Gianni Grattacaso è un fotografo italiano contemporaneo (1952), originario del Cilento. I suoi scatti colpiscono perché incarnano il desiderio di fissare in immagini le proprie visioni interiori lasciando che esse si mimetizzino nello spazio percepito con i sensi.
Un desiderio già attestato in Dürer e ben radicato nel mito originario dell’arte, di rendere visibile agli altri ciò che il fotografo vede senza aggiungere parole esplicative, lasciando all’interlocutore la piena libertà di innescare o meno il meccanismo di riflessione dentro di sé.
La sua fotografia sembra dilatare lo spazio anziché restringerlo. Della serie di scatti intitolata ‘Frames’ del 2011, colpisce l’ingresso in scena di uno schermo cinematografico che divide l’immagine in due fasi. A prima vista lo spettatore sembra disorientato rispetto alla localizzazione dell’evento. Ci chiediamo se l’artificio voglia richiamarci all’attenzione rispetto a particolari che altrimenti passerebbero inosservati o se il leit motiv sia quello della doppia realtà sottesa a tutto il creato. Lo spazio diventa morbido e malleabile nonostante il colore sia estromesso dal processo fotografico. Le sfumature sono rese dall’accomodamento delle linee rigide dello schermo nelle forme del paesaggio scelto. L’invisibile delle cose che Gianni Grattacaso fotografa è ciò che rimane dopo aver consumato tutto quello che c’è dopo la prima vista. Fuori esce l’energia, ricanalizzata nello scatto grazie al movimento di elementi vitali come acqua, terra, fuoco, aria. Il prima non è più, il dopo si respira e intravede, ma anch’esso sfugge perché non è ancora.
L’indicazione di Sant’Agostino del presente eterno perché unico segmento percepibile e pienamente descrivibile sarebbe appropriata per questo tipo di arte. Lo schermo è il taglio di una nascita e di una morte in simultanea. Muore ciò che vediamo in ombra, vive ciò che l’obiettivo illumina. La luce, discrimine tra visto e non, rappresenta la chiave per seguire i passaggi, molto spesso autobiografici, di scatti accuratamente preparati e attesi.
[Il paesaggio è molto importante perché aiuta la mia anima a stare da sola. Devo stare nel paesaggio per molto tempo per entrare in sintonia. Devo percepire il Creatore che mi parla perché è vivo ed è un Essere Umano e si vede grazie alla luce.
Intervista a Gianni Grattacaso, dicembre 2015]
Così, per esempio, in (Grattacaso 1), le orme sulla sabbia rimandano all’idea di un bagno di purificazione nel mare. La catarsi è compiuta e ciò che si era prima non si è più. Un’onda che invade il nuovo spazio conferma che il passaggio è avvenuto, che abbiamo affrontato un pericolo, uno spavento, un’angoscia e ne siamo usciti. Questo lembo di mare ambi presente ci racconta dello sforzo fatto per procedere in avanti e lo vediamo chiaramente in primo piano. L’acqua ha reso possibile il cambiamento e lo ha incentivato. Non c’è figura umana, ma c’è uno spazio modificato che ci rassicura del suo recente transito.
In (Grattacaso 2) l’infanzia è messa di fronte alla promessa del gioco e della felicità. Il palloncino non è ancora troppo alto per essere preso dalla bambina, gioia e speranza di continuità. Ma la piazza è deserta e il suo slancio deve contenere una forza maggiore per compiere il passaggio verso la vita, forse in salita verso l’Alto.
In (Grattacaso 3) la figura umana è protetta dalla fortificazione del suo paese, del noto, del conosciuto, mentre di fronte ha l’orizzonte della partenza, dell’altrove, di realtà straniere. La ringhiera ricorda molto i binari di una ferrovia di paese, testimone di partenze tristi e malinconiche verso l’ignoto.
La memoria e la storia sono ingredienti fondamentali nell’opera dell’artista cilentano. Il suo credo si scopre autentico nel legame con le proprie origini, ma anche nell’ aspirazione costante a fare il salto, ad allungare il passo per colonizzare spazi nuovi.
Proprio del coraggio di scrollarsi di dosso le certezze passate con passo deciso verso un nuove altezze è intriso lo scatto ‘Umbrella’ in (Grattacaso 4). L’ombrello che ha riparato dalla pioggia la figura umana ora non serve più. Il piglio è deciso e determinato a conquistare fortezze e forse finalmente a liberare qualcosa o qualcuno da troppo tempo rinchiuso nel castello.
Infine l’ultimo scatto (Grattacaso 5) regala al fruitore il concetto di riconciliazione dopo una rottura. Le sedie a terra appartengono al passato sul quale i riflettori si stanno spegnendo definitivamente. Ora seguiamo le mani unite dei due sacerdoti. Una fede, non per forza quella cattolica, li spinge verso la luce, fuori dallo spazio angusto che li ha visti impegnati in una aggressione fisica. Ci sembra di sentire le loro risate, le parole distese che soltanto la riappacificazione interiore ci dà. Una fotografia in progress, come lo svolgimento della vita che non si ferma, nemmeno per la posa di una fotografia. Scatti che raccontano di un percorso di maturazione intensa, di scontri e incontri, di creazione e di incontinenze. Di nascite e di morte. Del ‘desiderio ardente’ di essere presente a se stessi e ai propri cari senza nascondere le proprie emozioni. E ancora di rinascita e di seconde possibilità, come quelle che la vita sa offrire a chi è pronto a bagnarsi nel suo mare.
[Ho realizzato che c’è sempre un prima e un dopo: il prima non tornerà più e il dopo non è ancora qui. Lo schermo rappresenta la finzione professionale o umana che li lega.
Intervista a Gianni Grattacaso, dicembre 2015]
Rosa Chiara Vitolo
(Linguista, Università per Stranieri di Perugia)
per Altritaliani Dicembre 2015
Il sito di Gianni Grattacaso:
www.giannigrattacaso.org