A ripensarci oggi, non sembra neanche vero. Trent’anni fa la Sampdoria vinceva lo scudetto. Da allora (maggio 1991) il campionato di calcio italiano è stato monopolizzato dalle grandi “tradizionali”, Juventus, Inter e Milan: 28 titoli su 30 (i due residui nella capitale, a Lazio e Roma). Mentre nel trentennio precedente (anni Sessanta, Settanta e Ottanta), erano finiti con un vincitore inconsueto dieci campionati su trenta: uno su tre. Bologna, Fiorentina Cagliari Lazio Torino Roma Verona Napoli (due volte) e appunto Sampdoria. Senza contare i “quasi-scudetti” del Lanerossi Vicenza di Rossi e del Perugia. Dopo il 1991, l’imprevisto (sola speranza, dice Montale) è scomparso: la Sampdoria, vincendo, ha chiuso un’epoca. (Volevamo cambiare il mondo, e invece il mondo c’ha cambiato a noi, dice un vecchio film).
Mi ero innamorato della Sampdoria da bambino, negli anni Settanta. Era casa mia: ero nato nel quartiere di Sampierdarena, “sobborgo industriale di Genova” per Hemingway. Mi piacevano il nome, la maglia (strana, unica, definita con formidabile neologismo “blucerchiata”).
La storia che risaliva alle società operaie di mutuo soccorso dell’Ottocento (da cui veniva la Sampierdarenese) e alla società di ginnastica nata nel 1895 con il nome dell’eroe della storia genovese: l’ammiraglio del Cinquecento: l’Andrea Doria. Che aveva vinto diverse volte (tra il 1902 e il 1913) il prestigioso campionato nazionale di calcio organizzato dalla Federazione dei Ginnasti. Titoli però mai riconosciuti ufficialmente, nonostante il loro valore sportivo. E aveva subito le persecuzioni del regime fascista. Forse per la presenza tra le sue fila dei nipoti dei socialisti Macaggi e Machiavelli, e del presidente Zaccaria Oberti (sospettato di complicità in un fallito attentato a Mussolini), poi costretto all’esilio in Francia. Ma “dopo pioggia viene sempre sole” (diceva Vujadin Boskov, allenatore del nostro scudetto). Finisce il fascismo, la guerra. E il 1946 ci regala tre magnifiche ragazze: la Repubblica italiana, Stefania Sandrelli e appunto, dalla fusione tra Sampierdarenese e Andrea Doria, la Sampdoria, nome completo: Unione Calcio Sampierdarenese-Doria.
Da bambino avevo un pupazzo di Topo Gigio, maglia blucerchiata e scudetto tricolore sul petto. Illusione però: non era mai accaduto. Anzi, allo scoccare dei miei 12 anni avevo visto la Sampdoria farsi cacciare in B dalla Juve, venuta a vincere il campionato (strano, eh?) a Genova. Da lì era partito un voyage au bout de la nuit. Cinque anni di serie B profondissima. Partitacce, sconfitte allo stadio di Marassi con Sambenedettese e Matera. Malinconie, speranze, le cazzate tra di noi, abissi imperscrutabili: la giovinezza, insomma. Al ritorno in serie A, alla prima partita (1982) ritroviamo proprio la Juve: ma non dovevamo non vederci più? Stavolta vinciamo noi, segna l’unico giocatore in campo anche 5 anni prima (Mauro Ferroni). E poi dicono che i miracoli non accadono sulla terra. Da lì inizia le nostre belle époque inattese. Frutto non del caso però. Ma di un progetto. I presidenti di calcio erano stati battezzati «ricchi scemi» da un vecchio dirigente del CONI, Giulio Onesti. (Quello per cui un giornalista, alla sua morte, aveva coniato il geniale titolo: “vivere Onesti, morire poveri”). Il presidente della Sampdoria Paolo Mantovani invece è un ricco intelligente.
