L’atteso film di Mario Martone che ritorna al cinema dopo una lunga pausa di riflessione. Tsukamoto nel pieno della maturità, infiammano i cuori dei cinefili. Continuano le giornate degli autori con un altro film francese Les nuits d’été
« IL GIOVANE FAVOLOSO » di Mario Martone
Con Elio Germano, Michele Riondino, Valerio Binasco, Isabella Aragonese
Ecco l’atteso « Il giovane favoloso » di Mario Martone in concorso alla 71° Mostra del Cinema. Titolo un po’ discutibile, per definire il valore immenso che ha per noi italiani la figura di Giacomo Leopardi (ne avessi avuto l’occasione forse lo avrei intitolato semplicemente » Il poeta »). Film coraggioso (ma non poteva essere diversamente) che non mancherà di suscitare consensi e polemiche soprattutto tra gli storici e letterati. A memoria non ricordo quali altri registi si siano cimentati a fare un film su di lui: perché è potente la sua figura, perché non è facile definirla, perché bisogna storicizzarla senza far storcere il naso, perché, perché, perché…
Chi ama veramente il poeta recanatese sa quanto spazio abbia la sua produzione letteraria nella nostra memoria, e quanto il ricordo sia, nella distanza temporale che ci divide da lui, tale da non poterlo immaginare nel facile gioco di una sua rappresentazione filmica. Leopardi è Leopardi è merita rispetto, sempre.
Di questo ne sa qualcosa Martone che in modo mirabile ha cercato di darci la sua versione creando le ambientazioni più suggestive, girando a Recanati soprattutto nella casa del poeta (e non poteva essere diversamente),facendoci respirare con lui l’aria che veniva dall’ermo colle », dandoci inoltre il piacere di vedere l’immensa biblioteca del padre Monaldo (si proprio quella dove la formazione culturale di Giacomo ha avuto inizio e forse completamento).
Abbiamo colto poi lungo il percorso della sua breve vita tutto il suo male fisico, spirituale, morale secondo modalità forse mai immaginate (Martone ci fa vedere un Leopardi che urla il suo infinito pessimismo, che s’adira contro chi non lo capisce). Attimi straordinari sono quelli legati all’ascolto dell’Infinito cosi come quelli de La Ginestra su cui la voce di Elio Germano, penetrante e convincente, ridà tutto il fascino che quelle poesie, studiate da ognuno a scuola quasi quanto i versetti danteschi, possano ancora suscitare.
Non tutto del film mi ha convinto. Avrei voluto capire di più le fonti dell’ispirazione di Leopardi, i suoi tormenti nel trovare quelle sole parole che solo lui sapeva usare. Soprattutto non ne avrei fatto alla fine, nel periodo napoletano, un sorta di macchietta, dove emerge un giovane gobbo sofferente per ragioni sconosciute ai più. Avrei sorvolato sui suoi impulsi sessuali (li avrà pur avuti ma cosa potevano aggiungere in più alla sua vita?), così come su certe scelte musicali (una da brivido dove m’è parso di sentire una canzone di Sting!).
Ma per il resto il film mantiene un rigore stilistico degno dei migliori. Da parte mia un consiglio: se vi capita di vederlo, lasciatevi trasportare dalle immagini e dalle sue poesie senza porvi alcun problema…
Da Venezia Massimo Rosin
NOBI (FIRES ON THE PLAIN) di Shinya Tsukamoto (Giappone, 87’, v.o. giapponese/filippino s/t inglese/italiano)
con Shinya Tsukamoto, Yusaku Mori, Yuko Nakamura, Tatsuya Nakamura, Lily Franky.
Il 54enne regista, attore e sceneggiatore Shinya Tsukamoto è considerato un importante autore del cinema giapponese indipendente nipponico. In patria e all’estero è amato soprattutto per il film di fantascienza “Tetsuo” (1988) vincitore di diversi premi. Ha in seguito girato “A Snake of June” (Rokugatsu no hebi), presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2002, dove vince il Premio Speciale della Giuria. Nel 2004 è ancora a Venezia, questa volta con tre film: attore in “Marebito” (sezione ‘Cinema digitale’) e “Koi no mon” (Settimana della Critica), regista e produttore in “Vital” (sezione ‘Orizzonti’).
