Frusta là, di Flavio Brunetti.

Ferrazzano è un ameno e grazioso paese del Molise quasi attaccato a Campobasso, erto su un monte a guardar, nell’infinito, le altre cime lontane. Lì, creato e diretto da Stefano Sabelli, c’è il Teatro del Loto, una perla di cultura, fucina di produzioni originali e nuove.

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L’ultima produzione del Loto è “Frusta là”, scritto e musicato da Flavio Brunetti, interpretato da egli stesso, da Matilde Caterina, la splendida zia di Checco Zalone nel suo ultimo film “Sole a catinelle” campione record di incassi, e dalla Banda di Montagano. La regia è di Stefano Sabelli.

Dice l’autore:

In “Frusta là”, si rincorrono storie di gente semplice che riesce a sorridere dei propri guai e a far riflettere gli altri che pensano di esser normali. “Frusta là” vuol dissacrare la morte, la storia, le leggende d’amore raccontando dell’emarginazione della popolazione più povera e priva di scienza, che, pur nella innata bontà, della furbizia e della vigliaccheria è costretta a fare il mezzo di vivere per non morire.

Gli episodi e le scene si integrano con le canzoni di Flavio Brunetti. Di esse, una dà il titolo all’opera e le loro musiche, arrangiate dal maestro Lelio Di Tullio (direttore del Conservatorio “Perosi” di Campobasso) e dal maestro Vladimiro D’Amico (Riserva Moac), sono eseguite dalla Banda di Montagano, i cui elementi svolgono anche un vero e proprio ruolo di attori in scena.

Continua l’autore:

“Frusta là” vuole essere uno spettacolo allegro, che racconta di cose tristi, ma scherzandoci su quanto basta per non chiudersi in se stessi e nei propri guai e non uscirne più fuori.

Abbiamo chiesto a Flavio Brunetti come è nata questa sua opera teatrale e lui ci ha risposto con il racconto che pubblichiamo.

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FRUSTA LÀ

I DUE COMPAGNI

Ciccio e Nicolino erano due compagni di Lotta Continua. Di Montagano, un paesino vicino Campobasso, uno di quei paesi dai quali sono andati via quasi tutti, lasciando solo i vecchi ad aspettare inutilmente il loro ritorno. Per noi di Lotta Continua era essenziale avere delle presenze attive nei paesi, tra la gente semplice e abbandonata dal potere economico e politico. Gente vicina agli emigranti, ai contadini.

Donna molisana © Flavio Brunetti

Ma Ciccio era più importante degli altri perché lui era anche un operaio, un operaio Enel. Avere tra le nostre fila un operaio, che venisse dall’entroterra emarginato, era veramente prezioso, e noi in Sezione, tutti, amavamo Ciccio e di lui avevamo grande rispetto.

LA RIVOLUZIONE

Era quasi la mezzanotte del 25 aprile del 1974, quando in Portogallo fu approvata la legge n. 1 per la destituzione dei dirigenti fascisti della Dittatura di Marcelo Caetano. Il Movimento delle Forze Armate, MFA, organizzato da un anno con lo scopo di avviare il paese verso la democratizzazione e la decolonizzazione, quel giorno era finalmente riuscito, senza spargimento di sangue, a portar nella Storia la Rivoluzione dei Garofani.

Lisbona - Luglio 1974 © Flavio Brunetti

Da tutto il mondo partimmo per Lisbona, per vedere questa meraviglia, per respirare a pieni polmoni questo sogno avverato. Per cantare, tutti insieme, “Grândola vila morena” la canzone operaia, che dette il via, in tutta la nazione, all’inizio della Rivoluzione.

Noi con due tende e due cocci di macchine partimmo dal nostro Molise. Un lunghissimo, faticosissimo viaggio con una Fiat 127 e una Renault 5. Da Montagano vennero Nicola e Ciccio.

