Non si può fare a meno, in tempo di preoccupante flusso migratorio dall’Africa verso l’Italia, di riflettere sul problema dei migranti che non sarà facilmente risolvibile e resterà da studiare chissà per quanto tempo. Intanto, Germania, Francia, Italia sono stati a consulto a Bruxelles insieme agli altri paesi della Comunità europea il 28 ed il 29 giugno, per cercare di disciplinare e variare quanto la normativa, stabilita a suo tempo, detta in materia di richiesta di rifugiati, una volta che superano, illegalmente, le frontiere dell’Europa.
A fondamento delle normative europee che presiedono i flussi di popolazione nei paesi del Mediterraneo occidentale ci sono i due trattati che ostacolano ed appaiono ormai superati e non più rispondenti alle presenti necessità: Schengen e Dublino. Si è tante volte parlato di essi, quello di Schengen, firmato il 14 giugno 1985, per cui 26 paesi dell’Unione hanno deciso di eliminare progressivamente i controlli alle frontiere interne per consentire la libera circolazione delle merci e delle persone, sono poi tornati a porle saltuariamente quando si sono sentiti minacciati, nella difesa dei loro confini, dal terrorismo e dalla criminalità organizzata.
Il trattato di Dublino, in vigore dal 1997, stabilisce, secondo l’art.13, la responsabilità della richiesta d’asilo degli immigrati, che hanno varcato senza autorizzazione le frontiere, al paese d’Europa di primo sbarco. Allora la migrazione era prevalentemente albanese e controllabile, ma dopo divenne consistente e minacciosa e ad essere penalizzate furono soprattutto Grecia ed Italia i cui confini, segnati dal mare, e perciò non ben custoditi, furono presi d’assalto costantemente, al limite della protesta.
L’Italia con Salvini ed il nuovo governo Conte ha chiesto la revisione del trattato di Dublino perché non riesce a gestire tutte le richieste ed ha sollecitato la redistribuzione dei rifugiati in tutti gli stati membri della UE e non solo in quelli di primo approdo. Ma il summit che si è tenuto proprio nei giorni scorsi a Bruxelles, di cui si diceva sopra e che prometteva miracoli, ha deluso tutte le aspettative ed ha rivelato, se ancora ci fosse bisogno, l’ipocrisia su cui è improntata la politica dei 27 paesi che apparentemente sembrano volersi accordare, ma sul nulla di fatto, in quanto tutto resta com’è, con qualche piccola sfumatura: in 16 paesi saranno attuati respingimenti rapidi dei cosiddetti rifugiati economici e sono stati sbloccati 500 milioni per l’Africa, appena una goccia d’acqua per quello che dovrebbe essere un grande mare per il progetto che diremo tra poco, tre miliardi alla Turchia per fermare gli immigrati diretti in Germania, tramite la rotta dei Balcani e salvare così la Merkel dalla crisi politica dei bavaresi del Csu.
Nessun eroe apripista, né Salvini che aveva fatto credere di impegnarsi fino in fondo a cambiare i trattati, né il francese Macron che sembrava congratularsi per non essere il suo un paese di primo sbarco a cui resta l’incombenza, volontaria però, di allestire campi di raccolta di immigrati. Eppure tutti soddisfatti, chi al 70/°, chi all’80/°, ed ancor più Victor Orban e quelli dei paesi nazionalisti di Višegrad. Insomma la consapevolezza della modifica dei trattati c’è in tutti, ma si rinvia a data da destinarsi il vero compimento.
Si diceva della necessità d’un piano Marshall da applicare all’Africa, simile a quello ideato dal Segretario di Stato George Marshall, nel 1947, per la ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, uno dei piani politico-economici statunitensi che ha funzionato tanto che la ripresa fu visibile già nel 1948. Fu fatto allora uno stanziamento di 14 miliardi di dollari, suddivisi in 4 anni ai vari paesi europei che ne beneficiarono e furono sostenuti. L’Unione Sovietica, dopo un primo interesse all’operazione, si rifiutò di parteciparvi ed invitò tutti i paesi baltici di sua influenza a fare altrettanto. Il piano terminò nel 1951 e fu veramente efficace. Ma è improbabile che si possa applicare nel più breve tempo possibile, data la guerra dei dazi che Trump ha inaugurato e la sfortunata campagna antimessicana, ed alla mancanza di ingenti somme di danaro che servirebbero a creare un fondo monetario vero e proprio in tal senso. Così nell’attesa magari che il continente nero diventi green, si cerca di trovare altre soluzioni che tamponino alcuni dei problemi insoluti. Ma tutto va a rallentatore.
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Non solo è invano invocata la solidarietà degli stati europei che vanno sensibilizzati ad offrire la loro disponibilità per salvare ed integrare vite umane alla deriva, ma pure una maturazione di idee politiche, di buon senso, da applicare per combattere la solitudine dell’egoismo e della soggettiva convenienza. Forse è giusto distinguere tra rifugiati politici, cui si deve primaria assistenza per via della fuga da guerre in corso, conflitti religiosi e terrorismo, ed altri cosiddetti rifugiati economici, spinti ad emigrare solo per sfuggire alle misere condizioni della loro quotidianità, ad una terribile carestia prodotta dai cambiamenti climatici in corso. Si è pensato ad una graduatoria da stabilire tra questi sventurati per cercare d’aiutarli nel modo più conveniente, ma ci vuole tempo e lavoro che non sempre si trovano in momenti di emergenza. Intanto è sorta una polemica sul ruolo delle Ong dei naufraghi che spesso lavorano sulla realtà di chi fugge e rischia la vita a mare, tra scafisti senza scrupoli e guardie costiere che operano in modo non sempre razionale. C’è tra la guardia costiera libica e vari personaggi senza scrupoli chi si muove in un business intricato.
E’ insopportabile che il Mediterraneo si stia trasformato in una fossa comune dove espongono la loro vita al pericolo ed alla morte centinaia di persone, convinte che la loro salvezza sia nell’accoglienza dell’Europa che difende le proprie frontiere con determinazione.
La rivista Limes, affermata sul territorio italiano fin dal 1993, diretta da Lucio Caracciolo, sulla politica, l’economia e l’attualità internazionale, ha da tempo insistito su queste emergenze e più volte s’è fatta promotrice di incontri urgenti da porre sotto la lente d’ingrandimento come il dibattito sulla popolazione africana in crescita demografica molto elevata, di un miliardo e 216 milioni di abitanti ed il futuro che li attende. Perchè non aiutarli e come nel modo più conveniente?
Gaetanina Sicari Ruffo