Questa volta Tsukamoto si è basato sul romanzo di uno scrittore suo connazionale, Shôhei Ôoka, “Nobi” per raccontare una storia di guerra. Alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, su versante del Pacifico, un soldato, Tamura (interpretato dallo stesso regista) combatte in un’isola delle Filippine. Malato di tubercolosi, gli viene ordinato di farsi curare in un ospedale nella giungla, che però viene distrutto dall’artiglieria statunitense. In seguito, unico superstite del suo plotone, si ritroverà a vagare per la foresta.
Gli accadranno una serie di vicessitudini, tra le quali quella di uccidere per la prima volta; neanche un soldato nemico, ma una donna. Accerchiato dalle forze avversarie (nel film quasi sempre invisibili) distrutto dalla fatica, disidratato e affamato, si ritroverà ad avere a che fare con la morte e la fame insieme ad altri suoi sparuti compagni di sventura, che non esiteranno a compiere atti di cannibalismo pur di sopravvivere.
Sebbene il film sia sorretto da una fotografia della giungla molto suggestiva, Tsukamoto tuttavia privilegia le scene dure e un po’splatter della morte dei soldati giapponesi: teste mozzate, arti, cervelli spappolati. Il tutto per rendere l’allucinante follia della guerra e le sue crudeltà. Il soldato Tamura sopravviverà a tutto ciò, ma le ferite interiori non potranno mai più guarire. Il film vuole dare quindi un forte segnale pacifista contro le guerre, ma resta solamente un atto di autoreferenzialità stilistica.
LES NUITS D’ETE di Mario Fanfani (Francia, 100’, v.o. francese s/t inglese/italiano)
con Guillaume de Tonquédec, Jeanne Balibar, Nicolas Bouchaud.
Opera prima del regista francese Mario Fanfani (ma si legge Fanfanì) “Les nuits d’etè” è un film con intenti da commedia, selezionato per le Giornate degli Autori.
Ambientata in Francia nel 1959, con l’incombere però della guerra d’Algeria (fatto storico che ritorna dopo “Loin des hommes”) la storia racconta di una coppia sposata e benestante: Michel (Guillaume de Tonquedec) notaio con ambizioni politiche e Hélène (Jeanne Balibar) grande benefattrice, critica però nei confronti della guerra. Essi hanno un bambino e apparentemente sono felici. La loro vita sembra perfetta; in realtà Michel nasconde da molti anni un segreto.
Egli, quando può, raggiunge la casa di famiglia in campagna dove, insieme ad un amico si traveste da donna. Il sesso non c’entra niente, non è una coppia omosessuale. Essi hanno l’irresistibile impulso di indossare abiti femminili: golfini, gonne, calze, reggiseno e gioielli vari. Tutto il corredo femminile (compreso il rossetto sulle labbra) e in più sobrie parrucche. I due trascorrono quelle ore insieme comodamente seduti in poltrona nel salottino a parlare di argomenti femminili come due amiche donne.
Un giorno, nel locale per travestiti che essi frequentano conosceranno un giovane militare, in procinto di partire con la sua compagnia per l’Algeria, che desidera disertare, e lo ospiteranno nel capanno degli attrezzi della casa di campagna.
Ben presto giungeranno in quella casa per un week-end, sempre provenienti dal locale, anche una serie di uomini con lo stesso “vizietto”.
Persone simpatiche ed estrose che non si vergognano di mostrare il loro modo di essere femminile, sebbene la società francese non sia ancora pronta per queste pubbliche apparizioni. Sarà la moglie di Michel, sospettosa che il marito abbia un amante, a scoprire questo sodalizio in campagna e la vera aspirazione del consorte, che sarà costretto a fare “outing”.
Alla fine tutto si sistemerà, come anche il giovane militare farà ritorno al suo reparto, dopo essere stato accolto positivamente da quel circolo di uomini/donne, amanti del bel canto e delle canzoni da cabaret.
Il regista Fanfani, che è anche sceneggiatore della storia, gira con misurato brio questa commedia, che non oltrepassa mai la volgarità e rende simpatici tutti gli interpreti dei ruoli femminili, in una sorta di “Priscilla” alla francese, senza però eccessi e costumi con paillettes.
Da Venezia Andrea Curcione