Per Missione Poesia analizziamo oggi Memorie fluviali (MC edizioni, 2023), un lavoro di Isabella Bignozzi, un’autrice che si affaccia nel panorama poetico contemporaneo con una sua seconda compiuta opera, un libro che approda, attraverso lo scorrere incerto nelle acque memoriali, alla scoperta consapevole di personaggi amati, dalle sfumature evanescenti, ma fortemente presenti nella vita e quindi nella scrittura della poetessa che ne rileva altresì la mancanza, relazionandoli con l’intera dimensione umana.
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Isabella Bignozzi è odontoiatra, e per la sua professione autrice di articoli medico-scientifici di rilevanza internazionale. Ha pubblicato racconti, prose e contributi critici su varie riviste letterarie. Alcune sue liriche sono apparse su «Inverso – Giornale di poesia», «Poesia del nostro tempo», «Versante ripido», «Atelier poesia», «rivista ClanDestino», «larosainpiu», «La foce e la sorgente», «Formicaleone». Per la poesia ha pubblicato: Le stelle sopra Rabbah, (Transeuropa 2021), Memorie fluviali (MC edizioni, 2023); per la narrativa: il romanzo storico Il segreto di Ippocrate (La Lepre edizioni, 2020).
Conosco Isabella Bignozzi da quando ha cominciato a pubblicare poesia. L’ho frequentata in alcune occasioni e, da subito, mi è sembrata una persona sensibile e gentile, di rara educazione e riservatezza, ma dal sorriso assolutamente accattivante e sincero. Questo suo modo di essere si riflette nella sua scrittura, inevitabilmente. Concordo con il prefatore del suo ultimo libro, Pasquale Di Palmo, che definisce la sua poesia (e di conseguenza lei stessa) così: “[…] pervasa di un’empatia quasi ascetica per una parola mai esibita, mai gridata, ma che si manifesta con delicatezza, con discrezione, scandendo momenti epifanici che non disdegnano il mormorio della preghiera […]”.
Memorie fluviali
Dice il vero, chi parla di ombre è il verso ripreso da Paul Celan che introduce alla prima poesia di Memorie fluviali di Isabella Bignozzi. E di ombre, in quest’opera dai toni soffusi, dalle parole espresse sottovoce, dalle figure seminascoste nei chiaroscuri, ce ne sono parecchie. Ombre come figure che si aggirano tra le case e le pagine, ombre di cose e di ricordi, ombre di fiumi e corsi d’acqua, ombre dell’anima, ombre di una spiritualità ricercata nei versi di autori che in quella e di quella hanno vissuto.
Cristina Campo prima di ogni altro, ma anche Mandel’štam e il già citato Celan, nonché qualche sfumatura di quella Dickinson che ha costruito la sua poetica vivendo proprio nel semicerchio meno luminoso della sua stessa esistenza. Ma, sopra a tutte, l’ombra di un Cristo penitente per noi, crocifisso per noi, sanguinante per noi. Un Cristo che incombe quasi in ogni pagina, evocato in un appello che segna la liturgia dei testi. Non si tratta di una figura consolatoria, non si chiede salvezza tra queste righe. Solo si confrontano i passi dolorosi della vita, gli strappi, le ferite, le diramazioni dei vuoti, delle assenze, le crocifissioni, i tentativi di risalita. Pochi anche i margini di preghiera, come se non ci fosse spazio sufficiente tra le pieghe dei respiri lenti e affannosi, nello scorrere incerto delle acque memoriali, nel tremore sempre più fioco del proscenio su cui si affacciano i resti di coloro che sono stati amati, le sfumature evanescenti delle emozioni che hanno provocato il loro essere nelle nostre vite, il loro rapportarsi con noi, quasi il loro unico senso di esistere.
