I corpi offesi di Rita Pacilio in “Missione Poesia”. Una trilogia poetica sull’inquietante e doloroso camino tra i temi dell’emarginazione. Un racconto documentato di voci e incontri drammaticamente offerto in anticamere di paura e violenza nelle varie opportunità che offre la poesia. Paura e poesia, angoscia e poesia, dolore e poesia, amore solo amore offre il poeta e “pietas”: “pietas” e poesia.
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Rita Pacilio (1963) è nata a Benevento. Sociologo, Mediatore familiare e dei conflitti interpersonali, collaboratore editoriale si occupa di Orientamento, Bilancio delle Competenze, di critica letteraria e di vocal jazz. Ha pubblicato i seguenti volumi di poesia: “Luna, stelle…e altri pezzi di cielo”- Edizioni Scientifiche Italiane (anno 2003); “Tu che mi nutri di Amore Immenso” – Nicola Calabria Editore (anno 2005); “Nessuno sa che l’urlo arriva al mare” – Nicola Calabria Editore (anno 2005); “Ciliegio Forestiero” – Lietocolle (anno 2006); “Tra sbarre di tulipani” – Lietocolle (anno 2008) – “Alle lumache di aprile” – Lietocolle (anno 2010)- ‘Di ala in ala’ (Pacilio/Moica in dialogo poetico) – LietoColle (anno 2011) – “Non camminare scalzo” – Edilet Edilazio Letteraria 2011 – “Gli imperfetti sono gente bizzarra” La Vita Felice 2012 – “Il cigno del lago” Pulcino Elefante di A. Casiraghi 8 aprile 2013 – “Quel grido raggrumato” La Vita Felice 2014 Autrice, performer e cantante jazz nel 2006 presenta al grande pubblico il progetto Jazz in versi: Contaminazione di poesia e musica jazz. Discografia: “Infedele” Splasc(h) Records. Collabora con riviste/blog di letteratura e poesia.
Conosco Rita Pacilio da qualche tempo. Una di quelle frequentazioni virtuali, su Facebook, dove nascono e si sviluppano, con buona pace di tutti, non sempre, ma sempre più spesso, legami indissolubili nati dalla condivisione di interessi comuni, e da affinità di pensiero e visioni sul mondo che contribuiscono a creare relazioni emotivamente forti, specie se a inventarle sono – questa è almeno la mia sensazione – donne intelligenti e creative, col desiderio di confrontarsi su tematiche sociali attuali, specie su tematiche di genere, e su valori sempre più difficili da mantenere.
Ebbene Rita mi ha colpito subito per la grande versatilità creativa, e per la carica emozionale e trascinante che traspare da tutte le situazioni che, in qualche modo, la vedono partecipe. Premetto che non ho mai assistito personalmente, de visu, a un incontro che la vedesse protagonista ma che, seguendola nel suo percorso, appunto, “virtualmente” ho da subito capito che si trattava di un’anima poetica eccezionale, nonché di una figura su cui riflettere.
