Me lo ricordo bene, io, quando hanno ammazzato Pasolini, proprio quarant’anni fa, primi giorni di novembre 1975. Di anni ne avevo dieci (e dieci anni sembran pochi), ed ero nella casa di mia nonna, nel quartiere genovese di Sestri Ponente.
Fatto sta che arrivò mio zio, teneva in mano un giornale, credo il quotidiano del pomeriggio, il Corriere Mercantile. Il titolo diceva che Pier Paolo, insomma Pasolini, era morto. Ammazzato. C’era anche mio padre; e tra i due fratelli, uno sguardo, “ma questo qui non era un po’, eh?”, aveva detto mio padre con quel piccolo gesto con la mano in prossimità dell’orecchio, e da lì un cenno di intesa.
Insomma voleva dire che Pasolini era un po’, eh, era un po’ un buliccio. Dove buliccio, nelle parlate liguri, sta per omosessuale. Il termine è dispregiativo se vogliamo: ma non troppo. L’etimologia non la so, forse nessuno la sa. Invece so che lo si trova anche in Montale, quando in una poesia racconta di un giovane praticante cronista che in redazione si becca delle sonore lavate di capo “al grido di buliccio!”.
E lo si trova anche, si parva licet etc. etc., in Elio e le Storie tese:
« Quel ragazzo è molto ciccio, ma spiccio: possibile buliccio ». Io chiaramente a dieci anni mica lo sapevo chi era Pasolini. Né avevo idea di cosa volesse dire essere un buliccio.
Poi il tempo è andato e adesso da quel giorno sono trascorsi quarant’anni. Io che ero bambino sono invecchiato, Pasolini forse giovane non lo è stato mai. Una sera a Parigi sono andato a vedere il film girato da un regista americano, Abel Ferrara, proprio sulle ultime ore di vita di Pier Paolo. Prima della proiezione c’era una specie di ricevimento e ho visto un tipo stravolto che beveva come una spugna, anzi: due spugne. E poi ho visto che era proprio il regista: Abel, anzi Eibèl Ferrara (ma tutti i francesi se ne strafregano della pronuncia americana e dicono “Abèl”). Ospite d’onore della serata.
Poi ho visto il film. Mi è sembrato bello e completamente inutile. Nel film si vede tutto quel che si sa e che non si sa: Pier Paolo, la casa, la stanza, la macchina da scrivere, i libri, e poi l‘uscir di casa, la macchina, la camicia e i pantaloni stretti, il fisico atletico da cinquantenne sportivo (che gioca a pallone e va in motocicletta). Si vede Pelosi il ragazzo di vita, diciassettenne rimorchiato vicino alla stazione Termini e poi via, a cena alla trattoria Al Biondo Tevere in Via Ostiense. Un petto di pollo con la pelle e l’ala (lo servivano così), Pelosi che lo mangia e Pasolini che beve solo una birra perché ha già mangiato.
E poi vanno via assieme in macchina sul lungomare e alla fine nel campo da pallone spuntano fuori altri ragazzi. I ragazzi giù nel campo dan la caccia ai borghesi, tagliano a pezzi, a pezzi le teste dei nemici e dei fedeli (aveva scritto lui, Pier Paolo, insieme a Dacia Maraini, nel testo di una canzone). E questi sono ragazzi cattivi e questa volta il borghese è lui. I ragazzi giù nel campo dan la caccia ad un ricco, gli fan togliere i denti d’oro e li portano al mercato. E questa volta il ricco è lui e quelli sono ragazzacci di vita; sono fascisti come sempre si dice di coloro che ci sembrano incomprensibilmente cattivi. E lo massacrano, il povero Pier Paolo. E muore spiaccicato come un gatto del Colosseo, muore come tutti si muore certo ma lui un po’ di più.
Di quella morte orribile, capace poi di arrivare poche ore dopo fino a me, bambino, con il giornale del pomeriggio nelle mani di mio zio e con lo sguardo di mio padre, ma questo non era un po’, eh? E ci siamo capiti. E cosa volete che ne sappia un bambino di dieci anni di queste cose? Alla fine del film, siccome c’è il regista in sala, si fa il dibattito. Per forza.
C’è una signora, parigina, con tacchi alti e chignon e le belle mani bianche che non sembrano conoscere il sudore umiliante dei contatti (o forse sì): e che comincia la tiritera. Pasolini ci manca, sospira lei, quanto ci manca il suo anticonformismo, la sua parola profetica, in questi tempi bui (i tempi sono sempre bui, del resto. Lo sono sempre stati), lui che aveva già previsto tutto, la decadenza, il cambiamento, la famosa mutazione antropologica del popolo, corrotto e mutato nel profondo dall’arrivo e dal montare del consumismo (dalla televisione e dalle macchine e dalle lavatrici).
