Giulio Camber Barni: La Buffa. Poesia della Prima Guerra mondiale.

1914-2014. Raccontare la Grande Guerra: la voce di Giulio Camber Barni. «Forse il solo poeta veramente popolaresco dell’altra guerra. La visse col popolo soldato, la sentì e la espresse con l’invenzione, la rozzezza, il cuore e la tragicità del popolo», scrisse lo scrittore Giani Stuparich in “Trieste nei miei ricordi”. “La buffa”, nomignolo che i soldati italiani davano all’arma della Fanteria, è una delle più originali e umane testimonianze, non solo poetiche, del primo conflitto mondiale. Un’opera in versi ristampata dal Ramo d’Oro, Trieste, 2008 e da Il Ponte rosso, Trieste 2017.

Giulio Camber Barni fu uno dei volontari triestini che al momento dello scoppio della Prima guerra mondiale si rifiutarono di servire lo Stato di cui erano formalmente sudditi, l’Impero austro-ungarico, e scelsero di combattere per la causa italiana.

Nicola G. De Donno e Giulio Camber Barni, Pisa 1940

Egli nacque a Trieste nel 1891, quando la città si trovava ancora sotto il dominio asburgico. Lì trascorse la giovinezza e si avvicinò agli intellettuali repubblicani che si riunivano intorno alla rivista «L’Emancipazione». In questo ambiente, ricco di stimoli culturali e politici, il nostro autore affinò la sua formazione e cominciò a coltivare le sue prime passioni in senso irredentista. Finita la scuola si trasferì a Vienna per frequentarvi l’Università. Ed è lì che lo colse lo scoppio della Prima guerra mondiale. Riuscì a fuggire e a raggiungere Firenze dove si arruolò come volontario nelle file dell’esercito italiano. Dopo la guerra, pur frequentando gli intellettuali triestini, non intrattenne grandi rapporti con le correnti letterarie dell’epoca. Allo scoppio della seconda guerra mondiale gli venne assegnato l’incarico di giudice militare a Bologna, ma poi, dietro sua esplicita richiesta, fu trasferito al fronte albanese dove morì poco tempo dopo il suo arrivo, nel 1941, in seguito ad una caduta da cavallo.

L’unica opera che Camber Barni pubblicò quand’era in vita è La Buffa, una raccolta di poesie che scrisse in trincea fra il 1915 e il 1918, apparsa in 12 puntate sul settimanale repubblicano della Venezia Giulia l’«Emancipazione», a cavallo tra i 1920 e il 1921, e successivamente in volume nel 1935. Pochi altri testi vennero pubblicati dopo la sua morte.

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Il nucleo fondamentale di ispirazione da cui nasce la sua produzione poetica è costituito dall’esperienza che fece in guerra della quale egli cerca di dare una rappresentazione il più possibile completa, che sappia esprimere sia gli episodi più tragici, come la perdita del grande amico Enrico Elia sul Podgora, sia i momenti di più comune quotidianità.

Il mondo bellico descritto da Camber Barni è popolato da moltissime figure di cui vengono di volta in volta colti i diversi atteggiamenti, sia quelli dettati da un grande slancio di eroismo e generosità, sia quelli, altrettanto umani, in cui a prevalere sono gli istinti più egoistici e il calcolo dei piccoli tornaconti personali. L’occhio che scruta queste vicende non è mai tentato da un giudizio morale, ma preferisce un atteggiamento empaticamente descrittivo nel quale l’empatia è dettata dal tentativo di cogliere l’elemento umano che informa di sé il racconto. Così veniamo a trovarci a tu per tu, a volte quasi in un clima di intimità, con le speranze, le preoccupazioni, i moti d’animo che costellavano, in modo più o meno evidente, la vita in trincea.

Camber Barni cerca di descrivere in questa maniera la condizione materiale e psicologica dei soldati e di raccontare il loro modo di percepire il conflitto. L’accento tematico delle singole poesie non viene infatti posto, pur con qualche significativa eccezione, sulle esperienze o sulle impressioni dell’io narrante, ma piuttosto su quelle della massa dei soldati. Per ottenere questo risultato chi prende la parola si pone in una posizione debole e regressiva rispetto alle figure che gli stanno intorno, rinunciando ad acquisire una concretezza ed a determinarsi se non in funzione del rapporto con i commilitoni e con la situazione che lo circonda e lasciando la scena ad una moltitudine di co-protagonisti. Ciò è funzionale al tentativo di realizzare una sorta di “rappresentazione plurale” dalla quale possano emergere più compiutamente le esperienze di gruppo e le sensazioni collettive dei soldati al fronte.