Mi piacciono le persone comunicative – forse perché io stessa lo sono – che non si nascondono dietro false modestie intellettualistiche – che tanto si capisce subito che sono solo pose – e che hanno voglia di mettersi in gioco, specie nel difficilissimo campo della poesia. A maggior ragione mi piacciono se sono donne. Perché la poesia, diciamolo una volta per tutte, è uno di quei campi ancora a predominio prevalentemente maschile. E’ una dimensione di potere a cui si attaccano, purtroppo, tanti stereotipi ancorati all’universo culturale che sarebbe quello del predominio intellettuale maschile. Basta vedere i tanti incontri di poesia quotidiani con i così detti “nomi altisonanti”, (dove di rado incontrerete nomi di poetesse, e sempre in numero minore rispetto ai nomi maschili) e basta pensare allo stereotipo, ancora più evidente, che vuole le poetesse tutte morte suicide per le loro fragilità umane. Donna dunque come esempio di fragilità, debolezza, leggerezza… versificare? Sì le è concesso ma senza allargarsi troppo, senza invadere ruoli e spazi prestabiliti. I grandi nomi come la Szymborska? (ne cito uno a caso) … eccezioni. Non è così. Non è affatto così. In questa rubrica, povera voce forse nell’universo delle parole del web, ma tenace e determinata, il lettore si sarà forse stupito di aver incontrato per la maggioranza voci femminili. Voci di poetesse bravissime, forse neanche note a tutti gli addetti ai lavori (come mi è capitato di verificare) che costituiscono lo strato basilare della poesia italiana oggi. Una di queste voci è senz’altro Rita Pacilio. Il suo curriculum parla chiaro. Inserita nel mondo e nelle problematiche sociali fino al midollo, per i suoi tanti ruoli lavorativi e artistici, Rita è un’autrice esemplare che non sfugge davanti alla realtà drammatica che la circonda ma la racconta, dandole forza visionaria e rappresentativa, cercando di rendercela ben presente, di non scordarla attraverso quella parola poetica di cui è profonda conoscitrice e capace portavoce. La violenza, spesso spiazzante, delle immagini che si riflettono nei suoi versi porta il lettore a volte – è successo anche a me – a chiudere le pagine del libro. A dire: basta, non ce la faccio, non posso più leggere. E’ proprio lì che si insinua l’energia narrativa e oltremodo drammaturgica della Pacilio. Lì in quella finestra semidistrutta sui brandelli delle certezze che si traducono in coriandoli, lì in quei corpi che sono ormai solo sangue, in quei pensieri che sono solo fuoco sbattuto dal vento e miserabile aria che soffoca, lì sta il cuore e lo strazio del poeta che non può che raccontare, testimoniare, dare voce alla sofferenza e al macello del mondo. Quanto avrà sofferto la poetessa Pacilio per vomitare versi di lava, quanto avrà visto e sentito soffrire la donna Pacilio per decidersi a condividere con il lettore il peso di tanto dolore. Possiamo solo immaginarlo. Possiamo solo condividerlo e riprovare ad aprire le pagine del libro e andare avanti, nel buio sempre più fitto di atrocità che si fanno padrone di identità comuni.
La trilogia che vi presento è l’ultima fatica letteraria dell’autrice. Si potrebbe definire un reportage dall’Inferno. Un racconto documentato di voci e incontri drammaticamente offerto in anticamere, dove i graffi della paura spaccano le carni, e sciolgono in desinenze escatologiche i nervi del rimanere impotenti di fronte a tanto male. Paura e poesia, angoscia e poesia, dolore e poesia, amore solo amore offre il poeta, e pietas: pietas e poesia.
Ma andiamo con ordine.
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Il primo libro, che esce per la casa editrice Edilet è del 2011, e porta il titolo: “Non camminare scalzo”. La prefazione è di Raffaele Utzeri, la nota critica finale è di Giorgio Linguaglossa. Il libro porta un’introduzione dell’autrice che è già una dichiarazione di poetica. Dice la Pacilio: « Lo sguardo è centralizzato sullo spazio interno del proprio vissuto e la dimensione parola poetica permette di esprimere il senso di alcuni momenti della vita come esigenza di mettere a fuoco meccanismi interlocutori, seppur intimistici, per portare a nuove vie di unione concrete e sociali. L’altro diventa l’allarme di una comunicazione difficile con se stessi o che non avviene più[…]»
E’ certo lo spazio della comunicazione narrativa che cerca l’autrice per rendere conto di una comunanza di sentimenti, di un’empatia che l’ha portata a riflettere sul destino di una donna e madre che, in punto di morte, parla ai propri figli mettendoli a conoscenza di fatti che la riguardano, confessando sofferenze nascoste fino a quel momento, disagi e inadeguatezze, forse abusi familiari per i quali ha creduto fosse utile il rifugiarsi nel silenzio. Ma la morte, che avvicina alla propria coscienza e rende consapevoli della necessità di riconoscersi prima di lasciare il mondo terreno, funge da corda lanciata verso la liberazione dal male, da uscita di sicurezza, per dirla con Silone.