Il dialetto di questo paese non si comprende per nulla! Per esempio “nessuno” si dice “cuvielle”, ma possiede la musicalità delle belle canzoni cantate a ninnananna o durante la raccolta del grano o dell’uva. Ciccio parlava solo montaganese, ma lui non si preoccupava affatto di ciò, tanto per il viaggio c’eravamo noi, che chi biascicava l’inglese e chi balbettava il francese e ci saremmo fatti capire. E poi c’erano i vocabolarietti in spagnolo e in portoghese e ci avevano detto che il portoghese era come l’italiano.

IL VIAGGIO

Lisbona - Luglio 1974 © Flavio Brunetti

Albeggiava dopo una notte di gravosi chilometri quando ci fermammo per l’ennesimo caffè. Al piazzale del Motel si avvicinarono tre uomini scesi da una Fiat 124 targata Napoli.

– Scusate – fece uno di loro a noi, vicini alla nostra 127 – ma per arrivare a Barcellona dove dobbiamo andare?

– Un momento – risposi

Mi calai nell’abitacolo della vettura a prendere la cartina stradale, poi la dispiegai sul cofano caldo del motore arroventato e, seguendo la linea delle strade con l’indice della mia mano destra assicurai:

– La Francia è quasi finita e fino al confine è ancora strada normale. Tra una ventina di chilometri c’è Perpignan, là si deve andare sempre diritti verso Le Boulou. Da qui si arriva a Le Perthus e lì c’è la frontiera. Passata la frontiera con la Spagna, bisogna prendere l’autostrada. Si trovano prima La Jonquera, Girona e dopo Barcellona. Là pure l’autostrada spagnola finisce.

Uno di quei tre mi guardò con gli occhi spalancati di meraviglia e con la bocca aperta, non spiegandosi come avessi mai potuto ottenere e dare tutte quelle informazioni solo guardando la mia cartina, poi si rivolse ai suoi due amici ed esclamò:

– Cazzo! E’ buona questa cosa! – e, indicando la mia mappa stradale con la sua mano che agitava con l’indice proteso, profferì al più grosso dei suoi due amici – Toni’ ce l’amm’ ‘a accatta’ pure nuie!! ( Perbacco! è buona questa cosa! Tonino, ce la dobbiamo comprare pure noi!).

Erano arrivati sin là, chiedendo ora a questo ora a quello, chiedendo al barista o al camionista o al turista, distributore dopo distributore, chilometro dopo chilometro. Allora le strade non erano quelle di adesso, che ti ci infili dentro e vai sempre diritto.

Lisbona 1974 © Flavio Brunetti

Verso Pineda de Mar, dove avremmo piantato le tende per ripartire il giorno dopo e iniziare i chilometri più duri verso la Rivoluzione, prima di uscire da quel nuovo e ancora incompleto tratto dell’autostrada Catalana, mentre guidavo, chiesi ai miei amici:

– Qua si deve pagare l’autostrada! Cominciate a preparare le pesetas e guardate sul vocabolario di Spagnolo come si dice “Quanto è?”

Nicolino sfogliò il libricino turistico e poi esclamò:

Quanto es!

– Come? – richiesi, meravigliato che suonasse quasi come l’Italiano

Quanto es! – rimarcò più forte il mio amico e durante i chilometri che mancavano ci allenammo insieme a ripetere la domanda che avrei dovuto fare al casellante “Quanto es?”
Frenai con cura e giunsi lentamente al casello fino alla guardiola di cassa. Lì calai il finestrino, mossi lentamente lo sguardo a incrociare quello del casellante e seriamente e sicuro più che mai di me, orgoglioso di dire qualcosa in una lingua diversa dalla mia, gli chiesi con tono altero di voce :

Quanto es?

L’uomo nella sua nuova ed austera divisa mi guardò, sorrise e rispose:

Si no me das el billete que te digo?

