Un’estate italiana. Di Mario Gori: ‘Margherita. Estate 1949’

Margherita era piccola, nove anni forse dieci, due treccine bionde bionde, gli occhi chiari color del cielo, rarità dalle nostre parti. Viareggio era piena di sole più di Firenze, o almeno sembrava a me che al mare ero stato solo un’altra volta. Io la mamma mio fratello, la zia, la cugina Maria Grazia eravamo sotto un ombrellone non tanto lontano. Lei era lì vicino e mi guardava o almeno così sembrava a me. Io la guardavo senza timidezze. A nove anni non esiste timidezza, esiste la voglia di conoscere di avere, di toccare, di correre insieme di tenersi per mano.

Estate 1949 – visuale Mario Gori

Ad un tratto sentii che parlava con una vecchia signora vicina di ombrellone, tutta vestita di scuro con un cappellino e una veletta. Parlavano una strana lingua che io non capivo, dopo seppi che era sua nonna ed era ungherese. Chissà perché il fatto che avesse una nonna ungherese e che parlasse anche lei quella lingua misteriosa me la faceva apparire ancora più interessante e cominciai timidamente a cercare la sua amicizia e alla fine riuscii a giocare insieme, ma non ricordo che gioco fosse, so solo che io ero completamente invaghito di lei. Anche lei sembrava che avesse simpatia per me, ma un grasso bambino romano si inserì cercando di rompere la perfetta armonia che c’era fra noi due. Purtroppo lui era un ciccione ma forte e senza paura e io spesso nei giochi più violenti avevo la peggio. Ma io non avevo dubbi, lei stava più volentieri con me.

Nei pochi giorni in cui sono stato sulla spiaggia con lei ero in un perenne stato di grazia, come quando siamo nel mezzo di un bel sogno. Quando la sera ritornavamo alla pensione io rimuginavo dentro di me dei piani fantastici per fuggire con Margherita verso mari lontani e imbevuto come ero delle avventure salgariane mi immaginavo, chissà perché, di poter mettere in mare la piattaforma in legno sopra cui erano le cabine degli spogliatoi, naturalmente staccandole dagli agganci al suolo e finalmente bordeggiare, con quella strana imbarcazione, lontano con Margherita. Rimaneva il ciccione romano da me immaginato come un novello perfido Van Gould, ma dopo la nostra fuga sarebbe restato a terra a mangiarsi le mani dalla rabbia.  Mi ricordo che questa soluzione mi appariva come una soluzione facile da attuare e senza nessun rischio.

Intanto mio zio e i suoi amici grandi avevano il loro problemi e le loro occupazioni e i loro giri che principalmente avevano uno scopo: imbroccare qualche ragazza. Io mi dovevo sorbire tutti i discorsi dei grandi nelle lunghe e noiose camminate sulla Passeggiata di Viareggio, dovevo ascoltare le canzoni del momento strillate dagli altoparlanti di non so che locale. Di una mio ricordo qualcosa mi sembra che dicesse “Cin cin che bel uè uè uè” e poi “proseguiva avanti indré avanti indré che bel divertimento”. Poi parlava di una vecchia zia Evelina che in cambio di un inchino gli dava mezza lira. Ma a me non piacevano, io pensavo solo a Margherita e quando arrivò il momento della partenza, dopo i pochi giorni passati a Viareggio, fu per me un dramma. Tutto si chiuse così, senza un saluto, senza un bacino, senza sapere dove abitava. Forse abitava a Milano, ma non ne ero sicuro. Mi rimase dentro, per molti giorni, una gran tristezza e il pensiero di lei nella mente. Poi il tempo passò, il tempo cancella tutto.

Mario Gori

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Mario Gori
Mario Gori. 84 anni. Troppi, lo riconosco. Spesi bene? Comunque, spesi in qualche modo. Firenze nel 1940, a un mese dallo scoppio della guerra: non un bel periodo per nascere. Infanzia normale per quel periodo: scuola elementare a un passo da casa, maestri ancora filofascisti che dicevano peste e corna dei partigiani. Dopo, l’avviamento commerciale: un obbrobrio. Dopo un po’ decisi di distaccarmene. Finché i miei genitori decisero di mandarmi a lavorare. Meccanico dentista, quello era il mio destino: in realtà, uno schiavetto al servizio di un dentista che non mi dava una lira. Allettato dal famigerato posto fisso corsi in Ferrovia, come migliaia di miei coetanei. La Ferrovia mi ha salvato dalla fame, dato un ambiente abbastanza umano in cui lavorare, ma non mi ha dato altro. Che volevo? Non lo so e forse non lo so ancora. Pensione a 50 anni. Insieme ad altri acquistai una gigantesca colonica in campagna. Da vecchio, ho deciso di mettere giù i ricordi, prima che mi sfuggano piano, piano, come stanno facendo a mio fratello novantenne.

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