Nella prefazione, giustamente, Utzeri dice che l’intento dell’autrice si riassume nella descrizione del lascito morale della madre verso la figlia, che diventa una proposta di condivisione della sofferenza personale con quella propria della condizione umana, con particolare riferimento all’esperienza nata dalla conoscenza di figure, individuate nelle carceri femminili, oggetto delle più disparate forme di violenze fisiche e morali. Ma dice anche, ripercorrendo quanto già presentato dalla Pacilio nella sua introduzione, di quanto l’autrice stessa sia stata capace di entrare in sintonia con la protagonista del suo libro, di quanto sia diventato necessario ed evidente il gesto di sublimazione dei sentimenti destati dalla percorrenza e interiorizzazione di un simile incontro – reale o immaginario che sia -. La nota che mi sento di sottolineare, in consonanza ulteriore con il prefatore, e che è già emersa all’inizio del mio articolo, è la particolare mano stilistica che usa la scrittrice nel raccontare certi episodi, mano che suscita – a volte – un forte senso di nausea e quasi il rifiuto di continuare a leggere tanta è l’insistenza sui particolari corporei, sull’uso violento della sessualità che rasenta, a volte scavalca, la pornografia stessa. Certo la lingua è sapientemente usata, la formula scelta è quella della descrizione cruda dei fatti, spiegabili forse psicologicamente anche se – in apparenza, dico solo in apparenza – non giudicati o interpretati, e assolutamente teatralizzabili anche per l’alternarsi di momenti di prosa a momenti di poesia che rendono il testo fruibilissimo anche ad una platea da palcoscenico.
Resta da chiedersi forse, ma il discorso verrà maggiormente sviluppato nei libri successivi che esamineremo, quale sia il grado di dolore proposto dall’autrice nello scarto tra la sofferenza delle vittime e quella dei carnefici. Mi sento di dire, forse allontanandomi dall’interpretazione del prefatore, che qui i carnefici sono coloro che hanno adottato una forza tale di distruzione umana che li rende davvero privi di qualsiasi possibilità di compassione. Nel loro allucinatorio mondo il grido di vendetta perenne, che esce dalla violenza dei loro gesti, non trova giustificazione, a mio avviso, neanche volendo additare a responsabile il disagio sociale troppo spesso richiamato come primo artefice del male. Ritrovo solo una volontà di farlo quel male, di ergersi volontariamente sopra le parti a giudici e propugnatori di punizioni, a malnati boia, potrei aggiungere, ingaggiati da un male che è solo il proprio.
Propongo qui qualche passaggio del libro:
Non camminare scalzo a quest’ora. Inutilmente i gesti rallentati ci avvolgono. Continuano a muoversi le ombre dei lampioni e imprudenti fanno a gara le lucciole fuori di noi. Se senti allungare una mano dal cuscino fino al marciapiede non ti voltare a prenderne le dita. I rintocchi della luna si risolvono in qualche spicciolo richiamo. Un cane non fa a meno di abbaiare:
mi sono chiesta mille volte
cosa ha da dire un cane alle campane
della Chiesa, quando scende la notte.
Ogni tanto arriva un pensiero
dal balcone aperto del palazzo
che vedo dai miei vetri, per il resto
tutto rimane taciturno e sospeso.
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(Non camminare scalzo sulle spinte dell’amore che mi riempiva la mente come sta facendo adesso). Non fare rumore e toccati per me, ancora, come hai fatto fino a ieri, tu che non sai che non mi vedrai più.