LISBONA

I giorni seguenti su strade simili a piste forzate, sepolti dalle ruote di enormi e paurosi autotreni, attraverso zone di vero deserto tra Barcellona e Madrid e tra Madrid e il Tago, riuscimmo ad arrivare alla frontiera con il Portogallo. Ci perquisirono ben bene le guardie franchiste prima di permetterci di oltrepassare la frontiera con la nuova nazione, ma ci fecero andare. Anche quelle portoghesi ci guardarono a lungo documenti e bagagli, ma alla fine potemmo correre verso la Rivoluzione che ci attendeva in un grande campeggio fuori Lisbona dove eravamo solo stranieri. Neanche un portoghese.
E tutto il giorno erano dibattiti collettivi ed accesi litigi, slogan contro slogan, canzone contro canzone, su quale Comunismo fosse il vero Comunismo. E c’erano almeno una quindicina di Comunismi!

Setenave -operai– Lisbona 1974  © Flavio Brunetti

Fuori, invece i compagni portoghesi avevano organizzato delle manifestazioni, degli incontri con i soldati dell’ MFA e con gli operai e quando andavamo c’era sempre qualcuno che traduceva l’intervento del rivoluzionario del luogo perché la lingua portoghese non si capiva per niente.

Solo Ciccio con la più grande naturalezza e il suo dialetto montaganese riusciva a comunicare, a parlare e a farsi capire dai compagni portoghesi della Rivoluzione. Ciccio capiva ogni fatto e quando gli andava ci spiegava che cosa avevano detto e che cosa sarebbe successo o dove dovevamo andare e che piatto ordinare per mangiare. Solo questo imparai in quella lingua:

Bife de vaca condé”, un “prato comercial”, in spagnolo “plato combinado”. Nello stesso piatto una mestolata di riso scondito, un uovo fritto sopra una fetta di carne, un pugno di pomodori e cipolle affettate e le immancabili patatine fritte surgelate. E intanto la Rivoluzione continuava con i suoi litigi, i cortei dei comunisti più duri, con in testa gli antifranchisti spagnoli

Lisbona - Luglio 1974 © Flavio Brunetti

che rischiavano la garrota del dittatore, e i cortei dei Socialisti, la classe media che tra qualche mese avrebbe ripreso il potere. Tornammo e alla frontiera, la perquisizione fu più dura, avevano trovato un libro su Marx. Ci sequestrarono manifesti e distintivi, ci irrisero,strapparono pagine del libro e poi ci fecero andare mentre innanzi a noi trattenevano due fidanzatini spagnoli nella cui automobile avevano trovato i nostri stessi manifesti. Di lì a qualche giorno il Dittatore Franco fece garrotare cinque antifranchisti e l’ultima volta che andai da qualche parte con Ciccio e Nicolino fu a Roma alla manifestazione contro questo crimine spagnolo.

Roma 1974  © Flavio Brunetti

Poi vennero le B.R. e gli altri gruppi armati e la Rivoluzione morì. Le Sezioni di Lotta Continua si chiusero.

Io continuai a fare il mio mestiere di ingegnere, Ciccio l’operaio Enel e Nicolino iniziò a fare il bancario.

Stefano, invece, che voleva fare l’attore se ne andò a Roma e corremmo tutti a vedere il suo primo film di successo, lui ancora ragazzo, Adone, protagonista con Ursula Andress, in “L’Infermiera”.

Gli anni passavano … dieci, venti, trenta.

VENERDI SANTO

Il giorno in cui si piange la morte, sfilava la processione in città.

Dietro la croce e le reliquie del supplizio, una lunghissima fila silenziosa brusiva, masticava incomprensibili preghiere. Uomini, donne e bambini che procedevano in fila per Associazioni o Parrocchie di appartenenza. Monache. Monaci. Preti. Le donne comuni col velo nero e vestite di nero, appesa, al collo, una targa di cuoio o di stoffa, una targa benedetta. I bambini vestiti da scout, da chierichetti o anche normale. Gli uomini curvi, lo sguardo a terra, giacca e cravatta sotto il cappotto.

