E all’improvviso venne un angelo, a raccontarci una storia che non era la nostra, ma parlava di noi. L’angelo aveva il sorriso di Stefania Sandrelli e il film era “C’eravamo tanto amati”.
Regista, Ettore Scola. Inizia quando l’Italia è in bianco e nero, nel 1945, tra la neve dell’inverno della Liberazione. “Se il destino ci allontana, il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà”. Finisce a colori trent’anni dopo, nella prima metà degli anni Settanta. Quando per me bambino il mondo serbava tutto il suo mistero – e quando il ricordo di quei giorni del 1945 cominciava già un po’ a sbiadirsi.
Al centro di tutto, nel film, c’è Luciana. Aspirante attrice (“ho fatto qualcosina…”, dice tutta tremante a Fellini alla fontana di Trevi), bella da fare paura (donna amante mia, sorella madre amante figlia). Luciana è interpretata… Ma cosa dico mai? Non è interpretata: Luciana “è” Stefania Sandrelli. E chi dirà i torti di quel sorriso? Attorno a lei tre ragazzi che hanno vent’anni o giù di lì nel 1945 e alla fine della storia ne hanno una cinquantina e ragazzi non sono più.
Uno è Nicola che è professore di lettere a Nocera Inferiore. Professione, intellettuale “contro”. A scuola litiga con tutti e si mette a gridare: “Nocera è inferiore perché ha dato i natali a gente come voi!”. Lo fa perché difende Vittorio De Sica e “Ladri di biciclette”: film detestato da chi dice che i famosi panni sporchi si lavano in famiglia (e di questo untuoso, tiepido buon senso diventa paradigma, forse oltre i suoi torti, la figura di Giulio Andreotti). Invece Nicola pensa che i panni sporchi, a forza di mostrarseli solo in famiglia, finiscano per restare tali; se non per complicità, almeno per pigrizia e comodità. Perché la famiglia è bellissima ma a volte anche il luogo in cui si finisce per giustificare tutto, anche l’ingiustificabile. Allora Nicola parte dal suo Sud immutabile, molla la famiglia e l’altrove va a cercarselo a Roma, là dove vive il suo idolo De Sica. Nicola è la derivazione dell’intellettuale gramsciano non più organico ma dis-organico; non solo allo stesso Partito Comunista ma anche a se stesso. Perché, come dice lui, “è più avanti, è più su, è più giù, egli è irraggiungibile, egli è più oltre”. Il suo modo di essere ferocemente individualista senza dirselo, senza ammetterlo, è buttare via la propria vita. “Ma che, ma chi l’ha detto?” (sento la sua voce che mi interrompe subito) “Buttare via la propria vita significa farne il migliore degli usi. Oppure preferite quest’altra battuta, ah? Vivere come ci pare e piace costa poco, perché lo si paga con una cosa che non esiste: la felicità”.
La felicità. Può darsi che Nicola abbia ragione (anche se lui non sopporta chi gli dà ragione). Anzi senz’altro. Però nel film c’è anche Antonio. Che è un proletario destinato a restare fedele alla sua classe: lui lavora in ospedale come barelliere, anzi portantino (barelliere è già un termine un po’ chic, di chi si dà delle arie). Gli vanno sempre tutte storte. E siccome è molto meno istruito di Nicola, non sa che la felicità non esiste e quindi (diciamo per semplicità di spirito) alla fine delle fini l’unico a essere felice è proprio lui. Nemmeno il “miracolo economico”, nemmeno gli anni Sessanta (e le strade piene di luce con tanta gente che lavora con tanta gente che produce) riescono a farlo diventare un pochetto più ambizioso, un pochetto più stronzo, un pochetto più infelice.
Per Antonio, il solo riscatto possibile è collettivo, è di tutti: e la casa di tutti, per lui (e per tanti, in quel tempo) è naturalmente il Partitone; quel gran pezzo del Partito Comunista Italiano, del Piccì. La salvezza per lui passa dalla chiesa rossa, e non ha bisogno di latinorum per pensare che extra ecclesiam nulla salus, fuori dalla Chiesa non c’è salvezza. Certo, ogni tanto si incazza anche lui. “Ti credevo buono e generoso…”, gli dice Luciana quando decide di mollarlo.
“Eh, se semo stufati d’esse bboni e generosi », dice Antonio.
O quando chiede a Nicola: “L’amicizia non è al di sopra di tutto?” e Nicola gli risponde: “Niente è al di sopra di tutto. lo poi sono contrario all’amicizia: è una combutta tra pochi, una complicità antisociale”. Alla fine Antonio una domanda se la fa: “Ma sempre io devo essere compagno, voi no?”.
E nel film c’è Gianni, avvocato: borghese ma idealista. E sottolineo “ma”. Ha studiato: “egli sa tutto”, dice di lui Antonio. Sa tutto e a differenza degli altri due sa che tutto è niente. E per riempire il niente non trova di meglio che fare i soldi, tanti soldi. E li fa nel modo peggiore, arrampicandosi nel mondo dei “palazzinari” romani, quelli della grande speculazione edilizia del dopoguerra, in una famiglia di baciapile clerical-fascisti. Per farlo, sposa la figlia di un capo-branco che dei palazzinari è re.
