Un’estate italiana: ‘L’ultima estate da bambini’ di Maurizio Puppo

Rubrica “Un’estate italiana”. Quella dei dodici anni è l’ultima estate da bambini. A quell’età l’infanzia è ancora la stagione presente e viva; dopo, non più. Mia figlia Milena ha superato, da un paio d’anni ormai, quella soglia. La sua ultima estate da bambina era stata questa: campionato francese di equitazione, dove aveva vinto, assieme alle sue compagne di squadra, la medaglia d’argento.

La figlia di Maurizio Puppo nella sua (penultima) estate da bambina

Al mare in Spagna, ospite della famiglia di una compagna di scuola. Viaggio in Kenya: i safari, Nairobi, il mare dell’oceano indiano. Poi il mare di Genova. Infine, una settimana nella campagna francese.

In uno di quei giorni estivi mi aveva chiesto qualcosa e io le avevo detto no (nonostante le apparenze, pare sia ancora possibile dire qualche volta no ai figli). Si era arrabbiata e mi aveva detto: avec toi on peut jamais rien faire. Con te non si può mai fare niente.

Allora avevo pensato alla mia ultima estate da bambino. Finita la scuola, tanti miei compagni sparivano nelle campagne dell’entroterra, per quella che era chiamata la “villeggiatura”. Gli altri andavano alla spiaggia del quartiere (Genova Pra’), che l’anno successivo sarebbe scomparsa per sempre, sommersa dai lavori del porto industriale. Io non andavo in campagna (i miei non si spostavano mai) né al mare. Non sapevo nuotare. Mio padre mi ammoniva a non provarci. Mi diceva: se vai al mare, “ti neghi” (anneghi, in dialetto genovese). Andare alla spiaggia, per lui, comportava non tanto il rischio di annegare, quanto quello di portare in casa sabbia, disordine, sporcizia. Ma in quell’estate accadde qualcosa: ci fu l’inedita possibilità anche per noi di andare “in villeggiatura”.

Due componenti dei Ricchi e Poveri sulla spiaggia del quartiere « Genova Pra », primi anni Settanta (Sito Genova antica)

I miei zii avevano una casa a Limone Piemonte, cittadina delle Alpi marittime, frequentata da genovesi e nizzardi durante la stagione sciistica. Proposero a mia madre di andarci a luglio. La sventurata rispose e arrivò il giorno della partenza. Mio padre era nervosissimo: il viaggio in automobile verso una meta per lui sconosciuta, le valigie preparate con cura da mia madre e allineate vicino alla porta, la casa da lasciare vuota, incustodita per un mese. D’improvviso disse: mi sento male. Un mal di testa terribile, di origine misteriosa. Si stese a letto, rantolando nel buio della camera con le persiane chiuse. Fuori splendeva il sole, dal terrazzo si vedeva, lontano, il luccicare del mare. Si era messo una pezza bagnata sulla fronte con alcune fette di patate (rimedio stregonesco ereditato da sua madre contro l’emicrania).

Io dissi “ma allora non partiamo più?”. A quella frase mio padre esplose. Disse che stava malissimo, forse (chissà) in pericolo di vita, e che io me ne fregavo e pensavo a partire, ad andare chissà dove e (peggio ancora) “a divertirmi”.  Indicandomi, disse a mia madre: “per mio padre io avrei dato la vita e lui se ne frega anche se sto male!”.

Mia madre non rispose e cominciò in silenzio a disfare le valige. La luce filtrava dalle persiane sul pavimento in graniglia. Quando ebbe finito, mio padre si alzò dal letto e disse di sentirsi meglio. Le patate avevano funzionato. Si mise le scarpe (le stesse che portava d’inverno, pesanti e inadatte al caldo) e andò al bar. Mia madre si chiuse a chiave in camera da letto dicendo che si sarebbe ammazzata, con le pastiglie oppure (più romanticamente) buttandosi sotto il treno.  Lo diceva spesso. Io restai solo di fronte al vuoto della lunga estate che mi attendeva. Provai nei confronti di mio padre un odio che saliva fino al cielo e rimbombava in quel silenzio degli spazi infiniti, che tanto atterriva Pascal e che invece tanto piace ai patiti dell’astronautica.

Negli anni successivi, mio padre (svergognato da mia madre di fronte agli zii) accettò di andare a Limone. La morte nel cuore, bianco in volto, tremante, come ogni volta che doveva uscire dalle sue abitudini. A luglio in montagna non c’era nessuno. Una ragazza di Bordighera giocava a tennis contro il muro, nel caldo del primo pomeriggio estivo, imbronciata e tutta sudata nella maglietta di cotone bianco. Io la guardavo e mai le rivolsi la parola. Una signora bionda con un bikini marrone striminzito, magra come un serpente, diceva che sul balcone di casa prendeva il sole nuda per non avere il segno del costume. Giungeva anche per me l’ora che indaga, scrive Montale.

Mare nei dintorni di Genova

Qualche anno più tardi,  trovai il coraggio di buttarmi in acqua, su una spiaggia deserta alle sette di un mattino di un’altra estate. E imparai a nuotare. Il che, secondo gli stereotipi oggi imperanti, dovrebbe rappresentare un’esemplare reazione alle difficoltà (quel che viene indicato dall’odioso termine resilienza). Invece no, nessuna resilienza. Questo termine lasciatelo agli apostoli della modernità. La vita, almeno la mia, non è questo. Soprattutto una volta trascorsa l’ultima estate da bambino, quella in cui l’inganno della vita, dice ancora Montale, si fa palese. Per me, e anche per mia figlia Milena.

Maurizio Puppo

(foto del logo: da un cortometraggio di Agnès Varda: “Du côté de la côte”)

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

2 Commentaires

  1. E che felicità, nel non dovere più indossare la lana. Grazie. Il tratto di mare tra Cogoleto e Varazze, l’antica strada del treno, è stato più tardi, per me, il luogo in cui il mare è diventato una cosa mia. Ciao, Maurizio

  2. La tua ultima estate da bambino somiglia in qualche modo alla mia. Chi accusava un furibondo mal di testa alla sola idea di spostarsi da casa era mia madre e non mio padre. Non siamo mai andati in vacanza. Io però sapevo nuotare e, abitando a Varazze, trascorrevo i tre mesi di vacanza andando al mare, o, come si dice in loco andando « a spiaggia ». La tortura però consisteva nel dover indossare un costume di lana. Hai capito bene. Me lo confezionava ai ferri mia madre. Solo con la pubertà ho potuto avere un costume in tessuto sintetico.

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