Ha una bella faccia, la donna. Una bella faccia da figlia di papà, proprio una di quelle che Pasolini diceva di odiare. E profuma di femmina, e di borghesia. Borghesia istruita, riflessiva, progressista: proprio quella che Pasolini diceva di detestare.
E alla fine la bella signora se la prende con il povero (si fa per dire) Eibél Ferrara. Nei titoli di coda ha visto che il regista ha ringraziato Pelosi, il presunto assassino. Ora la sua voce francese vibra di sdegno: ma lei, Abèl Ferrarà, come si permette di ringraziare l’assassino di Pasolini? Vergogna! Ferrara si fa tradurre perché già di francese non capisce una mezza parola ma ubriaco com’è secondo me è un miracolo se capisce l’inglese. E dà una risposta da ubriaco: cioè interessante e bella.
Una cosa più o meno così: ma scusi, ma lei cosa vuole dalla mia vita? Io sono un regista, Pasolini era un intellettuale, un uomo straordinario, ma anche un uomo che andava con i ragazzini rimorchiandoli per due lire, era tutto questo, capisce? E a me è questo che interessa, mica farne un ritratto idealizzato. E io sono andato a parlare con questo Pelosi – continua – per sentire cosa poteva dirmi, e siccome mi ha ricevuto e mi ha raccontato la sua versione delle cose, io l’ho ringraziato per questo. Mica per aver ammazzato Pasolini, ammesso che lo abbia ammazzato lui.
Così risponde Eibèl Ferrara. Il labbro superiore della signora vibra ancor più di sdegno (il labbro superiore è sempre più sensibile, allo sdegno), Ferrara invece si richiude subito nella sua torpida stanchezza di ubriaco. Il film è bello e inutile. Tra pochi mesi non lo ricorderà nessuno e invece tutti noi continueremo a ricordarci di Pasolini che mai rivivrà, passassero mille anni e più.
Esco dal cinema di Parigi e poi qualche mese dopo arriva l’estate e una sera sono a Roma. Vado alla Garbatella, e che bel quartiere, è la Garbatella! Alla Villetta, in un cinema all’aperto. Danno un documentario su Pasolini, “Lungotevere”, dove si vedono tanti ragazzi di vita che lo conoscevano davvero, lo conoscevano bene. E chiaramente ragazzi ora non lo sono più, manco per niente.
C’è uno di loro che adesso fa il pittore e nel documentario recita versi di Pier Paolo: “Me ne vado, ti lascio nella sera; che, benché triste…”. A me viene sempre un po’ da piangere quando sento i versi di Pasolini. Il vecchio ragazzo di vita è lì con noi, nel giardino della Villetta, a vedere la proiezione; alla fine c’è il dibattito e dice: “so’ contento perché per la prima volta in questo film si dà la parola a chi può parla’ di Pier Paolo e di quel che è successo, mentre invece di solito ne parlano quelli che dovrebbero solo stare zitti”. Io non resisto e gli chiedo, chi è che parla e invece dovrebbe stare zitto, mi dici un nome? Chi è che parla e dovrebbe stare zitto? Lui è reticente, “ma so’ tanti, so’ troppi e poi lo sanno tutti chi sono”. Insisto. Mi fa il nome di Veltroni. Ma che t’ha fatto Veltroni, scusa? Scuote la testa e non me lo spiega. Poi mi prende da parte e mi dice, “io so tutto, sai, lo so cos’è successo quella sera, Pelosi non c’entra niente, o c’entra poco, erano in tanti, io l’ho raccontato tante volte ma nessuno mi ha mai dato retta”. E mi racconta la sua verità, la sua. “So’ tant’anni che la dico e nessuno mi crede”.
Uscendo dalla Villetta della Garbatella nella notte non penso a nulla. Del resto mieux vaut n’penser à rien que n’pas penser du tout, cantava Serge Gainsbourg: a che mi servirebbe pensare che non ci sono mai andato, sul lungomare di Ostia, a vedere il posto dove l’hanno ammazzato (se non attraverso il cinema, il Caro Diario di Moretti, la sua Vespa e la meravigliosa musica di Keith Jarret); a che mi servirebbe pensare che sono passati quarant’anni da quel lontano giorno quando io di anni ne avevo dieci? O pensare che io a Pier Paolo, in fondo, gli voglio proprio bene? Alla sua faccia tragica e ai sui vizi assurdi, alla sua intelligenza e alla sua vitalità, alla sua voce che lui dice “puerile”, al suo giocare a pallone e al suo girare per le lunghe strade inutilmente, lui mostro da niente, come diceva il suo amico Sandro Penna (buliccio, e poeta straordinario, anche lui).