Con l’ansia che mi ripeti ‘sei mia’
la campana delle sei del mattino
è la tua aria nel mio vuoto
lascio sulla sedia la mia sciarpa
L’immagine del tuo svanire:
adesso che sono disarmata
porto al collo solo la croce
è l’infermità che mi fa cellula
di certe identità folli
ed io sono la madre dell’infanzia
la moglie e l’amante e poi la figlia,
rosa mi chiamano ma nasco spina
non so dirti l’attesa senza fondo,
è livida la mia profondità.
Chi sa pregare per me?
Non so più intrecciare le mie mani
Non mettermi al suo posto adesso
io sono la vittoria di stasera
nell’immagine del suo svanire
tu sei l’eternità che dura poco.
*****
E di te nemmeno quelle parole scritte per paura di perdermi resteranno, come la sabbia dell’acqua nuova che arriva sempre mai ritorna. Mi avessi amato mi avessi detto: “resta con me ora che sto morendo!” Mi hai scaraventata da te senza remare. Ed io ti chino il capo il capo, spengo il telefono. Piovo sul cuscino la mia acqua amara. Aspetto con le mani nei capelli e lo sguardo nel cellulare. Vorrei squillasse o si accendesse. Quando tra dieci giorni vorrai sentire la mia voce sarà troppo tardi per dirti che io sono morta. Prima di te, oggi: due volte.
Se benedici mi ti poso l’alba
nascondimi al suo fianco muta
tu lo sai che t’amo?
mi stavo uccidendo a colori
Per me mutando il mio aspetto,
germogli confessati gli occhi verdi.
Vieni a dormire sul mio petto
senza l’anello ti sono fedele:
se ad occhi chiusi sono io lei
lascia sul cuscino tutti i silenzi
e scriverò ogni parola perduta
per dire come un’eco vedova,
chissà se porto tutto nella tomba.
sei passione che schianta le voci
come uno spostamento d’aria.
La senti l’eco laggiù nel burrone?
Ninna nanna, figlio mio, stanotte.
Io quando soffro muoio tutta intera
ed ogni volta non te lo ricordi,
accade che ti accorgi che esisto
quando non respiro
io sono eternità che dura poco.
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Il secondo libro dal titolo “Gli imperfetti sono gente bizzarra” è uscito per La vita felice nel 2012 e porta la prefazione di Davide Rondoni.
In questo lavoro attraverso un uso più costante di simbolismi e metafore – abituali strumenti di retorica della poesia – la Pacilio abbandona la crudezza delle immagini per addentrarsi attraverso una liricità, non meno espressiva di forma e consistenza di contenuti, nel racconto iniziato con la prima pubblicazione. Il corto circuito della verticalità, che eleva la poesia a narrazione di una frequentazione del “luogo sociale” dell’anima, è stanziato in questo percorso fuori dal coro che non giudica ma non assolve, non rinnega ma non costruisce, dandolo come dato già certo, il valore etico che deve essere proprio dell’aedo–poeta.
