Un’estate italiana. Di Natalia Ginzburg: ‘Odio l’estate’

«Odio l’estate. Odio il mese di agosto fino al giorno di Ferragosto. […] Passato il Ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo. Mi sembra che tutto lentamente migliori per me. Tutti partono e ci chiedono se anche noi partiremo. Impossibile rispondere, quando siamo nel numero di quelli che non hanno voglia né di partire né di restare. Quando arriva l’estate mi assale la malinconia e l’angoscia, cosa che – ho scoperto – molti altri provano […].

Nell’infanzia l’estate mi piaceva. Era la mia stagione preferita. Mi rallegravo del caldo e delle prime ciliegie. […] L’estate significava andare in villeggiatura. Comparivano nel corridoio i nostri bauli, enormi e vecchissimi, con lastroni di ferro rugginosi, una sorta di dinosauri. Mia madre, nel fare i bauli, sospirava e sbuffava. Né a lei né ai miei fratelli piaceva andare in villeggiatura. Si annoiavano. Io mi divertivo. Per quattro mesi, stavamo in montagna. Il luogo e la casa li decideva mio padre. Erano sempre, secondo mia madre, case scomode e luoghi noiosi, dove non si trovava nessuno con cui scambiare mezza parola. Assistevo alla cerimonia dei bauli con viva gioia.

La mia felicità era solo un poco offuscata dal malumore di mia madre. Appena ero in montagna, mi immaginavo di essere un’abitante di quei luoghi, nata là e destinata a vivere là per sempre. Mi sforzavo di cancellare dalla mia memoria la nostra casa di città. Non avevo altri bambini con cui giocare, e camminavo sola nei prati cercando cavallette e ranocchie. Allora non conoscevo la noia o la conoscevo appena, mi durava pochi istanti. Per pochi istanti, sbuffavo e ciondolavo intorno alla casa. Venivo subito rimproverata. Secondo mio padre, annoiarsi era una colpa sempre, ma soprattutto in montagna. Mia madre invece sembrava pensare che il diritto alla noia l’avevano soltanto i miei fratelli e lei stessa. Io non avevo questo diritto essendo piccola. Secondo mia madre, i bambini non dovevano mai né sbuffare né ciondolare. Mi diceva di lavarmi la faccia e fare i compiti delle vacanze. Non l’ascoltavo, perché sapevo che fare i compiti delle vacanze era contro la noia un sistema pessimo. Comunque mi liberavo dalla noia con una facilità estrema.

Pensavo allora che ogni pomeriggio potesse racchiudere straordinari avvenimenti. Potevo andarmene nei prati e trovare qualche grosso rospo. Nei boschi c’erano scoiattoli, e la speranza di acchiappare e portare a casa un piccolo scoiattolo non m’abbandonava mai. O potevo tentare di scrivere un romanzo o di cucinare un dolce, o anche fare a un tratto una grande scoperta scientifica. I miei genitori e i miei fratelli ne sarebbero rimasti strabiliati. Il mio costante desiderio era di strabiliarli, perché trovavo difficile richiamare la loro attenzione su di me. Tutte le cose che io facevo e che trovavo meravigliose non li meravigliavano mai. Il giorno della partenza dalla montagna era per me quasi ancora più bello del giorno dell’arrivo. Alla felicità di partire, di salire prima su una corriera e poi su un treno, si univa la sottile e deliziosa tristezza di dire addio all’estate, essendo per me allora la tristezza una cosa tanto insolita e leggera da mescolarsi con delizia nella felicità. Tristemente salutavo quei luoghi che forse non avrei mai riveduto. Mio padre diceva che l’anno prossimo saremmo andati altrove, in un luogo più economico. Inoltre, mio padre usava dire, al termine di ogni villeggiatura e nel corso dell’inverno, che non saremmo andati mai più in nessuna villeggiatura perché non avevamo più soldi. Questa minaccia lasciava i miei fratelli e mia madre nella più assoluta indifferenza, essi non ci credevano e d’altronde non sognavano altro che un’estate in città. Quanto a me, all’idea che eravamo così poveri ardevo di felicità e di paura, perché temevo e speravo di trovarmi in una situazione drammatica. Tuttavia, quei lunghi mesi di montagna sui quali mia madre e i miei fratelli sbuffavano si ripetevano per volontà di mio padre ogni anno puntualmente e inesorabilmente.

