Robert Badinter: un amico dell’Italia

All’età di quasi 96 anni, ci ha lasciati Robert Badinter, grande avvocato e grande umanista, noto soprattutto per aver abolito la pena di morte in Francia. Fino all’ultimo, ha agito per la difesa dei diritti umani e contro i crimini di guerra: in particolare, contribuì all’istituzione della Corte penale internazionale. La famiglia Badinter è stata segnata dalle tragedie del Novecento. All’inizio del secolo, aveva lasciato la Bessarabia – attuale Moldavia – a causa dei pogrom antisemiti (Badinter dedicherà una biografia alla nonna Idiss). Poi c’era stato l’orrore della Shoah. Nel 1943 il padre ed altri famigliari vennero arrestati e sarebbero poi morti in deportazione.

I giornali francesi hanno dato ampio risalto a questo e ad altri aspetti della sua biografia. È meno noto il profondo legame che Badinter aveva con l’Italia. Ho avuto il piacere e la fortuna di parlarne con lui in una lunga intervista, registrata il 20 ottobre 2022, che qui proverò a sintetizzare.

Il primo contatto era avvenuto durante l’occupazione italiana (novembre 1942-settembre 1943), di cui aveva paradossalmente un buon ricordo. Il giovane Badinter si era rifugiato sotto falso nome in un piccolo villaggio vicino a Chambéry, Cognin, e vi era restato fino alla Liberazione. Molti soldati italiani venivano dal Piemonte, parlavano il dialetto savoiardo e trascorrevano le giornate nei caffè di Chambéry a corteggiare le donne. I giovani liceali ammiravano gli alpini per i loro nuovissimi scarponi da sci. I pattugliamenti non avevano nulla a che vedere con quelli che Badinter aveva visto nella Parigi occupata dai nazisti: “Gli italiani giravano con i fucili abbassati, e sembrava che andassero a passeggio”. Ricordava una gita in bicicletta sul lago del Bourget, vicino a un piccolo aeroporto. La sentinella italiana che ne sorvegliava l’ingresso si era appisolata – cosa inaudita in tempo di guerra. I ragazzi locali, incoraggiati dai soldati italiani, si attaccavano ai camion militari. “Si immagina una scena del genere con i camion della Wehrmacht? Li avrebbero abbattuti subito a colpi di pistola”.
Per chiudere questo capitolo, sottolineò la non-cooperazione delle autorità italiane nella consegna degli ebrei stranieri: “Nei documenti che ho studiato per il mio libro su René Bousquet [segretario generale della polizia a Vichy], ho trovato molte lettere in cui si lamenta con i tedeschi che gli italiani non li aiutavano assolutamente a catturare gli stranieri, in particolare ebrei”. Poi c’era stata l’orribile esperienza della Repubblica di Salò: “Da quanto ho appreso in seguito dai racconti dei miei amici, in Italia del nord il fascismo aveva mostrato il suo volto peggiore.”

Badinter scoprì di persona il Belpaese nell’immediato dopoguerra. “Per i giovani francesi, era come un rito iniziatico. Si andava in Inghilterra per studiare l’inglese e in Italia pour le plaisir”. Si trattava spesso del primo viaggio all’estero, in treni scomodi, ma che costavano poco. “Si partiva con gli amici a Roma, a Firenze, a Venezia, visitavamo i musei e correvamo dietro alle ragazze. I giovani italiani facevano la stessa cosa in Francia. Pensi al numero di matrimoni franco-italiani…” Era l’Italia del cinema neorealista, con cui il giovane studente di legge avrebbe avuto presto dei contatti.

Durante il suo apprendistato nello studio di un famoso penalista, Henry Torrès, Badinter era spesso senza lavoro. “Quando un criminale rischia la ghigliottina, non si rivolge certo a un giovane di 24 anni. In questo periodo, non ho mai pronunciato un’arringa. Oggi sono noto come penalista, ma in realtà ero uno specialista di diritto internazionale.” Accettò così di occuparsi di un procedimento di diritti d’autore, che lo porta al tribunale di Roma. “Ero del tutto libero, e me ne sono occupato giorno e notte. Bisognava saper parlare inglese, io ero praticamente bilingue, essendo appena tornato da Columbia.” Si fece notare da un principe del foro romano, Ercole Graziadei, il quale gli propose di occuparsi di un suo cliente, che aveva lasciato gli Stati Uniti a causa della “caccia alle streghe” del maccartismo: un certo… Charlie Chaplin! Charlot vinse il processo, e la fama di Badinter crebbe.

