Il retroscena del film « Terra Madre » di Olmi, raccontato dal cineasta Mario Brenta.

Diario di bordo. Storia di un inizio. Il racconto, ricco e lieve, del cineasta Mario Brenta che diresse la parte torinese del film di Ermanno Olmi: Terra Madre. Un assemblea di culture ed etnie diverse al Lingotto di Torino, Un popolo multicolore che racconta le proprie storie. Un esempio di entusiasmo e vivacità. Tra utopia e speranza si muove la Babele che Brenta racconta. Tanti modi diversi di essere legati tutti con passione ed euforia a questa madre comune….la madre terra. Un divertissement che dona luce in questa Europa sempre più cupa e diffidente.

DIARIO DI BORDO. STORIA DI UN INIZIO.

terramadrelocandina.jpgSono passati quasi tre anni da quella mattina di fine ottobre. Terra Madre è finalmente un film : finito, concluso. La realtà di allora rimane ancora leggibile oggi esattamente come era (anzi, come è stata), fissata per sempre (per sempre ?) nel mondo fotochimico della pellicola. Ma la memoria, la memoria è una cosa diversa. La memoria è nel tempo, è mobile nel suo divenire, nel suo (ri)costruire il passato nel presente attraverso storie sempre diverse, nuove. Qual è, oggi, per me la storia di Terra Madre?

E’ la storia di un’alba di poco sole seguita ad una notte in cui mi ero ritrovato a Torino con Ermanno Olmi e i “ragazzi” di Ipotesi Cinema, la “scuola-non-scuola” – ideata da Olmi e oggi attiva presso la Cineteca di Bologna – fondata nel 1982 in quel di Bassano del Grappa. In quella notte si erano messe a punto le strategie per le riprese dell’indomani senza però sapere troppo a cosa si sarebbe andati incontro. Si erano formate sette miniéquipe composte da un operatore e un fonico (i “ragazzi” di Ipotesi Cinema, appunto): Olmi avrebbe guidato le prime due, io le rimanenti cinque. Non conoscevamo neppure bene il luogo dell’azione se non di nome: l’Oval-Lingotto di Torino. L’Oval è l’enorme costruzione ipermoderna che ha ospitato le gare di pattinaggio su ghiaccio alle ultime Olimpiadi Invernali. Incastrata, come un meteorite piovuto dal cielo, nel cuore antico e originario della Fiat (le officine del Lingotto) si affaccia su di un terrapieno appena in rilievo, scavalcato in tutta la sua estensione da un passerella che corre sospesa su di un prato dal colore verde-sintetico.

termadter.jpgSarà la luce ancora incerta del primo mattino, quel residuo di bruma notturna che non se ne vuole andare, quel silenzio immobile appena disturbato da qualche timido cinguettio isolato… non so perché (in realtà lo so più che bene) ma tutto questo mi rimanda alla scena finale del Deserto dei Tartari. E questa volta i tartari arrivano per davvero. Eccoli camminare in fila sulla passerella, uno dietro l’altro, ben visibili contro il cielo che rischiara con i loro copricapi di pelo indossati come grandi corolle di fiori rovesciate. Scendono dal terrapieno fin sul piazzale dove ho disposto le prime avanguardie armate di videocamera; passano oltre le porte dell’Oval che si aprono da sole al loro avvicinarsi; appena dentro sfilano sotto l’occhio della seconda videocamera e poi sotto quello della terza pronta a riprendere dall’interno dei piccoli box vetrati dove si devono registrare le delegazioni dei diversi paesi. Dopo una piccola esitazione, quasi persi nel vuoto della hall d’ingresso, trovano il loro sportello. Sopra il vetro c’è scritto Mongolia-Монгол Улс. Ecco allora però nuove figure fare il loro ingresso in scena; non scendono dalla passerella ma appaiono sulla linea d’orizzonte del terrapieno, macchie multicolori che avanzano a zig-zag lungo il piccolo stradino di cemento: donne del Ghana, tutte molto bene in carne e stranamente poco loquaci. Anche loro passano sotto lo sguardo delle nostre videocamere e vanno a registrarsi allo sportello del loro paese. E poi è la volta di Turchi, Armeni, Svedesi, Boliviani… La hall si riempie e fra poco sarà piena anche la grande sala delle conferenze, un’assemblea generale con più di quattromila partecipanti.