Sin troppo facile ricollegare a questi ragionamenti, seguendo il ritmo del testo Teatro familiare, i movimenti interiori messi in scena in questa brevissima ma intensa pièce, dove i personaggi (Padre, Madre, Fratello, Sorella, una nonna) sostengono la drammaturgia del ricordo in un’ambientazione festiva, dove il pane si fa ostia per la condivisione degli spazi in cui ognuno gioca il proprio ruolo, ridiventa pedina sulla scacchiera della poetessa che detta le regole, quelle delle immagini che non si cancellano: Rientrerò con il distacco di sidha/la dignità polare della bambina/tra quei parati da quirinale/sotto quei soffi dipinti/pieni d’occhi:/icone buie, cobalti, mappe siderali […]; o nella Lirica del padre nella quale si riflette l’assenza che si colma di frasi, gesti, desideri, smorfie che a loro volta si coniugano con la nostalgia e il rimpianto: […] ma sono rimasta a guardare/inebetita/il nostro cristallo/farsi anisotropo/deformarsi//la tua voce/divenire/massa mancante/priva di trasmissione; o, ancora, in quelle Annotazioni su quel quaderno di spine che si fa messale dal quale attingere esperienze da trasformare in poesia, nel dolore che diventa gelido di luce e nella forza di un corpo che chiama casa.
Così, passo dopo passo si arriva a quel Passo d’addio, che fu titolo di un’opera di Cristina Campo, del resto nominata anche in esergo, nella pagina dedicata a un suo testo, che apre la seconda sezione del libro. Pochi i versi di questo passaggio in realtà, solo cinque poesie. Sufficienti però a inquadrare la direzione: quella di una necessità di cura, di sostegno, quasi un florilegio di invenzioni maturate nella notte a richiamo del bene e del male, una richiesta di appiglio per non restare travolti dalle acque che inondano anche solo la voce: Metti la tua mano qui/ora qui/fermati come ala che posa/pontile sull’acqua//rimani/nel punto dove il torrente/frantuma la crepa […] è qui che crolla la mia casa/che vive la voce spezzata […].
Più corposo il terzo capitolo nel quale emerge il testo che dà il titolo al libro, Memorie fluviali, e che riporta al suo interno un’ambientazione dantesca, a mio avviso, fulcro ed emblema della poetica di Isabella Bignozzi. Nella dimensione celeste e orfana della specie, con le essenze a interpretare lo spazio e il tempo del corpo dopo il guado del fiume, il senso del sacrificio del Cristo, la consistenza dell’anima disciolta senza il perdono si assiste a una richiesta dal sapore battesimale: forse le acque potranno soddisfare quella mancanza d’amore e restituire all’uomo la capacità di saper stare al mondo. Se non sarà troppo tardi: […] ma ora il capo chino al fiume, in branco/senza distici né abbandoni/beviamoci il cuore l’un l’altro dallo sterno/abbiamo poche ore ancora/per reimparare a fare vita.
Non c’è traccia, all’apparenza, di una struttura strumentale in questo libro, metricamente libero da vincoli, con testi lunghi a volte trasformati in prosa poetica, a volte composti da un’unica parola, a volte assemblati in distici, terzine, quartine… non c’è traccia di rime, forse contiamo qualche assonanza. Eppure, saranno i simbolismi, le metafore – a volte riprese con termini medico/scientifici – le immagini evocative… eppure… i testi si reggono, come se fossero tenuti da un sottile filo armonioso, magari composto da poche ma efficaci note musicali, si reggono per una ricchezza semantica di rara e approfondita ricerca, si reggono per la riuscita analisi introspettiva che ne costituisce l’ossatura e la complessità. Si reggono, dunque, facendone un’opera compiuta per una voce che può dirsi ormai parte del panorama poetico contemporaneo.