In testa, un’idea: dare l’assalto al cielo. Quando la Sampdoria è ancora in serie B, un giorno va a parlare con il sindaco di Bogliasco, località rivierasca dove c’è il campo di allenamento. Vuole farne un secondo. «Uno non basta?». «Per vincere la coppa dei campioni no», risponde. Il sindaco ride. “Non scherzo,” risponde Mantovani. Costruisce l’assalto al cielo cercando i migliori giovani italiani. Uno che a 17 anni sa fare tutto (tecnica scatto tiro visione di gioco gol): Roberto Mancini. Un altro, un giovane che la Juve ha scartato («giocatore di categoria», ha detto l’osservatore Zoff dopo averlo visto in una partita di B): Gianluca Vialli. La verginità la perdiamo una sera d’estate del 1985: la Coppa Italia, vinta contro il Milan. Poi, una vertigine. Quella Sampdoria vince molto, e perde moltissimo. Tra 1985 e 1994, 7 titoli (4 coppe Italia, una Coppa delle Coppe in Europa, supercoppa italiana e scudetto). All’appello, mancano forse un altro scudetto (possibile nel 1985 e nel 1994) e la Coppa dei Campioni (quella per cui ci voleva il secondo campo di Bogliasco) persa a Wembley con il Barcellona. Per un niente che è tutto.
La squadra che nel 1991 vince lo scudetto (e realizza l’allucinazione del mio Topo Gigio) ha 4 fuoriclasse. Pagliuca in porta; preso dopo una partita al torneo giovanile di Viareggio. Nella partita decisiva, a San Siro con l’Inter, para qualunque cosa. Compreso un rigore del campione tedesco Matthaus, bomba che spezza la catenina d’oro del portiere. Pietro Vierchowod, difensore di velocità siderale, battezzato l’uomo verde (Hulk) da Maradona. Gianluca Vialli, forte, intelligente, trascinatore: l’uomo che nel 1986 dice «no» al Milan di Berlusconi e nell’88, a domanda maliziosa sul suo destino, risponde «ho firmato». «Per chi?». «Per noi!». E noi eravamo noi. E Roberto Mancini. All’inizio gli allenatori vedono in lui l’erede di Boninsegna, forse di Riva. Ma lui vuole essere Rivera. L’allenatore Boskov gli dà la maglia numero dieci e Mancini diventa ciò che è. Soprattutto per la stratosferica visione di gioco che trasforma il calcio (sistema di segni, per Pasolini) in una lingua. Mancini in quegli anni è forse il miglior giocatore italiano. Ha tutto, e gli manca qualcosa.
Probabilmente per una sua certa umana fragilità emotiva, non si afferma in nazionale come le sue doti avrebbero permesso. Quattro fuoriclasse, dicevo, e molti eccellenti giocatori: Lombardo, Mannini, Dossena, Pari, Cerezo. Di quei giorni di trent’anni fa, ricordo tutto. Di nascosto, qualcuno mi aveva mostrato la bandiera con lo scudetto; che emozione.
Poi ero andato a prendere una ragazza alla casa dello studente. Per andare al cinema. Eravamo tornati alle cinque del mattino (film lungo, effettivamente). Ci eravamo salutati senza sapere cosa dirci. Al pomeriggio, lo stadio. Per la partita scudetto, contro il Lecce. A pochi minuti dalla fine, quando ormai era chiaro che saremmo diventati campioni d’Italia, vidi un signore avviarsi verso l’uscita. Silenzioso. Le lacrime agli occhi. Con un pudore molto ligure, molto sampdoriano. Anche io uscii dallo stadio con una strana malinconia. Mi allontanai dalle strade piene di gente. E incontrai la ragazza della notte prima. Ancora tu? Ma non dovevamo non vederci più? (E ci scappa da ridere). Tra le gioie defunte e i disinganni (dice il poeta), cara ragazza mia, cara Sampdoria mia di tutta la vita (mia litania infinita): dopo trent’anni, oggi si ravviva il tuo sorriso.
Maurizio Puppo