Nicola è interpretato, anzi no, cosa dico “interpretato”? Nicola “è” Stefano Satta Flores, Antonio è Nino Manfredi e Gianni è Vittorio Gassman. Il capo-branco palazzinaro che si compra l’anima di Gianni è Aldo Fabrizi – strepitoso anzi strepitosissimo. Dice a Gianni:“Insomma, a me mi piaci, perché sei prima di tutto de cultura, poi sei incorruttibile e tosto. Io amo l’onesti, perché nell’onesti c’è quella purezza che, se je capita l’occasione, diventano tarmente mascalzoni che t’ammolleno le fregature pejo de li mascalzoni diciamo normali”. La figlia sposata da Gianni per puro interesse è la bellissima Giovanna Ralli. Un’anima semplice. Per piacere al marito, decide di mettersi a dieta: “E tu non mangi? », le dice il padre.
“ No ma; grazie, io non posso mangiare idrocarburi”.
(Luciana – l’ho già detto ma è bene ribadirlo – è Stefania Sandrelli, e chi dirà i gravi torti di quel sorriso? Lascia Antonio e si mette a fare progetti con Gianni: “sposarci, comprarci una Lambretta, fare dei bambini, ma non necessariamente in quest’ordine”).
E io non so ancora, a tanti anni di distanza, e dopo aver visto il film mille volte e poi cento, chi è l’attore e chi il personaggio, chi è l’uno e chi l’altro. Luciana la amano tutti e la amo anche io. Anche io sogno di portarla a teatro (come fa Antonio, che non è istruito e a teatro non capisce niente e si annoia: ma cosa importa, bella com’è lei?); anch’io sogno di portarla in bicicletta come fa Gianni (anche se poi finisce male, perché quando Luciana scende dalla bici, si chiude una porta che mai si riaprirà); anch’io sogno di portarla a mangiare gli spaghetti e poi a letto come fa Nicola (l’unico dei tre a non innamorarsene davvero: d’altra parte, lui è più oltre. È irraggiungibile).
I ragazzi si tradiscono: il loro modo di volersi bene.
Luciana prima esce con Antonio, poi si mette con Gianni; Gianni la lascia senza nemmeno dirglielo e alla fine Luciana si rimette con Antonio, con tanto di figli. Mentre tutto questo accade passano gli anni.
Da De Gasperi e Togliatti si passa all’Italia della Dolce vita di Fellini e poi su su: fino a un parcheggio sotto il sole, nella Roma già piena di macchine. Dove Gianni, reduce dal suicidio della moglie mai amata, con gesto padronale è sceso dal macchinone: impaziente come solo i padroni, fa segno a un automobilista imbranato perché infine smetta di intralciarlo. Antonio lo vede e lo scambia per un posteggiatore (presumibilmente abusivo). Gianni si vergogna di essere ricco. E allora dice di sì, che fa il posteggiatore. Temporaneamente, si intende.
Il film, nelle intenzioni iniziali, doveva essere solo la storia della magnifica ossessione di Nicola – il professore – per De Sica. (Invece diventerà un’altra cosa). Nicola insegue il suo De Sica – Moby Dick; per poi accorgersi che non ha nulla da dirgli. “E che gli dico?”. Forse che volevamo cambiare il mondo e invece il mondo c’ha cambiato a noi. È la battuta forse più celebre del film. Ma che bisogno c’è di dirglielo? De Sica è un uomo intelligente e le sa già, queste cose. Gianni è diventato ricchissimo e stronzissimo – e sente in sé la tristezza dell’uomo ricco, dell’uomo che ha tradito qualcosa (ma cosa, esattamente, non si sa). D’altra parte il suocero glielo aveva detto: “chi è secondo te l’essere più solo al mondo? Il povero? (…) E invece no. È il ricco, capisci?! Il ricco è più solo perché è più raro. I poveri son tanti, tutti amici, sempre assieme… ‘sti lazzaroni che nun te fanno più campa’… Come disse Nostro Signore Gesù… Egli disse: beati i poveri, che se metteranno a sede alla mia destra. Mo, se non ce fossero li ricchi che fregano li poveri, li poveri nun esisterebbero, e Gesù… quello può mica rimane’ a sede da solo… diciamo… come un povero cristo… Non so se mi spiego”.