Fanteria italiana della Prima Guerra Mondiale in marcia verso il fronte di guerra italo-austriaco

Così nelle sue poesie troviamo ripetutamente espressa quell’idea di ineluttabile fatalità che accompagnava tutti i momenti della vita di trincea. In questo senso manca una vera giustificazione dell’evento bellico. Nella Buffa infatti non si accenna alle motivazioni per cui è scoppiata la guerra. La presenza al fronte viene percepita come un ineluttabile dato di fatto che può essere solo accettato. È il destino a governare tutto. Un destino senza senso e senza scopo che si sottrae ad ogni possibile comprensione da parte dell’uomo. È dunque una descrizione della guerra che privilegia i fondamenti umani rispetto all’appartenenza ad uno schieramento o all’altro. È così che, se in queste poesie è pure possibile cogliere momenti in cui la differenza di campo rimane presente, essa viene subordinata ad un forte sentimento di umanità che porta l’io a chiamare “fratello” un austriaco caduto sul campo di battaglia dopo aver combattuto fino all’ultimo.

Tutto ciò viene supportato da uno stile asciutto, a volte volutamente semplice, fino quasi alla brutalità, informato da una sorta di sentimento antiretorico, ma sempre consapevole ed efficace nell’espressione e nell’utilizzo del verso. In questa maniera Camber Barni vorrebbe esprimere in maniera compiuta la sua percezione dell’esperienza vissuta dai soldati al fronte. La scommessa sembra, almeno in parte, vinta, giungendo ad una modalità espressiva che si colloca in una posizione originale e molto interessante rispetto al resto della produzione letteraria italiana nata dalla Grande Guerra, tale da risultare ancora capace di affascinare il lettore d’oggi.

*****

ANTOLOGIA

OSLAVIA

[…]

Eravamo avvolti nel fumo,

la polvere ci briacava,

le case erano torce,

nell’ultima sera di Oslavia.

Il tenente Manfredi alla gola…

ma i soldati andavano avanti,

avanti il sergente Perna,

il più bello scugnizzo di Napoli.

Gli austriaci sparavano a zero:

vedevamo le bocche da fuoco,

gli austriaci non si arrendevano,

anche loro fino all’ultimo!

Ma il sergente Perna di Napoli,

caduti gli ufficiali,

correva ormai per la china;

oltrepassate le case,

voleva arrivare a Gorizia

per dire al suo paese

che c’era entrato per primo.

Ma sorse allora un austriaco,

più grande di un granatiere,

si levò con il fez rosso

gridando: «Urrà, urrà!»

Certamente era onorato

di servire l’imperatore,

e di essere di scorta

ai lucenti e bei cannoni.

Il sergente Perna, piccino,

con gli occhi color di fuoco ,

barcollò, aprì le braccia

e disse:

«Ragazzi, coraggio!»

E tosto anche l’austriaco

si curvò come una quercia

dal tronco forte, nodoso,

schiantato dalla bufera!

Gli volli fermare il sangue,

ed egli mi disse: «brate»

– voleva dire fratello –

non disse altra parola.

[…]

FERMI TRANQUILLO

Fermi Tranquillo,

cuoco dei barnabiti,

col sorriso dolce,

le mandibole larghe,

il ventre tremebondo,

come di gelatina,

ti ho accolto coscritto;

eri vestito da uomo,

perché nessuno degli altri

sapesse del tuo saio:

«Gesù Nostro, S. Maria!

Maria Santissima!

Non si potrebbe,

signor tenente»,

sussurrava,

«un posticino?

Piantone di fureria,

alle cucine,

non si potrebbe?»

Fermi Tranquillo

della classe ’89

di Massa Carrara,

a volte le granate…

tremava perfino il furiere,

chi perdeva l’appetito,

chi lasciava il tascapane,

tu no! lasciavi il fucile,

dimenticavi il rosario,

pregavi il Signore Iddio:

«Gesù Nostro! S. Maria!»

e mangiavi – la bocca larga –

per la paura,

tutto il pane che restava,

tutta la pasta delle gavette,

pulivi le marmitte!

«Signor Nostro!

Come sprezzare la grazia di Dio?»

Certo di passare

cuciniere in paradiso,

ome in terra,

avevi un unico dubbio;

per questo, a volte temevi

di morire:

«Chissà, chissà, se i Santi

mangiano pasta al sugo rosso

di pomodoro?