E’ la poesia l’unica arma che sembra poter difendere il visto, il vissuto, il subìto, e non l’indicibile ma il dicibile che trova fratellanza in quest’unica, umile forma. Condivido, a questo proposito, il passaggio del discorso di Rondoni quando dice: “[…] Solo una poesia che ha gli occhi spietati perché veramente pietosi d’una sorella vede che «sbavano meduse sul mento», e vede che certe pene sono più pesanti d’altre perché vi si mostra più chiaro e vicino «il morbo che cresce nell’addio». Uno sguardo che non fa sconto a nulla, né dall’alto né dal basso. […]”
Non c’è paura di esporsi troppo, nel dettato dell’autrice, non ci sono reminiscenze d’altri nella dimensione sua poetica. Piuttosto unicità di un canto e assonanze, queste sì, con pagine che solo inspiegabilmente vengono a galla nel non rimosso bagaglio di letture che ci portiamo dietro, come un’appendice necessaria. Dal mio bagaglio ecco così che salta fuori una pagina della Malombra di Fogazzaro, figura ambigua e folle che vive la sua vita in un alternarsi di chiaroscuri entrando a far parte di quella schiera di imperfetti, di gente bizzarra che nell’impossibilità di trovare spazi reali ne tesse altri, finendo per rimanervi invischiata. Marina di Malombra perde, come molte delle figure descritte del libro di poesie in questione, la propria identità, la confonde con un’altra, compie gesti inconsulti di violenza omicida, si uccide lei stessa annegando nel lago che è stato lo specchio di tutta la sua delirante vicenda. Il libro di Rita Pacilio inizia con la visione di un lago, quello di Nemi che si increspa […] in un gesto di doloroso silenzio quasi partecipe delle vicende dei protagonisti, delle loro paure. Marina dice, sul finale del libro: « […] Musica![…] quella che vuoi lago mio! […] fuori di noi non c’è musica, non c’è che un vento. Le corde sono dentro di noi e suonano secondo il tempo che vi fa […] da me ci fa nuvolo, un tempo triste. […] non è una malattia la tristezza? Non abbassa la fiamma della vita?». Ed è in quella tristezza che sta tutto il dolore che la tormenta, un dolore di fine secolo, fatto di vuoti interiori, d’inconscio che affiora – per la prima volta in un romanzo – e che diverrà oggetto della, di lì a poco, nascente psicanalisi freudiana. Archetipo di malattie dell’anima Malombra dunque è riconoscibile in molti dei protagonisti, specie al femminile, delle storia della Pacilio che, incoscientemente, varcano le soglie dell’abisso interiore, spesso fino a un punto di non ritorno. Strano modo, ma efficace, quello della poesia che si fa padrona anche dell’inconscio pur di raccontare la verità.
Qualche testo dal libro:
Si increspa il lago di Nemi
in un gesto di doloroso silenzio
a vederlo mordere nuvole
l’affanno arriverebbe in cima.
Salgono visitatori
in una strada scoperta riaffiorano
in mezzo alle piante
ragazze di colore nude a metà
pascolano paure
e cosce raggelate. E fisano
l’inquieta luce della sera
come fosse un contatto.
Chiedo perdono al mondo/come lo chiedo a te/per il mio peregrinare stanco/per l’urlo muto/per la corsa che mi affanna e dice./il destino è un cerchio senza fine.
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Sputa i suoi drammi
coi colpi di tosse
per gioco, per amore
scorie sottili nelle mani esibite
è latente lo scontento sulle spalle.
Gli imperfetti sono gente bizzarra
lasciati nell’arena, non so dire esattamente,
come un silenzio, un ghigno.
Ho pensato che Dio ama l’insicurezza
e le sfumature dei dirupi.
Io mi trovo qui dove non si torna indietro.
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E’ un morso prudente l’oscurità
un disegno fatto di assenze.
Si denuda l’incavo della spalla
svuotato dalla mano
come un gheriglio
una lumaca.
Amore mio io sono questa:
la bellezza del circo,
la colpa di aver gridato
nel tuo gambo mendicante.
O forse
l’inquieto participio
e l’ora scandita del risveglio.
Non capirò mai niente del nome della sera
dei lampioni spogliati come donne
e di te che ti sfaldi sul muro di casa.
*****
Nessuno può partorire dal suo grembo
nemmeno io che ho labbra
senza alito.
Sento sull’orma dei piedi
a spirale
una sola fede diventare burrasca.
Le cose distanti
assenti al nodo delle braccia
si lasciano alla corrente dei venti
come si fa con la vela in mare.
Dimmi
questo spartiacque diradato
è il mio passo breve?
Oggi lo separa una grata da Venere
c’è un buco in quella mano
fossa per leoni e spade cadute come glicini.
*****
Come se mettesse le mani a falciare
aprendo fenditure senza alcun pentimento
veloce di lepre sulla scapola erosa
resti figlio
destinato alla nascita morso dell’animale carnivoro.
