere visti in un momento che per le sale cinematografiche è caotico, kafkiano. Io ho vissuto con Brado questa cosa paradossale. Il film (che ha ricevuto delle critiche, devo dire, stratosferiche) è stato tenuto in sala per un fine settimana, e poi basta. A questo punto io non aspetto altro che le piattaforme. Che possano restituire la visibilità a un film che voleva essere visto da molte persone che però non lo hanno più trovato in sala.
Nella tua formazione cinematografica, e non solo, chi ha contato molto per te?
Pasolini e Bergman. Pasolini per Ragazzi di vita, Una vita violenta. I film Accattone, Mamma Roma. Mio figlio si chiama Ettore (come il personaggio del ragazzo in Mamma Roma, ndr). E Ingmar Bergman. Da adolescente mi ha totalmente catturato. Senza sapere neanche perché.
Grazie da Altritaliani.
Intervista a cura di Maurizio Puppo
(Parigi, 14 gennaio 2023)
LINK : Festival de Rome à Paris 2023 – Le novità del cinema italiano
Più informazioni a proposito del film Brado di Kim Rossi Stuart QUI e…
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