A volte immagino me a settant’anni circa, con tremolii vari, capelli bianchi, mezza sorda (causa concerti in gioventù in posti non a norma di legge) guardare il mondo che sarà e raccontare quello che sto vivendo adesso ai miei nipoti che, se saranno gentili, faranno almeno finta di ascoltarmi. Mi chiedo se dirò loro: “Una volta era tutto più semplice”. E sicuramente lo farò. Faccio questo esercizio mentale a volte per rendermi più simpatici questi anni che mi stressano, mi stremano e spesso non mi soddisfano. Me li rendo sopportabili pensando che un domani sarà tutto più complicato. Non peggiore, ma più complesso. È un pensiero contorto, lo so.
Non posso fare a meno di ascoltare i miei amici che a volte si confidano dicendomi di stare male, di essere stanchi e consumati da una famelica e impietosa routine, di vivere a volte e lavorare con la consapevolezza di non stare facendo nulla che si ama e niente di buono per gli altri; ma alla fine di ogni confidenza solo pochi riescono a dichiarare di avere paura. Paura davvero. Mi è stato detto che il dolore che non si riesce ad esprimere, si somatizza fino ad evolvere in problemi di salute. Il corpo (dal greco σoμα -ατος «corpo») mette a tacere per una buona volta la mente (che crede di poter vivere nell’ipocrisia e nella perpetua menzogna) e ci ricorda che non possiamo mentire per sempre, soprattutto a noi stessi.
Mi sembra, da quello che percepisco intorno, che si abbia paura di avere paura. Molti sentimenti vengono sotterrati da un cieco e superficiale ottimismo, fiducia nel domani; il pessimismo diventa terreno per sfigati che non sanno affrontare questo presente ‘dinamico’ fatto di trasferimenti all’estero (chiamata emigrazione una volta…) e quando qualcuno ti molla per qualcun altro è da perdenti perdersi in un fiume di lacrime: ‘the next!’.
Non si concede a se stessi nemmeno il tempo di metabolizzare un dolore, di guardarlo in faccia anche per mezzo secondo. Io ovviamente non consiglio a qualcuno che ha subìto peste e corna dal fidanzato/a di ascoltare i migliori pezzi Lara Fabian, ma trovo più coraggioso chi riesce a descrivere il proprio dolore a un amico e a se stesso, più di colui che a tutti i costi dichiara di voler essere felice anche quando non lo è affatto. C’è un tempo per ogni cosa, per la tristezza e la felicità e avere paura di quello che non conosciamo non è una debolezza, ma una consapevolezza utile alla propria evoluzione interiore.
Oggi gli attacchi di panico o crisi d’ansia investono un’importante fetta di mondo e i numeri si moltiplicano esponenzialmente. Senso di soffocamento, tremori, crampi allo stomaco, svenimenti e altro sono i sintomi che li riguardano. Come mai questa epidemia di paure?
I network di questi tempi diventano il principale mezzo di comunicazione e di contatto umano, il cellulare e whatsapp ci fa sentire vicinissimi anche a migliaia di chilometri. Non sono una nostalgica del passato e mi piace la tecnologia, ma mi ricordo com’era vent’anni fa il mio mondo: tavolate di persone, la nonna che mi chiamava dal balcone e io in strada a giocare a calcio con i bambini (mi chiamavano Benji Price, modestamente); ero attratta inverosimilmente dalle pozzanghere, e i miei genitori uscivano spesso a trovare qualcuno portandomi con loro. Io posso dire di non essermi sentita mai sola anche dopo molti anni e non vorrei dare tutta la colpa a Facebook, ma mi chiedo se la voglia di stare insieme si sia sbiadita, se convenga di più fare una chiacchierata su internet (che impiega ugualmente tempo) che vedersi di persona.
Mi sembra di perdermi tra le mille cause possibili della paura. Quello che ne viene meno in questa epoca è la frequenza nel relazionarsi con altri esseri umani. Si comunica molto, su questo non c’è dubbio, ma ci si avvicina all’altro nella maniera in cui ne avremmo bisogno? Se ne è venuto meno il contatto fisico, gli sguardi, la compagnia, e resta solo la sensazione di conoscere migliaia di persone dentro una città affollata senza poter stringere una mano, possiamo ritenerci davvero malati perché incappiamo in una crisi di panico?
Io dopo tre anni nel mio condominio saluto a malapena i miei vicini di casa, e non ho mai preso un caffé con loro e di inviti ne ho fatti, (quando ero studentessa era diverso…). Vedo le persone trattenersi in lunghe chiacchierate con i loro cani senza guardare in faccia i passanti nel caso temutissimo possa essere un immigrato o un ladro; vedo ragazzi della mia età lavorare tutto il giorno, sottopagati, stanchi (se hanno la fortuna di avercelo un lavoro) a cui la sera rimane solo la forza di muovere giusto due dita per inviare un messaggio a un amico e mi chiedo se tutta questa tecnologia non ci aiuti solo a dedicare una minima parte della giornata agli incontri nel modo più veloce e striminzito possibile per poter dedicare la rimanente parte del tempo a lavorare, (aggiungiamo la paranoia al panico).
Si mangia sempre più spesso soli, si dorme soli, si guarda la tv soli, si vive soli. Si conta spesso solo e soltanto sulle proprie forze e quando ti mancano sono cavoli tuoi. Una tribù della giungla più remota ci prenderebbe per pazzi: esseri umani che non si aiutano tra di loro! E i fatti sono questi: viviamo in una società individualista, dove tutti devono scavalcare tutti per distinguersi e se un proprio fratello non ce la fa siamo contenti perché forse si è liberato un posto per noi.
Credo che oggi si pecchi di intolleranza verso alcuni sentimenti che cerchiamo puntualmente di azzittire, quel disprezzo verso le cose tristi. Mi viene in mente il cinema americano che stigmatizza quello francese come depressivo e che storicamente ha introdotto il terribile happy end obbligatorio. Ad Hollywood l’emotività viene sotterrata sotto litri di Vodka e Martini. Perdente chi è Senzatroppo innamorato, chi è troppo dolce, allegro, triste, arrabbiato. La parola ‘controllo’ domina una schiera di sentimenti che mostrerebbe la nostra anima senza veli. Gli attacchi di panico ci costringono a dire la verità, a non controllare più noi stessi e il nostro corpo. Ci scaraventano nella paura, ci ricordano che possiamo morire anche ora e subito, che abbiamo bisogno degli altri per sopravvivere, degli abbracci, dei baci, di carezze e che dobbiamo arrabbiarci se ci sentiamo arrabbiati, che possiamo buttare due grida ogni tanto e che non è vietato perdere le staffe, che non siamo obbligati a dichiararci gli esseri più felici del mondo se non lo siamo, che il dolore fa parte delle nostre giornate e che siamo esseri umani solo se riusciamo a provare tutti questi sentimenti insieme, con gli altri.
Io non posso godere di niente se non ne godono tutti. Io… sai… se uno crepa di fame in qualche posto… ecco… già mi ha rovinato la serata. (W. Allen)
Emanuela De Siati