Si fa di fuoco l’occhio quando arde
le lacrime punite dalla rabbia
un anatema predetto
che riconosco in modo verticale
accedere sull’unico pezzo di muscolo
ibernato
che ritorna a finire come la prima volta.
Si addensano, sul loro viso, tutte le preoccupazioni del mondo. Nel dubbio serrano le palpebre per ritrovare la notte, per non perderla.
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L’ultimo libro della trilogia dal titolo “Quel grido raggrumato” è appena uscito, a gennaio 2014, ancora edito da “La vita felice”. Nella nota di copertina l’editore spiega che la raccolta “[…] chiude [appunto] la trilogia [dell’autrice] sull’inquietante e doloroso cammino attraverso i temi dell’emarginazione. Il volume si presenta come un manuale del sopruso, contro chi ambisce variamente manovrare il corpo delle donne e dei fanciulli. [denunciando colui che] la suddetta opera scellerata compie per piacere, lucro, lavoro, biologia, vendita carnale. […]”
Verrebbe da dire: altro libro, altra forma se pure per temi piuttosto conniventi e consonati, per questa nuova fatica poetica della Pacilio.
Questa volta infatti l’autrice sceglie per alcuni testi, i primi direi essenzialmente, la prosa poetica. Tre quartine lunghe nelle pagine, versi dal movimento lento e circolare, con una musicalità interna a tenerne su sapientemente il contenuto. La forma con cui si sceglie di scrivere è importante, non è mai un elemento secondario. Così la Pacilio, inserendosi nella migliore tradizione poetica, sperimentando dopo una prosa durissima mista a versi espliciti che quasi la superavano nelle immagini, dopo una poesia metaforica dal lirico simbolismo, stupisce con una terza forma, quella della prosa poetica in un assoluto continuum discorsivo con il lettore, che non resta mai deluso nelle aspettative create da questa autrice. Ma non è tutto.
A tratti, come a segnare la necessità di riappropriarsi della forma originaria, ecco ritorna la poesia, la versificazione più netta, l’andare a capo a segnare, a scandire l’affanno dei giochi, i sensi in subbuglio, il vertiginoso contorcersi delle vittime, l’ansimare animale dei carnefici. E’ il male che sconfigge ogni bene. Avresti pensato di aver già letto tutto il possibile, nei primi due libri, che non ci fosse altro modo di addentrarsi nel buio. Era un errore. Adesso tutto si fa più chiaro – più scuro – il dolore negli occhi e nei corpi devastati, martirizzati, torturati, infibulati, stuprati si fa tuo. Lo senti dentro di te. Non puoi farci nulla, ti prende. Avresti voglia di gridare: basta, è troppa l’immedesimazione che conduce a condividere l’indicibile. Grande compito quello che si è dato Rita Pacilio. Sarà amata e odiata al tempo stesso per aver troppo dato della sofferenza degli altri, e certo anche della sua, a chi si è addentrato in questa lettura. Qui si fatica davvero a riaprire il libro. Eppure lo si fa. Non c’è pagina che non ti infligga un coltello nella piaga ma il cammino va fatto tutto, fino in fondo. E’ solo in quel grido coagulato, fermo, raggrumato che la poesia si esprime, trova ragione e scopo del suo manifestarsi, riempiendo quelle lacune che il semplice racconto storiografico o cronicistico non può bastare a colmare. Ci vuole tutto il grido della parola poetica per provare a denunciare, questa volta sì, con un giudizio unanime di condanna chi compie tali nefandezze. Perché, alla fine, non è possibile non essere d’accordo con Simone Weil quando dice che: “C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro.” E allora, per chi si aspetta il bene, se ognuno di noi si aspetta il bene naturalmente, come valore insito nella condizione umana stessa, non può che essere doppiamente atroce subire il male. E questo non è possibile, no davvero, non condannare.
