1914-2014 Raccontare la Grande Guerra: la voce degli scrittori.

Si apre con questo articolo introduttivo il “mensile” che Altritaliani dedica alla Grande Guerra, curato da Giovanni Capecchi e da Fulvio Senardi. A partire da questo intervento e per i prossimi mesi, studiosi di varie provenienze presenteranno testi italiani (in prosa e in versi) nati dal Primo conflitto mondiale, facendo parlare direttamente gli scrittori. Tra gli autori che saranno presentati: Lussu, Gadda, Ungaretti, Giani e Carlo Stuparich, Slataper, Stanghellini, d’Annunzio, Marinetti, De Roberto, Saba, Salsa, Monelli e molti altri ancora.

Trascinata in una guerra che il Paese non voleva (e che gli italiani fossero, nel loro complesso, profondamente inclini alla pace lo aveva mostrato, alla fine del settembre del 1914, un referendum informale bandito dall’«Avanti» e più che confermato, un anno dopo, le relazioni inviate dai prefetti al ministro degli Interni, Salandra), l’Italia fa un balzo improvviso nella Modernità. Senza aver vissuto quelle tappe di preparazione, l’alfabetismo diffuso, l’industrializzazione, la democrazia politica, che i Paesi modello, la Francia e l’Inghilterra avevano invece ben conosciuto.

Il mito di una Grande Italia – che affascina gli ambienti della Corona, i ceti industriali e le élites politiche ad essi più vicini – fa balenare il miraggio di un’egemonia mediterranea già ipotecata dall’occupazione della Libia e dal controllo dell’Egeo, dopoché le guerre balcaniche, con la conquista di Salonicco da parte della Grecia, avevano bruscamente arrestato la politica di “inorientamento” dell’Austria: la fragile Italia avrebbe potuto concorrere anch’essa nella grande gara imperialistica della conquista dei mercati mondiali.

Peraltro la prospettiva della guerra appare particolarmente vantaggiosa ai ceti dominanti: la guerra ferma ogni possibilità di rivoluzione (l’eterna paura della Comune di Parigi che la Rivoluzione russa del 1905 e le ondate di scioperi di primo Novecento avevano riacutizzato), trasforma i potenziali scioperanti in soldati, sottoposti ai rigori della disciplina militare, controlla il “fronte interno” – garantendo obbedienza in basso e profitti in alto – grazie allo “stato d’assedio”, mette a tacere “facinorosi” e “arruffapopolo” con la censura.

È utile citare una frase rivelatrice di Vilfredo Pareto: «Se c’è una grande guerra europea, il socialismo è ricacciato indietro almeno per un mezzo secolo, e la borghesia è salva per quel tempo». Una frase, questa, che risale al 1904, anno in cui l’Italia è teatro del suo primo sciopero generale, che si conclude con tre minatori uccisi in Sardegna dai fucili dell’esercito.

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All’inizio della Grande Guerra, quasi a conferma di tutto ciò ma su scala continentale, Bertrand Russel avrebbe scritto: «Dappertutto i ceti possidenti e i partiti politici che ne difendono gli interessi sono stati i maggiori agenti di odio internazionale, dimostrandosi capaci di persuadere la classe operaia che il suo vero nemico è lo straniero». D’altro canto, concesso da poco, con tutta una serie di limitazioni, il suffragio universale maschile (1913), la guerra pare offrire a gruppi politici tradizionalmente estranei alla vita del Regno – i socialisti e i cattolici – una possibilità di “integrazione nazionale”: dando mostra di fedeltà allo Stato pongono un’ipoteca sulla futura conduzione del Paese, nel nome di condivisi valori nazionali e della “fedeltà” dimostrata sul campo allo scudo dei Savoia. Ciò non spiega solo i “bissolatiani”, “eretici” del socialismo che rifiutavano l’internazionalismo per il patriottismo e mettevano in luce l’inclinazione moderata, ma anche certe ambiguità del Partito socialista stesso, lo spazio dato ai Cappellani militari nell’esercito (caso emblematico: padre Gemelli), ecc. Con tutto ciò che porta con sé una generale e diffusa deriva nazionalistica (la prima radice del fatale abbaglio collettivo, il mito della “vittoria mutilata”, che avrebbe provocato l’impresa di Fiume e favorito l’ascesa del fascismo).