Gianni, solo come un ricco sa essere solo, ritrova infine anche Luciana, sposata con Antonio. Lei è sempre bella da fare paura. Ma certo il tempo è passato anche sul suo volto. Anche per lei il tempo si è ritolto (disse il poeta) tutte le sue promesse: non ha fatto carriera nel teatro e nel cinema. Non ha lavorato con Fellini o Antonioni o Visconti, no no no. Lei e Antonio in sostanza si ritrovano senza una lira in tasca e fanno la coda di notte per iscrivere i figli a scuola (perché nell’Italia degli anni Settanta e del boom demografico, a scuola è difficile trovare posto). Allora Gianni le confessa una cosa. Le dice di non avere pensato che a lei, in tutto quel tempo. È convinto di essere sottoscrittore di un patto segreto, inviolabile e fortissimo, capace di resistere al tempo, al suo tradimento, alla sua fuga. A tutto. Non ho pensato che a te.
Luciana lo guarda e risponde: “Ma io no”.
Ma io no! Ma come no? Ma Luciana, certo sono passati tanti anni, è vero, c’è stata tutta questa commedia, questo inganno, questo grande trucco, certo c’è stato tutto questo, ma… “Ma io pensavo che un grande amore fosse un grande amore”, dice lui. Certo tutto è cattiveria e vergogna ma un grande amore è qualcosa al cui confronto il granito è burro, non è forse così? Sì, ma. Sì, un grande amore è un grande amore, ma. Ma i figli la scuola i soldi che non bastano mai, avrai avuto anche tu questi problemi no? Certo certo dice lui (si vergogna di confessare il contrario. Si vergogna di essere ricco). “E poi io voglio bene ad Antonio ». Ad Antonio che è un uomo semplice, rimasto barelliere (ma che barelliere? Portantino). Sempre comunista, sempre per il Piccì, anche se a forza di fare il moderato per essere accettato si ritrova a essere scavalcato a sinistra da tutti – persino dalle suore dice lui (suore di Potere Operaio, precisa con sgomento). Mentre Gianni è un uomo scafato, un furbo, un vincente, un vero adulto, capobranco, maschio alfa che ordina le sigarette a quattro stecche alla volta, esperto del mondo e delle cose, sa tutto, ha soldi e potere e impazienza, e gli resta persino un ricordo lontano della sua cultura (anche se non legge più niente, solo le riviste di automobili); insomma Gianni è tutto e Antonio niente, e come può Luciana (Luciana dico: il centro del mondo, la sola cosa per cui valga la pena vivere e morire, Luciana dico, la grande bellezza, l’amore), come può Luciana preferire Antonio? Eppure è così.
Gianni capisce allora che tutto è stato solo un grande inganno e un’illusione; la sua vita non era un artificio ridicolo che celava però un segreto profondo e meraviglioso, un patto inviolabile, un gioiello preziosissimo e inscalfibile, un tesoro di diamanti, un grande amore. No, la sua vita era sì un artificio, ma un artificio buono a celare il niente. L’ebete niente che ci innamora. Come il personaggio della fuga senza fine di Joseph Roth, Gianni è inutile ormai come nessuno al mondo. Adesso anche per lui il futuro è passato. Niente e cosi sia. “E tutto questo perché? Per un futuro diverso. Embe’? Il futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti”.
Insomma, Gianni si è sbagliato. Si è sbagliato anche Nicola; la felicità esiste, ed è quella di Antonio. Anche Antonio si è sbagliato; lui pensava, come nella canzone di Gaber, che si può essere felici solo se lo sono anche gli altri. Ma così non è, perché è bello credere di essere uguali, ma la vita si occupa di ricordarci che siamo diversi. Luciana invece è l’unica ad avere ragione: un grande amore è un grande amore, ma… Ma.
Il film si conclude come è iniziato: con Gianni che si tuffa nella piscina della sua villa. Mentre Nicola, Antonio e Luciana discutono e si allontanano. Come si allontanano da noi e da loro le parole della canzone: “Se il destino ci allontana, il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà”. Poi appare la scritta con la dedica a Vittorio De Sica e tutto finisce. Trenta anni da narrare l’uno all’altro, dalla metà degli anni Quaranta fino ai primi anni Settanta.
Ora, mentre scrivo, siamo nel 2016, e di anni ne sono trascorsi altri quaranta. Pochi giorni fa è morto Ettore Scola. L’Italia è sempre quel “paese mancato”, come nel titolo di un (bellissimo) libro di Guido Crainz, quel paese in cui il futuro è passato e noi non ce ne siamo nemmeno accorti.
Se faccio i conti, penso che Nicola Gianni e Antonio (che erano ventenni nel 1945) ormai di anni dovrebbero averne novanta e più. (Luciana no, perché lei è Stefania e Stefania è molto più giovane ed è giovane per sempre). C’eravamo tanto amati: è proprio vero, è stato proprio così. Non saprei immaginare la mia vita senza quel film.
Nicola, Gianni e Antonio non ci sono più, ma io so che il ricordo di quei giorni (quelli vissuti assieme senza saperlo) sempre uniti ci terrà. E a volte mi chiedo: chissà Luciana cosa fa. Vorrei poterle dire, un giorno, che in tutto questo tempo, in tutti questi anni, io non ho fatto altro che pensare a lei. “Ma io no”, mi risponderà.
Maurizio Puppo