Ecco allora, per concludere, qualche testo:
Ci sono sentieri che nascondono l’inganno dei lastroni
e le mani dei padroni sono daghe, punte venute dall’est.
Inganna la zeppa nera, si abbevera alla macchia riccia di sole
scruta l’iride abbassata il sonno del cliente, antico padre.
Sono parole sacre le voci dei bambini, tiepide le fronti
eppure i glutei hanno croste, boomerang colpiti nel segno
fino ai fianchi pulsano inverni consumati domani
intorpidite le rupi si muovono come nembi folli le bufere.
Non si aprono fenditure ma canaloni indecifrabili
un lappare lento, immaturo
che giunge all’agitazione tra le natiche della bestia
nel luogo livido di pianura chiuso in quel grido raggrumato.
*****
L’hanno tenuta in due come un foglio, un lenzuolo
i polsi e le caviglie erano in una forma che si stira
un mandarino intero riempiva la bocca e la gola
nel chiarore del vicolo divaricato fra le trombe d’aria
il suo esame di idoneità, la preparazione al primo
cliente la rendeva frutto acerbo del cactus
desiderato dalla censura di chi si apre i pantaloni
e spinge guardandosi intorno che si coperto
dalla colpa che non si fermerà nella frusta dei reni
ma sintonizza il morso e il liquido che cola
dalle due bocche aperte lungo una linea comune
in quel triangolo nero da cui escono periferie e disordine.
*****
La città di mare si sgrana sonora
Emerge dalla sabia minuscola
non ha il sapore rancido dei morti
portati a galla con le palpebre
chinate al bimbo stretto al collo.
L’amore è così, una resistenza
scampata in modo sconosciuto nell’ora
in cui si fanno i giuramenti intatti
da cui nasciamo ubriachi nel tormento
già allargati dietro agli occhi
appianati, sgranati, rochi, dalla pancia
piena di grandi sassi e assenze
distesi come una fine.
*****
Si chiude in un palmo sbranato
l’affanno struggente, stagione meridiana
di vendetta, nel mestolo rigonfio di pane
di pietra e acqua. Baci indifferenti
trascinano unghie dall’oriente vicino
nel viaggio, nel congedo che cancella
e verifica mille miglia perseguitate
dai vincoli paterni, il viaggio
del silenzio interminabile di quadrivi
senza affetto dove si spengono fughe sventurate.
I muggiti e i pianti dei bambini si mescolano
ai labirinti esuli, pallidi e la maledizione
fa il resto nel sangue verde di lucertola
ferita sul marciapiede.
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Cinzia Demi
Rita Pacilio: una trilogia tra pietas e poesia
Ringrazio, anche qui, la cara Cinzia Demi che ha saputo penetrare, con maestria e professionalità, il mio lavoro poetico che parla di geografie, antropologie, storie, con una visione non solo poetica, ma sociologica e antropologica di culture, mentalità, religioni che mettono la sensibilità di chi osserva e di chi legge con le spalle al muro quando si trova di fronte a una fisicità violata. Il reale é penetrato e vissuto con la metafora del corpo e attraverso il suo utilizzo improprio si sezionano emozioni e imperfezioni sociostoricoculturali. Le società spesso sono malate ed emarginano. Eticamente preferiscono prevaricare e usare il corpo per il piacere personale, per venderlo, per scommettere che il gioco della religione e delle parti é sostenibile, sempre possibile, praticabile.
Il discorso é, quindi, sociologico e ancestrale. Il corpo é utilizzato come l’espediente per denunciare la solitudine sociale, il dolore, l’emarginazione, la discriminazione, il sopruso, la prevaricazione, la diversità. Utilizzo la mia poesia come impegno per il rispetto della persona contro tutte le forme di violenza.
Un grazie anche a chi mi ha letta e a chi mi leggerà.
A prestissimo.
Rita Pacilio