Chissà?»

IL SERGENTE SCHIAPPATINI

Il sergente Schiappatini

ebbe l’ordine di uscire

dalle trincee di Peuma,

di occupare un posto,

assieme a quattro soldati,

e di non rientrare

senza l’ordine scritto.

Passavano le ore,

intanto si fece l’assalto,

tre volte arrivarono i muli,

noi già si era rientrati,

con le marmitte del rancio;

ma lui non ritornava.

La calma era tornata

di sopra le trincere…

Nessuno ci pensava,

ché… tanti eran caduti.

Finalmente qualcuno s’accorse:

«Dov’è il sergente?

il sergente Schiappatini».

Al calar del terzo giorno

uscirono pattuglie…

Nessuno lo ritrovava…

«Certamente disertore!»

così pensavano tutti.

Ma all’alba del quarto giorno,

con l’ultima pattuglia,

rientrò un caporale che disse:

«Finalmente l’ho trovato!

È ancora lì sul posto

che aspetta l’ordine scritto,

ma… dice che ha tanta fame…

che muore per la sete…

mettetemi in prigione

gli ho dato le mie scatolette!»

IL SOLDATO VENDITORE

Da Boneti a Opacchiasella,

da Feleti a Devetachi,

una corsa allo scoperto

per comprare cinque fiaschi

e rivenderli pel lucro

di poterne bere uno,

senza soldi,

si moveva a tutte l’ore

un soldato zappatore.

L’han trovato una mattina,

steso in mezzo a una dolina,

con l’elmetto perforato,

e il suo fiasco

guadagnato:

il suo fiasco conservato!

LA CANZONE DI LAVEZZARI

Il 24 maggio,

la notte della guerra,

Giuseppe Garibaldi

uscì di sotto terra.

E andò da Lavezzari,

che si beveva il vino;

gli disse: «Lavezzari,

vecchio garibaldino,

Lavezzari, vecchio fante,

è scoppiata un’altra guerra,

ma io non posso andarci:

perché sono sottoterra.

Camerata di Bezzecca,

mio vecchio portabandiera,

va’ te sul Podgora,

e porta la mia bandiera!»

E allora Lavezzari

senza il becco di un quattrino

– non aveva che la camicia

e due soldi per il vino –

si prese la camicia,

dimenticò gli affanni,

e salì nella tradotta

come uno di vent’anni.

E il 19 luglio

arrivò sulla trincera,

si levò la giubba verde,

mostrò la sua bandiera.

E disse ai volontari

romagnoli e triestini:

«Avanti alla baionetta,

e fate i garibaldini!»

E in testa a tutti i fanti

uscì dalla trincera

con la camicia rossa

che era la sua bandiera.

E i fanti della Giulia,

di Romagna e del Trentino

lo seguirono all’assalto,

e occuparono il fortino.

Ma lui non era pago,

oltrepassò il fortino,

e mosse verso il Peuma

e il monte Sabotino.

Quattro portaferiti,

passata la bufera,

uscirono a cercare

il corpo e la bandiera.

Finalmente con la luna

che uscì dal Sabotino,

essi videro, tra i massi,

il vecchio garibaldino.

Egli stava sull’attenti

davanti al Generale,

che gli appuntava al braccio

i galloni da caporale.

E i morti dell’Isonzo,

fanti, honved, graniciari,

presentavano le armi

al vecchio Lavezzari.

Garibaldi diè il piedarme,

lo baciò due volte in fronte,

poi spariron con la luna

che discese dietro il monte.

Lorenzo Tommasini

*****

BIBLIOGRAFIA

 Giulio Camber Barni, La Buffa, a cura di Virgilio Giotti, Stabilimento tipografico mutilati, Trieste 1935.

Idem, La Buffa, a cura di Umberto Saba, Mondadori, Milano 1950.

Idem, Anima di frontiera, a cura di Vanni Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1966.

Idem, La Buffa, a cura di Anita Pittoni, Edizioni dello Zibaldone, Trieste 1969.

Idem, La Buffa, a cura di Francesco Cenetiempo, Il Ramo d’Oro, Trieste 2008.

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LETTERATURA ITALIANA E GRANDE GUERRA – LINK UTILI:

 1914-2014 Raccontare la Grande Guerra: la voce degli scrittori. Articolo introduttivo di questo dossier a firma di Giovanni Capecchi e Fulvio Senardi.

 Altri contributi, altre voci di scrittori di questo Mensile Altritaliani.net nel Centenario della Prima Guerra Mondiale

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