Ricorrono 500 anni dalla pubblicazione di “Utopia”, il famoso romanzo in latino dell’umanista inglese Tommaso Moro (1480 -1535), che immaginò un’isola abitata da una società ideale felice, di convivenza urbana, con un sistema politico libero.
Oggi invece si incrociano e contendono lo spazio utopia e distopia e l’utopia non sembra più avere patria o patrie.
L’utopia semmai è confinata nel discorso della città ideale degli architetti dove lo spazio invece è avviato ad avere estrema importanza.
La libertà infatti, canone fondamentale di ogni utopia, si coniuga con lo spazio.
L’utopia ha pero’ al suo interno un progetto. Non è solo rappresentazione dello spazio e sogno di libertà: è pedagogia.
Giustamente anche l’utopia di Moro ha come modello La Repubblica di Platone. Era un manuale necessario per i fondatori delle nuove polis nell’opera di colonizzazione iniziata dai Greci.
La città era soprattutto immagine parlante della pedagogia necessaria.
Ne La città del Sole di Tommaso Campanella, che è del 1602, la città ha le mura istoriate delle vicende più importanti e delle figure più alte e nobili della sua storia. I giovani vengono condotti a camminare intorno alle mura, a guardare, a riflettere.
L’elemento di assoluta novità è il progetto pedagogico che colloca l’utopia su un piano pragmatico e certo non fantastico.
L’utopia nella modernità viene considerata poco più di una favola,
appartenente semmai al meraviglioso o al viaggio nel fantastico.
Per il semiologo francese Todorov l’incremento delle utopie, che costituirono, tra il XVII sec. e quello successivo, un genere, è dovuto soprattutto alla scoperta dell’America.
Nel progetto pedagogico l’ambiente è piccolo: un’isola, una città con uno spazio limitato. Altro che favola ! E’ un’idea molto concreta.
Solo quello che è vicino suscita emozione, ti coinvolge, ti suggerisce profonda responsabilità. Quello che è lontano invece dematerializza, toglie il senso della realtà, trasforma il reale in fantastico.
Il sociologo Simmel aveva ragione quando affermava che il denaro aveva tolto l’idea della realtà ne La filosofia del denaro, del 1914, che precede la prima guerra mondiale.
I Greci che morivano alle Termopili avevano profondo il senso della realtà: morivano per i figli, le mogli, il futuro della loro terra.
Connesso con la responsabilità è il sentimento dell’onore e del bello.
Nella pedagogia contemporanea il sentimento dell’onore è escluso.
Ai miei tempi, certo remoti, ricordo, all’Università di Messina, una dispensa del professore Attisani che poneva al centro del discorso pedagogico il sentimento dell’onore.
I Greci hanno prodotto e consegnato all’umanità questo sentimento insieme all’idea della bellezza e della gloria come risarcimento della condizione umana, come conforto anche dell’esistenza, spesso sotto l’ombra del dolore e della morte.
I caduti alle Termopili nel canto di Simonide non hanno avuto sorte più degna. Tutti caduti con ferite sul petto e pure i trecento che a Roma affrontano con Scevola, Porsenna ne sono i degni eredi.
I Romani mescolarono certo al senso dell’onore e della gloria quello oscuro del potere e del dominio, ma in un certo senso sono anch’essi nell’ambito della pedagogia dell’utopia.
Le generazioni di ferro e del denaro hanno perduto tutto questo, ma l’utopia, concreta come non mai oggi, ci dice che dobbiamo riprendere alcuni punti se vogliamo sopravvivere.
Carmelina Sicari