Ecco qualche considerazione a partire dalle drammatiche giornate recentemente vissute dalla Francia e soprattutto dalla sua capitale.
La gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti. I rischi di terrorismo accomunano i nostri paesi democratici. Sottovalutare questi rischi sarebbe totalmente irresponsabile e dunque i nostri governi sono chiamati a migliorare – in stretto coordinamento tra loro – il dispositivo di coordinamento e di prevenzione nei confronti della violenza terroristica. Violenza tanto più grave perché si salda con un contesto geopolitico estremamente instabile, caratterizzato dai conflitti in Libia, Mali, Siria, Iraq, Afghanistan e Nigeria (oltre a tante altre situazioni di crisi).
Questi conflitti sono in parte la conseguenza di giganteschi errori di politica estera commessi da uno o più governi occidentali, che hanno talvolta alimentato guerre (come in Iraq e in Libia) senza essere in grado di gestirne le conseguenze. Hanno giocato col fuoco e si sono scottati. Oggi il fanatismo religioso islamico esalta la sua delirante proposta a molti giovani in difficoltà: sostituire l’idea dello studio, del lavoro, dell’integrazione, della vita di famiglia e della ricerca della felicità con quella del combattimento, del sangue, della morte e del “martirio” in nome di una presunta coerenza religiosa islamica.
Tutte le nostre crisi si saldano in queste considerazioni: la crisi della nostra politica estera occidentale, la crisi delle nostre economie, la crisi sociale prodotta dalla disoccupazione e quella che deriva dalle difficoltà di integrare gli immigrati. Più siamo incapaci di creare felicità e più qualche frangia marginale della gioventù può essere sedotta dall’assurda e delirante proposta di rimpiazzare il concetto di felicità con quello di “martirio” (ignorando che i veri martiri sono le vittime del terrorismo, come quel formidabile economista che è stato Bernard Maris o come i disegnatori satirici, massacrati con lui il 7 gennaio alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi).
In un contesto tanto serio e preoccupante, nulla sarebbe più sciocco che utilizzare il sacrosanto allarme della popolazione per interessi politici di bottega: barattare il bisogno di una vera strategia antiterroristica in cambio di un pugno di voti alle prossime elezioni. Di demagogia e di populismo ne abbiamo visto fin troppo. Oggi non servono i discorsi incendiari e tantomeno le filippiche xenofobe. Oggi serve chiarezza. Questo vale anche per chi è abituato a usare la demagogia in senso opposto, condannando a priori qualsiasi discorso a proposito dell’immigrazione e delle sue conseguenze.
Cerchiamo allora di essere chiarissimi. Accusare l’Islam in quanto tale, le comunità islamiche in Occidente o il fenomeno dell’immigrazione in se stesso sono solenni e pericolose sciocchezze. Al tempo stesso, dire che le comunità islamiche in Occidente non hanno mai nulla a che vedere col terrorismo o che l’ “islam moderato”, come scrivono abitualmente i giornali, non deve sentirsi in prima linea di fronte a quel genere di violenza sono altre solenni e pericolose sciocchezze. Il problema del terrorismo divide oggi l’Islam in Maghreb, in Medio oriente e anche in Europa. Gli attentati terroristici in Francia dimostrano che non è più possibile per le comunità islamiche in Europa (oltre che in Tunisia o in Libia) trincerarsi dietro atteggiamenti da Ponzio Pilato. Sono loro le prime a dover scegliere tra chiudere un occhio (e magari due) verso le frange fanatiche (per esempio verso i giovani che cercano di andare a combattere in Siria) o assumersi fino in fondo tutte le loro responsabilità nella lotta contro quelle stesse frange.
La vittoria contro il terrorismo brigatista in Italia è venuta quando i sindacati e il PCI sono stati in prima linea (a costo di farsi ammazzare, come il sindacalista Guido Rossa a Genova) contro un terrorismo che veniva da un impazzimento di frange provenienti dalla sinistra stessa. La vera vittoria contro il terrorismo di certi integralisti islamici verrà quando le comunità islamiche europee si comporteranno allo stesso modo. Ma per ottenere quel risultato bisogna dialogare con le comunità in questione e non certo ghettizzarle.
Alberto Toscano