25 Aprile. Quest’anno per la Festa della Liberazione Altritaliani pubblica con piacere una riflessione di Ennio Cirnigliaro, storico e archeologo genovese, sul senso della Resistenza, in particolare per chi ha avuto 20 anni durante la Seconda Guerra Mondiale, seguita da un suo racconto di fantasia intitolato “Primavera partigiana”.
I pensieri, le suggestioni, le idee, sono dedicate proprio a quella indimenticabile generazione che ha lottato contro la dittatura fascista trovandosi obbligata ad imparare in fretta, e pagando un prezzo carissimo, l’alfabeto della democrazia.
Una generazione che, insieme ad altre, ha dato un contributo fondamentale affinché l’Italia ritrovasse la libertà e divenisse, per la prima volta nella sua storia, un Paese nel quale le grandi masse, da sempre escluse dalla partecipazione, fossero protagoniste del proprio destino. In questo senso, possiamo dire che proprio la Resistenza, ideale continuazione di quel Risorgimento che nel 1861 aveva portato ad unire il Paese, sancisce la definitiva entrata dell’ Italia nella contemporaneità: se il Risorgimento aveva rivelato tutti i suoi limiti di classe, culturali e di modello politico ( nonostante le lotte della sua componente repubblicana, ne uscì una monarchia), la Resistenza, vedendo nel protagonismo delle già citate masse popolari la sua cifra, colmò quel vuoto, elemento che, non a caso, porterà alla successiva trasformazione istituzionale dello Stato da monarchico a repubblicano, inverando di fatto i sogni dei Cattaneo, dei Mazzini, dei Garibaldi e di tante e tanti. Se il fascismo, come disse Gobetti, giovane martire assassinato a 25 anni, fu l’autobiografia della nazione, la Resistenza ne fu, dunque, il riscatto entro un clima che vide unirsi, per la prima e purtroppo l’ultima volta, tutte le forze democratiche di diversa ispirazione, da quelle comuniste e socialiste, egemoni soprattutto fra le masse lavoratrici, al cattolicesimo democratico al liberalismo ed al repubblicanesimo, cui si affiancarono persino le forze monarchiche vicine a Badoglio e – elemento spesso dimenticato- i gruppi libertari, attivi soprattutto fra Liguria e Toscana. Un’entità, dunque, composita ma il cui nocciolo duro, che darà vita ai comitati di liberazione nazionale, sarà alla base della Costituzione, propriamente figlia delle culture marxista, liberale, cattolica e laico-repubblicana.
È, naturalmente, difficile, se non impossibile, sintetizzare tutto ciò in poche righe, ma, in estrema sintesi, vogliamo ribadire un elemento talvolta negletto:
la Resistenza non fu soltanto un fatto militare. Essa fu, soprattutto per la generazione di giovani nata fra gli anni Dieci e gli anni Venti del Novecento ed “educata” alla scuola fascista del “libro e moschetto”, un fatto etico, morale, persino esistenziale: per quella gioventù, abituata all’autarchia economica e culturale, la scoperta del mondo furono i dischi jazz, i cui titoli erano sovente tradotti in italiano per non incappare nelle censure ( “Saint Louis Blues”, ad esempio, era diventato “Tristezze di San Luigi”), gli autori americani, il grande cinema, la cultura francese, ancor prima delle suggestioni “politiche” stricto sensu. Era, dunque, un antifascismo che si nutriva di quella voglia quasi istintuale di evasione da un Paese sempre sospeso fra la caserma ed il perenne ed amorale conservatorismo becero e familista, lo stesso che viene messo in scena magistralmente nel film “Una giornata particolare”.
Per quella gioventù, fatta di lavoratrici e lavoratori, di studenti e studentesse, intellettuali inquiete e inquieti, dunque, il processo di maturazione democratica coincise anche col processo di maturazione individuale. Incontreranno in seguito i grandi maestri e le grandi maestre, quelle e quelli delle generazioni precedenti; della Spagna, della lotta clandestina lunga vent’anni, del confino, del carcere: i Vittorio Foa, le Teresa Noce, i Giuseppe Di Vittorio, gli Ilio Barontini, le Camilla Ravera, solo per citare qualche nome. Grazie a loro, la maturazione esistenziale si farà coscienza politica, nata sovente nelle interminabili veglie in montagna, mentre la fiamma riscalda i volti stanchi dopo la giornata di lotta, come lassù a Cichero, sull’ Appenino ligure, dove nacquero le prime formazioni partigiane del Genovesato, come raccontava il poco più che ventenne Gambattista Lazagna, comandante Carlo, nel suo capolavoro, “Ponte rotto”, prefato da Umberto Terracini, o nascosti in qualche stanza d’albergo o in qualche scantinato in città, a Torino, a Milano, a Firenze, a Roma, come narrava Giovanni Pesce, Comandante Visone, nel suo indimenticabile libro “Senza tregua”, testimonianza della difficilissima lotta di Resistenza nei contesti urbani.
Una coscienza politica che, tuttavia, senza quello spirito di uomini e donne in rivolta, specchio di una natura umana che mal si concilia con la schiavitù e l’oppressione, siano esse di classe, di genere, di etnia o di religione, non avrebbe mai potuto germogliare. Del resto, cos’è la politica se non la traduzione in termini culturali e materiali della volontà tutta umana di migliorare le condizioni esistenziali degli individui e delle società? Se la domanda resta aperta è proprio perché, a differenza delle dittature, nelle democrazie il dibattito è sempre il punto di partenza e le verità, al plurale e mai assolute, sono un punto d’arrivo mai definitivo. Sempre in cammino, proprio come quelle giovani donne e quei giovani uomini che, scendendo sulle città liberate, fecero coincidere l’ultimo passo della Resistenza con il primo passo della Libertà.
