1956. Roma, o meglio Testaccio. La mia famiglia, testaccina da parte di entrambi i genitori, viveva in un palazzo grande, otto scale senza ascensore, ma con una sua eleganza, con due cortili interni, lavatoi e una scuola materna per i figli dei residenti. Nel nostro appartamento di una settantina di metri quadri, convivevano con noi quattro, tre sorelle più giovani di mio padre, mio nonno e il suo cane.
All’epoca avevo tredici anni frequentavo la seconda media al Virgilio, fuori dal quartiere, e in quelle estati ho goduto di una libertà straordinaria; del resto in casa servivano spazi per cui mi era consentito rimanere fuori quasi tutto il giorno. La mattina me la spassavo con gli amici del palazzo e nel pomeriggio andavo all’oratorio dove i salesiani organizzavano continuamente tornei di calcetto per tutte le età, gioco in cui eccellevo che mi permetteva di fare nuove amicizie. Quelle partite a 7 erano gli eventi dell’estate: ai lati delle grandi colonne di marmo del campetto dei preti si ammassavano decine di spettatori, richiamati dal passaparola, talvolta ci parteciparono anche giocatori di serie B e C nati a Testaccio.
Non sono mai andato in vacanza prima dei diciassette anni ma non ricordo amici che ci andassero. La nostra vacanza era stare in strada, ci sentivamo i padroni assoluti di quella parte della città, dove ci spostavamo senza il pericolo di essere investiti da un’auto perché in quel periodo passava una Topolino ogni mezz’ora.
Noi maschi facevamo per tutta l’estate giochi di gruppo; giocavamo a nizza, a nascondino a barattolo, con monopattini di legno costruiti da noi, ma la regina incontrastata rimaneva sempre la palla, non importava fosse di cuoio o di gomma nera.
Le nostre estati erano interminabili perché seguivano il ritmo della scuola che finiva ai primi di giugno per iniziare il primo di ottobre.
Pochi giorni prima del Ferragosto di quell’anno mio padre propose a mia madre di festeggiarlo con me e mia sorella di dieci anni in un ristorante per mangiare il pesce. L’accoglienza fu molto tiepida da parte di mamma che preferiva rimanere in casa, come sempre. Ma mio padre insistette anche nei giorni successivi: non capivo bene le sue ragioni e la sua determinazione mentre mi era chiaro l’atteggiamento di mia madre che non era interessata alla buona cucina e che soffriva da tempo di calcoli epatici; poi aggiunse che le sembrava una spesa eccessiva e divenne ancora più contraria quando mio padre accennò al locale scelto. Non era una trattoria del quartiere ma un locale di “livello”, ad Ostia Lido.
Chissà perché papà volle imporre la sua volontà e telefonò per prenotare un tavolo per il pranzo di Ferragosto; mia madre abbozzò immusonita, senza fare scene.
Tutto sommato ero contento di andarci perché avrei sicuramente mangiato meglio del solito anche se capivo tutte le perplessità di mamma e poi si prospettava una giornata faticosa: si doveva camminare sotto il sole per quasi due chilometri lungo via Marmorata fino a prendere il trenino per Ostia.
Fu così che il giorno di Ferragosto intorno alle 13.15, arrivammo da Ferrantelli, veramente un gran bel ristorante, con tavoli tutti prenotati da clienti apparentemente benestanti.
Il giovane cameriere che ci accolse non riuscì a trovare la prenotazione e mio padre cominciò a stranirsi, poi la trovò o fece finta e ci piazzò in un tavolo in un angolo dove rimanemmo a lungo in attesa di avere acqua da bere. Finalmente si presentò un altro cameriere di mezza età, magro, con i baffetti brizzolati e l’aria professionale che ci illustrò il menù. Mia madre disse di avere mal di stomaco e preferì prendere del riso in bianco, noi ordinammo pasta al sugo e lasagne. Mio padre chiese la carta del pesce del giorno che il cameriere si impegnò a portare al più presto.