Voglio bene a Pier Paolo ma non ne voglio, invece, a quella figurina pedante che gli viene ritagliata addosso da quarant’anni: sì, proprio quella della bella signora della Cinemathèque. E la figurina pedante è questa: Pasolini profeta, Pasolini che ha visto tutto in anticipo, che ha decifrato per primo la “mutazione antropologica” e la perdita di purezza del popolo ormai corrotto dal demone del consumismo. Pasolini “intellettuale scomodo”. Pasolini “uomo contro”. Insomma, voglio bene a Pier Paolo, ma non all’abito che gli è stato cucito addosso: l’abito di un santino. Di un santino laico.
Secondo me Pier Paolo non era un santino né un profeta. Era un uomo – e se vi par troppo poco, mi dispiace. Un uomo intelligente e acuto e tragico, e in quello stava quella sua forza che ce lo fa sentire sempre vicino e vero. Talmente intelligente da rendersi conto lui stesso della realtà: io sono una forza del passato – dice di sé; solo nella tradizione è il mio amore. Più reazionario che marxista, insomma. Un uomo che amava i ragazzi. I ragazzi di strada, quelli che non hanno mai aperto un libro. E li amava al punto da desiderare di non vederli mai cambiare, diventare adulti, magari studiare e cambiare vita.
Un uomo istruito che paga e usa la sua auctoritas per scopare con dei ragazzi ignoranti. Vi fa orrore? A me no. Semplicemente, mi porta a credere che il pensiero “politico” di Pasolini si spieghi meglio con le categorie di Freud, piuttosto che con quelle di Marx. Che il comunismo cattolico, il socialismo religioso di Pasolini, lo si spieghi meglio con quell’ « infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima”, piuttosto che con categorie politiche o sociologiche. “Schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso”, forse Pasolini non era un profeta, ma solo un uomo intelligente; e purtroppo per lui prigioniero, come tanti, di una maledizione di Edipo. Ed è quell’amore edipico, certo, la sua schiavitù.
La schiavitù dell’uomo-ragazzo, che a cinquant’anni passati vive nella sua cameretta dell’appartamento romano, con la madre e una sorella – poca vita, sempre quella.
Dell’uomo ragazzo che poi esce a cercare la vita viva di notte con la macchina sportiva (ma come? La macchina sportiva non era forse un falso bisogno indotto dal liberalismo di stampo americano?). E con la camicia a fiori e i pantaloni stretti stretti attorno alle natiche (era un bell’uomo Pasolini) che poi si allargano in fondo proprio come dice la moda del tempo (ma come, la moda? Ma la moda non era anch’essa uno dei falsi miti del consumismo e della modernità? La moda, frivola passeggera e senza passato né futuro, non è forse il contrario della tradizione?).
Io gli voglio bene, a Pier Paolo. Nella sua prosa ci si può e forse ci si deve perdere; e per la sua poesia si potrebbe persino vivere e morire. Ma forse, a pensarci bene (in nome dell’odio verso il consumismo, verso lo sviluppo, verso la modernità) Pasolini chiedeva ai poveri l’unica cosa che è davvero imperdonabile chiedere ai poveri: e cioè di restare tali.
Maurizio Puppo
Pasolini l’uomo. A 40 anni dalla sua morte.
qui mi trova d’accordo, in fondo era un incoerente pasolini, un polemico incoerente, intelligente ma con dei limiti
Pasolini, progressista-conservatore
Articolo di Maurizio Puppo che condivido interamente. E al quale aggiungo – scusandomi per il carattere un po’ « autoreferenziale », quindi a maggior ragione pasoliniano, del mio intervento – questo mio ritratto sintetico del personaggio (fatto 10 anni fa).
Alla “Cinémathèque québécoise” di Montréal fu presentata, nel trentennale della sua morte, la retrospettiva integrale dell’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini. Per l’occasione giunse dall’Italia il critico Serafino Murri. Il giovane studioso non parlò a lungo, ma gli bastò per rivelare la propria italianità. Infatti disse “prima, nel corso delle domande, mi è stata rivolta una domanda intelligente”, e concluse la sua presentazione con un “io mi vergogno, oggi, di vivere in un paese come l’Italia” (alludendo a Berlusconi), che è una variante del “mi vergogno di essere italiano”, carta da visita immancabile dell’italiano purosangue.