A un certo punto, mi accorsi che quelle villeggiature in montagna erano diventate di una noia insopportabile anche per me. Compresi allora che la mia infanzia era finita. Non me ne importava più niente delle cavallette e dei rospi. I libri che avevo portato con me li avevo letti e riletti nello spazio di pochi giorni. E inoltre stare a leggere in solitudine mi sembrava un’umiliazione. Mi sembrava che avrei dovuto avere degli amici, ma non ne avevo […]. Sentivo cantare i grilli, mi assordava la pace abbagliante e sterminata del pomeriggio estivo. Essa sembrava promettere qualcosa, qualcosa che misteriosamente era destinato a tutti ma non a me […].

Io non trovavo il mondo triste, lo trovavo bellissimo, solo che a me per qualche ragione oscura era vietato di celebrarne le radiose giornate, così non potevo che cercare e amare l’autunno, l’inverno, il crepuscolo, la pioggia e la notte. Scopersi, in seguito, che una simile sensazione non ero io sola a provarla, che era una sensazione comune a molti, perché molti come me in qualche istante della loro esistenza si sono sentiti esclusi e mortificati dall’estate, giudicati per sempre indegni di raccogliere i frutti dell’universo. Molti come me allora hanno odiato lo splendore abbagliante del cielo sui prati e sui boschi. Molti come me ai primi segni dell’estate si sentono in angoscia come all’annuncio di una disgrazia, perché in essi risorge lo spavento del giudizio e della condanna.

A noi sembra allora di trovarci senza scampo, inchiodati nel punto dove siamo. Chi è solo, a un tratto, ha l’esatta misura della propria solitudine. Il ritmo abituale dei giorni si spezza. Le consuete sofferenze diventano insopportabili, rischiarate incessantemente da una luce solare e crudele. La nostra vita giace in disordine ai nostri piedi. Ci sentiamo costretti a enumerarne ogni dolore o errore. La luce dell’estate illumina senza misericordia il nostro silenzio, la nostra persona immobile, circondata di antiche e nuove catastrofi. Ci sentiamo a un tratto seduti sul banco degli imputati. Come in un interrogatorio di terzo grado, noi restiamo immobili, annichiliti e stravolti. Impossibile nasconderci a noi stessi e agli altri. Impossibile alzare un braccio per nascondere il nostro volto. Alle domande che ci saranno poste non sapremo rispondere. I gesti che ci verranno comandati non sapremo compierli. Essere noi stessi ci sembra una colpa peggiore d’un assassinio, da ogni parte ci viene dichiarato che per una simile colpa non c’è assoluzione.»

***

INFORMAZIONI SUI BRANI CITATI – La scrittrice Natalia Ginzburg, sulle pagine del quotidiano ‘La Stampa’ (22 agosto 1971), in un bell’articolo dal titolo “Odio l’estate”, confessava una viscerale insofferenza per l’estate, maturata già nella prima adolescenza, sentimento di cui tornerà a parlare in un’intervista su ‘La Stampa’ (11 luglio 1991) e dal titolo eloquente “Maledette vacanze”.
Si veda l’articolo originale: Odio l’estate, la luce, la noia. Rivivo solo dopo ferragosto – La Stampa

La Ginzburg ha affrontato il tema dell’estate anche nei racconti “Casa al mare” ed “Estate”, raccolti nel volume Cinque romanzi brevi, Giulio Einaudi editore – ET Scrittori

Natalia Levi Ginzburg (Palermo, 14 luglio 1916 – Roma, 7 ottobre 1991), è stata una scrittrice, drammaturga, traduttrice e politica italiana, figura di primo piano della letteratura italiana del Novecento.

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