La guerra precipita un Paese agricolo e arretrato in uno scenario del tutto nuovo: ciò che colpisce gli intellettuali in divisa e non, non è forse tanto l’aspetto di massa della guerra (la coscrizione obbligatoria era da tempo la regola nel Regno) quanto la sua avanzata dimensione tecnica e industriale (ed eventualmente: il disprezzo per le vite umane manifestato dagli ufficiali di carriera). Una generazione che aveva nutrito il culto dell’onore e i valori “virili” della marzialità con i “racconti mensili” del Cuore e la narrativa di Salgari, si trova improvvisamente sbalzato in un clima di macello industrializzato, e non tarda ad accorgersene. I maggiori scrittori colgono lucidamente la svolta epocale: e basterà ricordare la riflessione sugli «ordigni» che chiude con una fantasia apocalittica la Coscienza di Zeno, o le pagine sulle macchine e la vita “macchinizzata” nel Serafino Gubbio di Pirandello (oltre alla famosa intervista sulla guerra concessa dal drammaturgo siciliano a «Noi e il mondo» e pubblicata il 1 aprile 1915, dove si parla del «pasto delle macchine impazzite» che divorano migliaia di uomini).

Con segno opposto, quell’aspetto della guerra (che Mario Morasso era stato genialmente, ed entusiasticamente capace di registrare: La nuova guerra: armi, combattenti, battaglie, 1914) è esaltato anche dai futuristi, Marinetti in primis, fra i più accaniti agitatori dell’interventismo (vi furono però, fra i «chierici della guerra», anche coloro che vollero vedervi un’occasione per chiudere definitivamente i conti del Risorgimento con la nemica ereditaria, l’Austria, liberando finalmente le “terre irredente”: gli interventisti democratici).

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Ma l’Italia che va in guerra è soprattutto un Paese di contadini analfabeti e di scrittori “arcadi” (salvo notevoli e non rare eccezioni). Una nazione senza cemento comune, senza valori condivisi, senza vera comunicazione interclassista (per non parlare di mobilità sociale), insomma, per entrare nel contesto letterario, senza pubblico in senso moderno; paese di dominatori e dominati, di cappelli e di berretti, di privilegi intoccabili e di callosa miseria, di cultura classicistica e di crassa ignoranza: per questa ragione vivere la guerra, per molti ufficiali di complemento, è anche una maniera per avvicinarsi a quello sconosciuto che è il loro stesso popolo (e da qui certe note di accentuata castalità e paternalismo che impregnano molti scritti di e sulla guerra della “classe dei colti”; anche nelle prove migliori, e penso per esempio al bellissimo La paura di De Roberto). Ecco dunque Jahier, Soffici, Gadda (che non è entusiasta della scoperta), per certi aspetti Serra e, ricco di ambivalenze (visto i sospetti che sollevavano i volontari irredenti presso i commilitoni), Giani Stuparich.

Per altro, e in relazione a ciò, se è vero quello che afferma Franco Moretti, ovvero che il romanzo è la forma simbolica dello stato-nazione (il cui soggetto storico concreto è la borghesia, classe “nazionale” dei cui valori il romanzo europeo si fa portavoce, diventando il “luogo” letterario-ideologico dove se ne approfondisce e riafferma l’identità socio-culturale e per cui tramite se ne diffondono gli ideali), non stupisce che la letteratura di guerra italiana sia povera di romanzi e ricca invece di diari, epistolari, poesie.

Ancora lontano l’obiettivo di “fare gli italiani” di Massimo d’Azeglio – farli come consapevole soggetto storico, culturale e politico –, non meraviglia che trionfino (qui la macroscopica differenza rispetto a Francia, Germania, Regno Unito) forme di comunicazione a minimo raggio di diffusione, parole mormorate ad amici e parenti, riflessioni allo specchio, versi sillabati a se stessi nel silenzio delle notti di trincea e pubblicati avventurosamente in pochissime copie (si pensi al Porto sepolto del 1916). Una traccia forte, comunque, in termini di quantità e qualità. E basterebbe, per documentarlo, riandare all’ingiustamente dimenticato Momenti della vita di guerra (1934) di Adolfo Omodeo, vera antologia dell’epistolografia degli ufficiali di complemento, stilata con inconfessato intento anti-fascista e dichiarato spirito risorgimentale.