Nell’attesa mi divertivo ad osservare i commensali, quasi tutte coppie senza figli, cercando di individuare i tipi più originali e provare a capire qualche lato del carattere dai loro atteggiamenti. Passarono ancora una decina di minuti e mio padre cominciò a lamentarsi del servizio e del fatto che il nostro cameriere dai baffetti brizzolati non si era più visto in giro.
“Io non lo so che razza di cameriere ci è capitato, non so dove si sarà nascosto… ma proprio questo ci doveva capitare? Nemmeno la carta del pesce mi ha portato…”
Improvvisamente si sentirono delle voci fortemente alterate provenire da una sala interna e subito dopo un rumore, come di un piatto caduto in terra. Non avemmo il tempo di fare supposizioni perché due camerieri piombarono nella nostra sala, rincorrendosi. Urlavano e si insultavano con parole volgari, quello dietro perdeva molto sangue dalla fronte, che gli scendeva sul viso e sulla giacca, quello avanti teneva ancora il piatto rotto in mano.
I clienti rimasero sorpresi e immobili al loro posto, ma intervennero subito altri camerieri che non potevano certo mettere pace tra i due ma li divisero fisicamente e il sangue passò da una giacca all’altra. Un’ambulanza arrivò quasi subito e fu una fortuna così finirono gli insulti e le minacce del ferito nei confronti dell’aggressore che fu allontanato dal locale in malo modo.
Era ormai più di un’ora che eravamo nel ristorante, a digiuno, quando un signore si presentò al centro della sala e si scusò a nome della direzione per lo spiacevole accaduto e garantì che il servizio ai tavoli sarebbe ripreso con efficienza.
Fu solo a questo punto che mio padre realizzò che il cameriere ferito e trasportato al Pronto Soccorso era proprio il nostro.
“Ma quando si è mai visto che due camerieri si mettono a litigare e uno spacca la testa all’altro? E tra tutti i camerieri del ristorante, quello a cui hanno rotto la testa è proprio il nostro … E ora che facciamo? Ma proprio a me doveva capitare? Ora vado a parlare con il direttore…”
“Ma no signore, stia tranquillo, non si preoccupi… Le ordinazioni del vostro tavolo? Sì, effettivamente non le trovo, forse è meglio che ce le ripeta… La serviremo nel più breve tempo possibile, abbia solo pazienza. Cerchi di capire…”
Quando arrivò il riso mia madre ne assaggiò solo una parte perché le si era chiuso lo stomaco; mia sorella mangiò metà della sua porzione di lasagne perché era rimasta impressionata dalla violenza improvvisa e dalla vista del sangue. Io mangiai la pasta che avevo ordinato e papà rimase in silenzio, cupo, a mangiare i suoi spaghetti al sugo.
Siccome non venne più nessuno al nostro tavolo mio padre indispettito rinunciò ad ordinare il pesce e chiese il conto che arrivò in ritardo. Uscimmo in silenzio dal locale intorno alle 16.30 e giungemmo alla stazione ferroviaria di Ostia Lido proprio quando cominciava il rientro dei bagnanti giornalieri, dei fagottari che vanno al mare di domenica portandosi il panino con la mortadella. Talvolta lo facevamo anche noi andando con i panini alla Nuova Pineta; forse per una volta mio padre si era voluto sentire un po’ signore ma gli andò male.
Fu un ritorno difficoltoso, le carrozze arrivavano piene zeppe da Castelfusano e dovemmo aspettare un paio di treni faticando ad entrare tutti e quattro nello stesso scompartimento e rimanendo in piedi per l’intero tragitto, pigiati agli altri passeggeri come sardine in scatola.
Finì addirittura in comica perché a via Marmorata al ritorno incontrammo zia Antonia, una delle tre sorelle che gli disse: “Allora come è andata da Ferrantelli ad Ostia? Hai una faccia… ma che per caso hai litigato?”
Sergio Mancinelli
LINK INTERNI:
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Neo neo neo realistico… quegli anni erano proprio così.
Daniele Nofri