In colonna su due file ai lati della strada, strisciavano i piedi e recitavano il rosario e le litanie, nel silenzio rotto qua e là da qualche stridente megafono, come alle manifestazioni:

…..

Madre purissima

Madre castissima

Madre sempre vergine

Madre immacolata

Madre degna d’amore


………

Due ali di folla curiosa, non si sa di che cosa, aspettavano, come ogni Venerdì Santo, sui bordi dei marciapiedi mentre lo strisciare dei passi era la solita infinita sequenza di vecchie e di vecchi, di bambini e di adulti, di poveri, di ricchi o di benestanti.

Nel nero dei vestiti di tutti, una signora sfoggiava la sua pelliccia comprata tanti anni prima e che non ha ancora il coraggio di gettar via e custodisce, gelosa, nel suo armadio curandola con tanta naftalina. Povera donna condannata per pochi soldi a quella orrenda pelliccia per tutta la vita!

Il tempo sembrava che non dovesse finire, ma si cominciava a sentire, lontano, la musica, il canto, che tutti aspettavano mentre i generali dei Carabinieri, della Finanza, il comandante dei Vigili Urbani facevano bella mostra delle loro alte uniformi

Il canto diveniva man mano più forte e con esso comparve una folla immensa di bocche aperte e di ugole spiegate alla sera: il coro, diviso da un corridoio, le donne da un lato, a destra, gli uomini dall’altro.

Coro del Venerdì Santo – Campobasso © Flavio Brunetti

Nel corridoio, tra gli uomini e le donne, s’affrettavano i direttori del canto e davano il tempo ai vari settori, gesticolando in alto le mani, andando avanti ed indietro, per far notare alla folla, che si commuove al canto di tante persone, la loro importanza.

Settecento. Sono settecento, ogni anno, le persone del coro e cantano ai cuori. Sempre si scuotono tutti, anche gli atei al quel canto:

Teco vorrei o Signore

oggi portar la croce

nella tua doglia atroce

io ti vorrei seguir,

ma sono infermo e lasso

donami deh coraggio

acciò nel mesto viaggio

non m’abbia da smarrir …

Molti nel coro sono popolani e non hanno mai compreso quelle parole un po’ arcaiche: teco, doglia, acciò, lasso, dhe, mesto, m’abbia, ma cantano e con grande fervore ugualmente perché sanno che sono loro a fare commuovere gli altri. Si sentono fieri di questo.

Foto di Flavio Brunetti

Nel coro c’è anche il mio amico Lulù. Un carpentiere. Il suo vero nome è Lucio, ma gli è rimasto il vezzeggiativo con cui lo chiamavano da bambino. E Lulù è nome che si addice alla dolcezza della persona e al suo sorriso. La moglie, Maria, cuoca al carcere, lo vezzeggia ancora di più e lo chiama Lully.

Mentre il coro passava e si sentiva più forte, più vicino il colpo della grancassa che segna il tempo e le entrate, comparve la banda. Tutti in divisa e schierati per righe e colonne. Uomini e donne. Sulla grancassa lessi il nome: Banda di Montagano.

Oh mio Dio! Incredibile! Riconobbi in due di quelle divise, al sassofono Nicolino tra gli altri sassofoni e, avvolto dalle spire dell’enorme basso tuba, Ciccio!

– Anche la Rivoluzione – pensai – avrà pur bisogno di una banda! E di Ciccio e di Nicolino che intonino l’Internazionale.

Ma poi riflettetti che forse era meglio che finisse la processione e andassi a salutare i miei compagni dopo tanti anni.

Fu così che ricominciammo a vederci e portammo insieme sulle scene di piazza, insieme a tutta la Banda, lo spettacolo “Evviva Lulù”, che scrissi ispirandomi alla semplice vita e ai sogni del mio amico carpentiere.

MATILDE

Matilde racchiude nelle movenze e nello sguardo le certezze e la bellezza di una donna del Sud.