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Ogni intellettuale vive la guerra in maniera diversa. È, quella del ’15-’18, un’esperienza generazionale, una vera e propria svolta epocale, una profonda frattura tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ (nonché tra chi combatte e chi resta a casa). Ma questa esperienza è filtrata attraverso sensibilità diverse, raccontata con accenti distinti. Non mancano certamente i punti di contatto che accompagnano gran parte delle pagine nate dal conflitto, perché il terremoto epocale e personale al quale si partecipa è il medesimo.

Ma i testi che nascono dalla guerra generatrice di scritture possono incentrarsi sui movimenti interiori del poeta che combatte (Arturo Stanghellini, in parte Giani Stuparich), essere il frutto di nevrotiche e dolorose reazioni al disordine circostante (Gadda), dare spazio alla distruzione e all’assurdo massacro (Salsa, Frescura, Lussu), insistere sulla guerra come metro di misura della vita e sulla conseguente fragilità umana (Ungaretti), raccontare una guerra fatta di imprese personali e spettacolari (d’Annunzio) o attraversata con i sensi protesi a goderne la carica di eccitazione (Marinetti). Si scrive in trincea e si scrive (o si riscrive) una volta tornati a casa; si continua a stendere pagine negli anni successivi o si tirano fuori dai cassetti i taccuini di un tempo anche a distanza di anni dalla fine del conflitto: quella della guerra è un’onda lunga che non si infrange e non si spegne sulla diga del 1918. Resterà, la vita di trincea, l’esperienza più importante nella vita di chi ha combattuto, con la sua bellezza e il suo orrore, con la sua capacità di sovvertire valori e unità di misura tradizionali (al fronte, per esempio, i secondi valgono come mesi e un centimetro può decretare la morte o la sopravvivenza). Anche perché l’esaltazione del combattentismo portata avanti dal fascismo e i venti di una nuova guerra possono essere l’occasione scatenante per tornare a raccontare un conflitto lontano: non a caso Emilio Lussu pubblica in Francia, nel 1938, Un anno sull’Altipiano e Giani Stuparich dà alle stampe nel 1941 Ritorneranno.

Ma le scritture di guerra non nascono solo a diverse distanze temporali dalla guerra. Nascono anche a distinte distanze spaziali dalla trincea e dalla terra di nessuno. Si scrive nell’attesa del combattimento, ma anche nelle retrovie, negli ospedali di campo, negli uffici: i versi di Saba, le pagine di Marino Moretti, Due imperi…mancati di Palazzeschi appartengono a pieno titolo alla letteratura della Grande Guerra anche se nati nelle periferie del conflitto. Si scrive, addirittura, senza indossare la divisa, perché per motivi anagrafici la nuova guerra è destinata ai propri figli e non ai padri, ai giovani e non ai vecchi: come avviene ai già ricordati Svevo e De Roberto o al Pirandello di Berecche e la guerra.

Di fronte a questa quantità di materiale (una quantità notevole sebbene minima rispetto alle scritture nel loro complesso, costituite anche da diari, memorie, corrispondenze epistolari di non letterati) e in mezzo alle numerose iniziative organizzate per ricordare la Grande Guerra (in corso di svolgimento o programmate per i prossimi mesi), tra ristampe di libri e nuove edizioni, conferenze e convegni, abbiamo pensato di offrire per i lettori e gli amici di Altritaliani un “mensile” che sia soprattutto un invito alla lettura dei testi.

Da ora e per alcuni mesi, con cadenze regolari, troveranno spazio, su questo sito web, le pagine più significative che gli intellettuali abbiano scritto nel conflitto o partendo dal conflitto, scelte, di volta in volta, da uno studioso che le presenterà in un cappello introduttivo e che offrirà poi le indicazioni bibliografiche necessarie per chi volesse leggere l’intera opera dalla quale il brano proposto è stato tratto. Ne verrà fuori, alla fine, una sorta di antologia, accessibile (oltre che – ci auguriamo – utile) al pubblico degli insegnanti, degli studenti e degli appassionati.

Giovanni Capecchi (Università per Stranieri di Perugia)

Fulvio Senardi (Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione)

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Giovanni Capecchi
Giovanni Capecchi è nato e vive a Pistoia (Toscana). E’ professore associato di Letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia. Ha dedicato i suoi studi soprattutto all’Ottocento e al Novecento, seguendo alcuni filoni di ricerca: l’opera di Giovanni Pascoli, la letteratura e il Risorgimento, la letteratura della grande guerra, il romanzo nel Novecento.

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