Alcuni testi da: Memorie fluviali
Una coreografia
Tra le vertebre un tremore piccolo
eco di madre che recita meriti
al neon
e tinge di emoglobina le suole
nelle vene del dorso di una mano
catene montuose ghiacciate
l’ideogramma di un padre – incomprensibile grazia
iscrizione indecifrata, cuneiforme
nei dedali del vuoto di senso
tra le voci di stanze oscurate
madre-padre erano un dittico obliquo
accidentato
soffiano ora dai vecchi infissi
lamenti e profezie astrali
in tuniche di poliestere
una sacralità artificiale sull’altare del radiatore
a cherosene
nella crepa del muro di casa
va ancora in scena un teatro di dioniso dismesso
un groviglio di voci ruota in senso antiorario
è un concepimento vuoto
persistente
nel centro del vortice
l’isotopo radioattivo
emette
particelle di immagini
lento l’atomo svuota orbitali
e mentre rilascia tossine
lentamente decàde.
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Satelliti
È già nelle crepe d’asfalto l’estate
friabile scivola nell’ombra dei rami
la osservo da fuori gli occhi
morente di polveri
di mulattiere
c’è un fiorire di glicine, gatti che dormono al sole
ma bisogna arrotare il canto ora
a nuove discipline
abbiamo ferri di ruggine
e impugnature di latta
nelle fosse crolla la sabbia
prima che siano serrate le casse
è opaca ogni traiettoria
la fronte in perenne mancata ricezione
odoriamo rose ghiacciate
tra le dita si spezzano come
ostie i petali
l’oligarca delle merci ci osserva sottovetro
saremo spiati alle tempie
inchiodati alle mani
ma non sarà la fame a stanarci
l’ossessione dell’io
raggruma il numero atomico nella grotta
la massa di sillabe freme il cognome
è un frullare sui rami
questo schiamazzo d’uccelli
ma ognuno con dita di ragno tocca il buio attorno
respinge disconosce il battito del fratello
l’orbita dilata oltre l’ultima gravitazione
soltanto, nel moto centripeto, ci è dato disperdere
l’iride, gettare le mani nel taglio
nel vuoto che aspira e scompone volteggiare
perduti, satelliti allo sbando
nel buio remoto traforato di bocche
lucenti come spine.
***
Alba
Sanguina il gelso
nel pianto degli archi
un adagio in minore
suonato di taglio
si misura nel crollo
la premura d’amore
negli steli recisi
la morte che ha cura
balsamo miele
mio barbaro
mia nuda tra le dita
preghiera
e tu
candido altare
alba di vetro
che ogni cosa sai
del nuovo giorno
spezzami piano.
***
L’ombra delle cose
a Chiara
Non diciamo più di noi a chi non ha spazio in petto
a chi imbocca le soglie brevi, volta le spalle presto
fa barbarie che silenzia le voci della notte
restiamo in riva al mare, sedute, la sera
in tasca la ferita più nostra, conservata piano, in un
involto scuro
la fretta e la pioggia alle spalle come coltelli
una quieta emergenza, una luce rossa di preghiera
sarà calda ancora di sole l’acqua
sarà l’ora di salutarsi, di guardare alle spalle, alla
pineta preziosa
armeggiare un impegno, un rinvio, dipanare un
rientro ragionevole che sale
agli avambracci, alle clavicole, alle labbra poi
ma l’estate coltiva fino a tardi l’ombra delle cose
e le parole piene, le mani cave fanno culla e canto
di madre,
compassione di chi innalza l’ascolto, di chi digiuna
l’attesa.
***
La legge dell’acqua
Il battere della pioggia sul vetro
foresta svelata intima foresta
la notte del mondo più indifeso, la fronte in disparte,
la discesa nella rotta, in bilico,
le gambe piegate nella legge dell’acqua
stelle nel nero il fuoco
il dolore di una musica piano
una sospensione vuota di sonno e di affetto
ti scrivo fragile di parole senza vergogna
fedele di tenero estremo amore.
Cinzia Demi
Bologna, febbraio 2024
P.S.:
“MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale di poesia italiana contemporanea, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani.
https://altritaliani.net/category/libri-e-letteratura/missione-poesia/