Ha festeggiato il suo compleanno l’altra sera. Le ha fatto gli auguri anche Checco Zalone che l’ha voluta nel suo ultimo film, record d’incassi, “Sole a catinelle”.

– Quanti anni hai compiuto? – le hanno chiesto

– Diciassette – ha risposto invertendo le cifre

Ella suona il bombardino nella banda, ma fu Nicolino a dirmi che era anche brava a recitare.

Allora decisi di scrivere un’opera dove potessi essere in scena, recitando insieme a lei. Fu così che “Evviva Lulù” divenne “Lullettino e Lull’amore” e Matilde ed io cominciammo a recitare insieme alla Banda: per strada, nelle piazze, alle notti bianche, in teatro, al chiuso o all’aperto, abbiamo cantato, urlato, suonato. E il nome Lulù, quello rubato al mio amico carpentiere che la moglie chiama Lully, divenne Lullettino e mia moglie di scena, Matilde, fu Lull’amore.

Foto di Michelangelo Tomaro

IL TEATRO

Nella mia città c’è un solo teatro. Era diventato uno squallido cinema a luci rosse. Ma Stefano, dopo venti anni, tra un film ed un altro, tornò da Roma e lo trasformò in un vero teatro: Dario Fo, Madredeus, Lina Sastri, Nanni Moretti, Silvio Orlando. Tutti i nomi più importanti dello spettacolo, Stefano, regalò a questa città. E dopo lo spettacolo a cena insieme, in qualche ristorante, ma solo a volte, perché quasi sempre finivamo a casa sua, di Stefano, o anche da me. Ed eravamo tutti felici e sereni e spesso, tra i fumi del vino, si finiva a cantare con la chitarra. Fu così che una sera che c’era stato uno spettacolo di Neri Marcoré e della sua Compagnia, a casa di Stefano cantai “Frusta là”. Forse fu il vino che avevano bevuto o la loro stanchezza, ma fu un grande divertimento per tutti, che ripetevano con me il ritornello:

Oggi a te

dimane a me?

Frusta – frusta

Frusta là!

Frusta là! Si dice al gatto per scacciarlo via. “Frusta” è onomatopeico, rifà il vento del gatto quando fugge. “là” è gestuale: quando lo si pronunzia si batte insieme un piede a terra.

Frusta là!

e senti battere deciso un piede a terra e contemporaneamente il fruscio del gatto che fugge.

Nella canzone il gatto è la morte.

La partecipazione divertita di Neri Marcoré e della sua Compagnia al canto della mia canzone mi convinse che valeva la pena che essa divenisse un nuovo spettacolo, mio, di Matilde, della Banda e di Stefano.

Flavio Brunetti

FRUSTA LÀ

Testi e canzoni

di

FLAVIO BRUNETTI

Regia di Stefano Sabelli

con

Flavio Brunetti – Matilde Caterina

e la

BANDA DI MONTAGANO (Associazione A. Pistilli)

Informazioni pratiche: sito del Teatro del Loto

Le foto di questo portfolio sono di Luciano Greco.

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Flavio Brunetti
Flavio Brunetti vive a Campobasso nel Molise. Vince, come cantautore, l’edizione del ‘93 del Premio Città Di Recanati con la sua canzone Bambuascé, e incide negli anni successivi gli album TU TU TTÙ TU e FALLO A VAPORE (ediz. BMG – Musicultura – CNI) delle sue canzoni. Scrive, dirige e interpreta numerose opere teatrali e musicali tra le quali Storia del Clandestino, L’angelo mancino, Frusta là, Lullettino e Lull’amore. I suoi reportage fotografici hanno meritato esposizioni in Italia, negli Stati Uniti, in Brasile e in Ungheria. Ultime sue pubblicazioni editoriali sono: “Non aprire che all’oscuro”, racconto e catalogo dell’omonima mostra. "Il tempo delle tagliole", romanzo che narra della vita in seminario negli anni ’60.

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