«Sentioque inexpletum quiddam in precordiis meis semper»: Petrarca, l’insoddisfazione e la radicale incompiutezza dell’esperienza. Il confronto sempre attuale tra la ragione e l’amore vissuto nel grande poeta, nell’uso del volgare che ben rifletté il conflitto tra le sue debolezze e i suoi conflitti ideologici.
Francesco Petrarca era solito chiamare i propri componimenti poetici in volgare «nugae», cosette di poco conto rispetto alle grandi opere in latino – l’ Africa e il De viris soprattutto –, alle quali pensava di affidare verosimilmente la propria fama presso posteri. Ad ogni occasione egli, alla leggerezza degli scritti in volgare, oppose la «caritas maiorum operum, que in diutius interrupta, non sine expectatione multorum de minibus meis pendent» (Fam. I 1, 7).
Tuttavia quei frammenti di versi sparsi, che andranno a costituire il Canzoniere, quei lacerti di un’anima franta che sono il riflesso di una continua lotta fra le proprie convinzioni ideologiche e l’affermarsi delle debolezze più tangibili, non verranno mai abbandonati dalle cure del poeta: le ultime modifiche al Canzoniere, infatti, Petrarca le apportò nell’ultimo anno della sua vita quando, non soddisfatto dopo aver completato la copiatura del manoscritto, decise di inserire dei numeri arabi accanto agli ultimi 31 testi, in modo da ridefinire un nuovo ordinamento per i componimenti finali.
Petrarca morì ad Arquà nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374, colpito da una malattia che lo sottrasse alla vita proprio nella vigilia del suo settantesimo compleanno. Così, dal momento che la storia redazionale del Canzoniere si conclude con il dissolversi dell’esistenza del poeta, con tutte le ragioni potremmo pensare che egli, vinto da un’insoddisfazione radicale, avrebbe ancora apportato modifiche alla sua raccolta, nel tentativo di raggiungere quella forma perfetta e definitiva– che sembra sempre sfuggirgli di mano – da dare ai suoi versi sparsi, a quei «sospiri di un’esperienza che si specchia continuamente con il proprio dissolversi, con l’insistenza e l’incompiutezza del desiderio» [[G. FERRONI, Prima lezione di letteratura italiana, p. 30.]].
Nonostante ciò, già nel sonetto proemiale, il poeta sembrerebbe ricordare la propria esperienza nel segno della completezza, tanto che il primo componimento sembrerebbe avere quasi una funzione conclusiva, come se fosse lo sguardo indietro, da lontano, al proprio passato oppure il rievocativo, evanescente flash back di un «giovenile errore»:
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Ma il Canzoniere, se è vero che è attraversato da una ossessiva ricerca della pace, se è vero che si conclude nel segno del pentimento e della canzone alla Vergine, non per questo è privo tensioni, contrasti e momenti di irresolutezza, che, a ben vedere, lasciano tracce anche negli ultimi testi della raccolta. Infatti, quasi all’epilogo del Canzoniere, l’instabilità del conflitto interiore dell’autore trova ancora espressione in una canzone intitolata Quell’antiquo mio dolce empio signore, nella quale viene inscenato – secondo una modalità tipicamente medievale – un contrasto fra il poeta e Amore.
Si tratta di un vero e proprio processo che Francesco, di fronte al tribunale della Ragione, rivolge ad Amore personificato, il quale, rispondendo singolarmente ad ogni accusa, alla fine afferma di aver dato al poeta ali «da volar sopra al cielo», mentre quest’ultimo, con ingratitudine, sembra aver posto in oblio la donna che gli era stata data «per colonna/ de la sua frale vita». Ma questo punto Francesco, che si mostra ancora disperato per la morte di Laura, alza il suo grido di protesta:
[…] A questo un strido
lagrimoso alzo et grido:
Ben me la die’, ma tosto la ritolse
(vv.147-149).
Il congedo della canzone, però, non dà alcuna soluzione. A sorpresa le ultime parole pronunciate dalla Ragione lasciano l’attesa del giudizio completamente frustrata:
Piacemi aver vostre questioni udite,
ma piú tempo bisogna a tanta lite. –
Serve più tempo, sentenzia la Ragione. Il tempo, tuttavia, è proprio ciò che manca al poeta, nell’incombere della morte. Così, ancora una volta, la conclusione rimane sospesa, come se sempre e sottilmente agisse quel «quiddam inexpletum» a rendere vana l’aspirazione verso qualcosa di definitivo. Un animo, dunque, irrequieto e ancora affannosamente invischiato nella provvisorietà della propria esperienza:
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa et or quel’altra parte,
non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortal bellezza, atti et parole m’ànno
tutta ingombrata l’alma.
Così Petrarca raffigurava se stesso nella famosa canzone alla Vergine; nonostante l’immagine finale di pacificazione con cui si chiude l’opera («Raccomandami al tuo figliuol, verace homo et verace Dio,/ ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace), l’instabilità minaccia fino in fondo il Petrarca uomo, costretto all’affanno da un tentativo estremo e vano di ricerca di sé, senza riuscire mai a trovarsi del tutto.
Testimonianza di tutto ciò sono i suoi frequenti spostamenti geografici fra Avignone, Valchiusa e le numerose corti dell’Italia settentrionale (soprattutto Parma, Milano, Venezia, Padova), per poi concludere la propria esistenza ad Arquà, stanco di percorrere «quel mondo che, più che io lo giro, meno mi piace», come scrive in una delle Familiares.
Tutt’altro viaggio, tutt’altro raggiungimento è quello che compie l’altro grande poeta del Trecento. Vita e opera di Dante Alighieri sono tutte tese verso la conquista finale che, nella Commedia, non può essere più totale. Raggiungimento che viene immaginato in più parti del poema, anche nei suoi risvolti terreni, come nel vagheggiamento, che apre il canto XXV del Paradiso, di un ritorno a Firenze dopo l’esilio, per essere incoronato poeta nel battistero di San Giovani (desiderio, questo sì, destinato a rimanere per sempre insoddisfatto, «inexpletum»):
Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;
D’altronde la dimensione conclusiva dell’esperienza viene ribadita in più punti nel corso dell’ultimo canto dell’opera:
E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii
(vv. 46-49);
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(vv. 142-145)
«L’ardore del desiderio in me finii», appunto. Niente di più lontano dal Petrarca poeta, letterato, filologo, umanista, uomo che scriveva nel suo Secretum: «Sentioque inexpletum quiddam in precordiis mei semper», sento qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore, sempre. Non a caso, lo stesso Secretum – analisi interiore della propria anima nella forma di un dialogo fra Francesco e Agostino – rimane irrisolto, sospeso senza il giudizio della Verità che resta sempre, emblematicamente, in silenzio.
Vincenzo Allegrini
(articolo pubblicato nel 2013 e riproposto alla vostra attenzione)