Diventò così l’avvocato dei maggiori registi italiani dell’epoca. “Sono diventato amico di Rossellini e di De Sica. Visconti era più altezzoso. Guardava i romani con un certo disprezzo. Sapeva di essere Visconti.” De Sica gli raccontò la triste vicenda di suo nipote, arruolato nell’esercito italiano, che si trovava a Chambéry l’8 settembre 1943. “I tedeschi sono arrivati all’alba, hanno circondato gli Alpini e hanno dato un’ora per scegliere se continuare la guerra con loro, o essere fatti prigionieri. Il nipote di De Sica aveva studiato al conservatorio, e gli interessava una sola cosa nella vita: la musica. Si disse che in un campo di prigionia non avrebbe potuto suonare. Scelse così di seguire i tedeschi, e fu inviato nei Carpazi. Ferito in battaglia, fu ricoverato a Vienna. Arrivarono i russi. Per loro, era un italiano in uniforme tedesca, quindi un traditore: è stato fucilato nel cortile. Era un giovane che amava solo la musica, che se ne fregava del fascismo e della guerra ! La storia di questo ragazzo è una tragedia europea, e meriterebbe un film o un dramma teatrale”.

Per Badinter, il periodo trascorso nell’Italia della “Dolce vita” fu il più bello della sua esistenza. L’immagine del Paese era poi cambiata negli anni Settanta. Pronunciò parole molto dure contro i terroristi italiani: “Ho orrore di coloro che si autoproclamano profeti e si arrogano il diritto di vita e di morte in nome di un’ideologia. Quando Aldo Moro fu ucciso, scrissi un articolo molto violento contro le Brigate Rosse. Non si può lottare contro la pena di morte, ed ammettere che ci si erga a giudici e a boia, in nome di una missione che sarebbe stata affidata dal proletariato. Si può capire il terrorismo in un regime dittatoriale. Ma in una democrazia come l’Italia del dopoguerra, in cui c’erano libertà di espressione e di manifestazione, il terrorismo era del tutto inammissibile”.

Nel 1981, Badinter diventò ministro della Giustizia. Oltre alla pena di morte, fece abolire il crimine di omosessualità e cercò di migliorare la condizione dei carcerati. Come spiega nel libro Les épines et les roses, si pose la questione degli indipendentisti corsi e bretoni. Per limitare le incarcerazioni, vennero depenalizzati i fatti meno gravi e si riservò la prigione ai condannati per crimini di sangue. La stessa logica fu applicata anche ai latitanti italiani degli anni di piombo. Nacque così la “Dottrina Mitterrand”, di cui Badinter si considerava l’inventore, che ha creato infiniti attriti nelle relazioni franco-italiane. Non tanto per la sua esistenza, ma perché non fu praticamente mai applicata. Mi spinsi a chiedergli perché una brigatista come Marina Petrella, condannata in via definitiva per la strage di via Fani, non fosse stata consegnata alle autorità italiane. Mi rispose che negli anni in cui era Guardasigilli (1981-86), non si era mai occupato del suo caso.

Terminammo l’intervista, parlando dell’attualità italiana. Poi ci salutammo, e diedi un’ultima occhiata allo splendido panorama che si vedeva dal suo appartamento, sui Jardins du Luxembourg. Restammo in contatto epistolare. Poche settimane fa, mi aveva inviato un’ultima lettera di auguri.

* * *

Quando arrivai in Francia, nei primi anni Novanta, si diceva che Mitterrand avesse “un avocat pour le droit, un pour le tordu” (battuta intraducibile). Il primo era Robert Badinter, il secondo Roland Dumas. Badinter era un uomo di principi, che esercitava una forte impressione su tutti i suoi interlocutori. Nell’Omaggio nazionale tenutosi in place Vendôme il 14 febbraio, il presidente Macron ha annunciato quale sarà la futura destinazione dell’uomo che abolì la pena di morte: il Pantheon.

Alessandro Giacone

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Alessandro Giacone
Alessandro Giacone habite à Paris depuis 1990. Il est "Professore associato di Storia" à l'Université de Bologne et vice-président de l’association Italiques.

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