00216969_b.jpgQuattromila persone, tutte assieme, rinchiuse al coperto in seduta plenaria, non sono poche. Il colpo d’occhio, dall’alto di una tribuna-ballatoio che corre tutto intorno, è piuttosto impressionante. Il luogo comune, l’espressione abituale, porterebbero a dire “un mare di teste”, ma, visto il contesto particolarmente terricolo, sarebbe più giusto dire “un grande campo di fiori”. E, questo, anche per la moltitudine di etnie e la varietà di abbigliamento dei convenuti. Sul palco, dopo la presentazione di Carlin Petrini, si succedono esperti, scienziati, politici, semplici agricoltori… arriva anche il presidente Giorgio Napolitano. Tutti sembrano estremamente piccoli, persi nel grande spazio: se non fosse per il maxischermo che ne riproduce i tratti del volto ingigantiti e consente di distinguere un oratore dall’altro, si direbbe “la Terra vista dalla Luna”.

terramadre2.jpgIl grande “campo di fiori” ha però una durata effimera. Finita l’assemblea, subito si scompone come per l’arrivo di una tempesta improvvisa per ricostituirsi frammentato in appezzamenti più piccoli, tante piccole singole assemblee dove in ciascuna si tratta un argomento diverso. Si discute dello sfruttamento del suolo, della biodiversità, della preservazione delle sementi, dell’acqua, del pane… ora, a distanza ravvicinata, le differenti etnie risultano più evidenti così come le tante lingue che si sovrappongono le une alle altre. Pur trasferendo lo sguardo da uno spazio all’altro, si ha in realtà l’impressione di rimanere sempre nello stesso luogo, si percepisce nel silenzio la stessa attenzione, si respira la stessa aria distesa. E’ sorprendente come ogni possibile divergenza di opinione, ogni possibile contrasto sembrano qui essere già appianati in partenza. E nessuno si stupisce se una delegata brasiliana, a conclusione del suo intervento, si mette a cantare sottovoce una canzone della sua terra.

Del “campo di fiori” originario è rimasto, proprio al centro dell’Oval, un piccolo spazio. Una sorta di zona franca comune dove ognuno può tenere il suo piccolo mercato esponendo i prodotti della propria madre terra né più né meno come si trovasse sulla piazza della propria città o del proprio villaggio. Lì lo spettacolo è più curioso e pittoresco, c’è qualcosa di profondamente arcaico che contrasta in modo evidente con l’architettura del luogo. Pastori tagiki, pescatori delle Faroer, campesinos, agricoltori e allevatori dei cinque continenti si ritrovano riuniti con i loro piccoli campioni di merce, sopravvissuti tenacemente e miracolosamente a viaggi disagevoli e interminabili, in quel minuscolo medesimo luogo che sa di strapaese come se in fondo nessuno si fosse poi mai mosso da casa sua. C’è persino, ricavato un po’ in disparte, una sorta di studio fotografico dove ci si può mettere in posa davanti all’obiettivo e farsi ritrarre con indosso il proprio costume: una traccia della propria presenza che finirà incollata ad una grande pannello assieme a tantissime altre in un estemporaneo album fotografico. Insomma, tutto questo un’ordinata Babele in odore di Utopia che si rinnoverà, giorno dopo giorno, per un’intera settimana.

La giornata conclusiva è la giornata dei cuochi. Ed è logico perché sono loro in fondo che sovrintendono all’ultimo anello della catena alimentare. Qui, malgrado le diverse provenienze, sono davvero tutti uguali, rigorosamente vestiti di bianco e con in capo il loro inconfondibile cappello. Saranno almeno un centinaio, se non di più e, prima di avviarsi ai fornelli per il “gran cenone” conclusivo che offriranno a tutti i quattromila convenuti, si ritrovano tutti riuniti assieme per una foto ricordo. Sono saliti sul palco, dove le autorità hanno tenuto i loro discorsi di chiusura davanti al gran “campo fiorito” ricomposto per l’occasione e, all’unisono, con un’esplosione della voce, hanno lanciato in aria il loro cappelli. In questo gesto, più che cuochi, sono apparsi tanti marinai, schierati in bell’ordine sulla coperta di una nave per il saluto alla voce. Anche se la scenografia, più che il ponte di una nave, può ricordare il ventre di un’enorme astronave. In partenza per dove? Per un nuovo pianeta da colonizzare e coltivare? Oppure ancora e sempre per questa nostra vecchia “madre terra”, su cui arenarsi e sbarcare, novella arca di Noè, dopo il diluvio prossimo venturo?

Mario Brenta

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