Il racconto che segue è un testo di fantasia che tenta di raccogliere tutte le suggestioni di quel tempo, immaginando il ritorno a Milano di un giovane partigiano che aveva combattuto nel Comasco. Quando torna, dopo venti mesi di lotta di liberazione dal nazifascismo, quel processo di maturazione umana e politica figlio della dimensione morale della Resistenza, gli fa guardare il mondo con occhi nuovi: le opportunità, ma anche i dubbi, che la vita libera possono offrire diventano quel primo passo di libertà compiuto da una generazione che ci sta lasciando, e che abbiamo il dovere di non dimenticare.
PRIMAVERA PARTIGIANA
« Lungo la strada
Che mi porterà lontano
Penso alle lotte disperate e sogno
Una vicina libertà… » (F. Antonicelli)
Il vento faceva del grande prato un mare vibrante di luce mentre le nuvole, bianche e cotonate, contribuivano ad esaltare ancora di più l’azzurro che le circondava generoso. Quella collina era l’ultimo saluto ai grandi monti e al lago e l’inizio della discesa che portava alla grande pianura, altro immenso mare verde, con la città in fondo e, oltre , il profilo tenero degli Appennini, che in giorni come quello si vedevano persino da quegli ultimi colli. La Brianza intera, da Cantù, giù verso Mariano e Cabiate, sembrava vestita a festa, come se ci volesse salutare dopo il tempo di ferro e di fuoco che ci aveva visto ribelli su quei monti che, prima di allora, conoscevo solo per le parole che Manzoni metteva in bocca ai suoi personaggi.
Come era accaduto a molti, pur essendo di altri luoghi ed altri cieli, l’8 settembre di due anni prima mi aveva colto senza farsi troppe domande sul come e sul dove e quell’assenza di domande era stata per me, per la mia generazione, la prima delle risposte che avremmo avuto ma che, prima, avremmo dovuto cercare e prenderci contro tutto e contro tutti, in primis contro ciò che eravamo stati prima, persino contro le scuole ed i maestri che ci avevano formato al culto della Patria, la stessa che – ce ne accorgemmo proprio allora- essi stessi avevano tradito prima trasformandola in una caserma e poi consegnandola ad un Moloch che esigeva sacrifici umani in tutta Europa e oltre.
Venti mesi, venti lunghi mesi, mi avevano reso comune quel paesaggio, con l’arco di monti che ormai conoscevo a memoria, il Cornizzolo, le Grigne, il Resegone, e quel lago che si incuneava, al punto da ricordarmi quasi la Riviera ligure, come un immenso fiordo in cui, a pochi metri dai ghiacci alpini, fioriva il miracolo mediterraneo dei limoni e degli ulivi. E poi la convalle, che non capivo mai se fosse un luogo triste o un luogo felice, con i grandi edifici recentemente costruiti a gloria del più inglorioso fra i regimi che proprio lì sul lago avrebbe consumato la sua tragedia finale.
Ma quel giorno mi stavo lasciando tutto alle spalle e soli pensieri, in una sorta di sospensione del tempo, erano il significante rappresentato dalle linee argentine dell’orizzonte, dal verde, dall’azzurro, da quel profumo particolare dell’aria che solo in certi giorni speciali sembra innalzarti in cielo facendoti volteggiare fra le possibilità, le speranze, gli orizzonti nuovi che riempiono i polmoni di sorrisi. Era davvero finita e stavo scendendo alla grande città, o meglio, a quello che ne rimaneva dopo gli anni di bombe e miseria. Ancora pochi chilometri e sarebbe spuntata, lontana eppure vicinissima, proprio come la vedeva dalla Brianza Stendhal, la silhouette del Duomo di Milano con la Madonnina sulla guglia più alta a stagliarsi fra le ciminiere di quelle fabbriche i cui operai avevano fatto tremare gli scherani di Hitler. Mi lasciavo tante cose alle spalle, compresa, forse, la parte migliore di me che in quei venti mesi ero, forse, nato per la prima volta, togliendomi di dosso il carapace di una, pur incolpevole, giovinezza che non era quella primavera di bellezza dell’odiata canzone ma un inverno di conformismo e cieca obbedienza da cui, finalmente e faticosamente stavamo uscendo. Mi lasciavo anche volti, persone, promesse, una su tutte, con un arrivederci che sarebbe diventato un addio, perché la vita è così e ci porta lontano anche da chi sentiamo più vicino quantunque – di questo sono certo – non esista distanza in grado di separarci dalle persone care.
Un buffetto sulla testa di uno dei compagni della Brigata mi fece tornare in me. Al solito, mi ero perso in quelle fantasticherie e riflessioni per cui venivo bonariamente preso in giro. Ero quello « strano », che aveva studiato e di cui, all’inizio, sembrava di non potersi fidare. Ma solo all’inizio: poi era successo tutto quello che sapete, e che un giorno, forse, finirà sui libri di storia, quando avremo costruito un Paese più giusto di quello che ora è distrutto e ridotto in macerie materiali e morali. Ma non sto a farla lunga. Milano si avvicina. Mi giro ancora una volta verso i monti e il lago e la città un po’triste un po’ allegra e do loro un arrivederci. Poi riprendo il cammino oltre Cinisello.
Ennio Cirnigliaro
Viva l’Italia e la democrazia, grazie alla resistenza che ha portato alla nostra generazione la fine della guerra … Buon 25 aprile