Un altro interveniente in quell’occasione accreditò la tesi secondo la quale Pasolini, che fu ucciso da un “ragazzo di vita” con cui si era appartato per un rapporto sessuale prezzolato, fosse stato in realtà vittima delle oscure forze della “Reazione Anticomunista”. Quest’idea di una morte cruenta, per mano dei nemici politici – smentita però dai fatti – è il tocco finale della santificazione di Pier Paolo.
“Pier Paolo Pasolini era un eretico, un critico, un ribelle e soprattutto uno spirito libero”, è il giudizio che va per la maggiore. Sì, Pasolini – scrittore, poeta, regista – è stato questo ed altro ancora. È stato un intellettuale geniale, gran moralista, nemico della frenesia consumistica. È stato vicino sia alla chiesa cattolica sia alla chiesa comunista. Ma da eretico. Si considerava un po’ il nuovo Dante, e tendeva a parlare continuamente di se stesso, venendo per questo accusato di “autoreferenzialità”. Visse in maniera ossessiva la propria omosessualità. Figlio di borghesi, considerava la piccola borghesia la rovina del mondo, mentre solo i proletari, i poveri, i primitivi, possederebbero, secondo lui, una vera umanità.
Il suo sguardo nostalgico sul mondo contadino, minacciato dal rullo compressore della modernità, pone il marxista Pasolini a fianco dei cultori dei valori della tradizione, tutti in genere di destra. Suo padre fu fascista. Il fratello, partigiano comunista, fu “giustiziato” dai comunisti filojugoslavi. Contro il padre, con cui ebbe sempre un rapporto difficile, Pier Paolo si rifugiò nella corazza nel mammismo. “Sono capace di provare amore solo per mia madre, negli altri cerco i corpi”, fu la sua spiegazione.
Le contraddizioni di Pasolini sono vaste: benché comunista – anche se non iscritto, perché era stato espulso per indegnità “sessuale”, anni prima, dal Partito – si schierò in difesa del feto contro l’aborto, fu contro il divorzio, prese posizione a favore dei questurini contro i manifestanti, figli di papà. Pasolini, che aveva molto dell’esteta decadente, odiava però D’Annunzio.
« Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”, si legge nel suo “Le ceneri di Gramsci”. E questo verso esprime non si potrebbe meglio la contraddizione in lui tra ciò che predicava e ciò che praticava.
Pasolini, che si proclamava marxista – e in quell’epoca era necessario esserlo per sentirsi col vento della storia nelle vele – usò i termini “fascismo” e “male” in maniera interscambiabile erigendosi a costante difensore del “bene”. Denunciò quindi anche “il fascismo degli antifascisti”.
Grazie a questo suo Copyright sul “fascismo” non più fatto storico ma nuova categoria morale, di cui fu l’abile inventore, Pasolini riuscì a superare tante sue contraddizioni e ad ammantare certi suoi aberranti fantasmi – vedi il film “Salò” – di politica e di moralismo.
I chierichetti della chiesa marxista si sono sempre battuti per assicurare a Pasolini il salvacondotto per il Pantheon dei buoni, cercando di trasformarlo addirittura in santo. Esaltando Pasolini, i complici morali della sanguinosa utopia alla Stalin e alla Pol Pot cercano di continuare a potersi presentare romanticamente ribelli, anticonformisti, eretici. Come Pasolini.
Pasolini, progressista-conservatore
Caro Claudio, grazie per il tuo commento. Concordo su molte delle cose che hai scritto. Ma ti seguo un po’ meno, anzi molto meno, su una delle frasi finali: quella che dice « i complici morali della sanguinosa utopia alla Stalin e alla Pol Pot cercano di continuare a potersi presentare romanticamente ribelli, anticonformisti, eretici ».
La storia della sinistra « storica » italiana è stata ed è molto complessa, piena di cose non tutte belle e non tutte sante – e su questo siamo d’accordo. Ma non mi pare possa rientrare, se non in certe sue componenti, in una formula cosi’ vaga e cosi secca come quella della « complicità morale » con alcuni dei peggiori criminali della storia.
Detto in altri termini: Stalin e Pol Pot con Pasolini e con il conformismo dei suoi adulatori c’entrano poco, mi pare. Per me, l’aura di santità di cui si è voluto ammantare il povero ppp (che santo non era, e che di santità non credo avesse bisogno) corrisponde semmai a un desiderio di conformismo culturale, che vuole allineare tutti i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Pasolini è diventato un’icona dei buoni e allora tutto cio’ che si dice di lui deve corrispondere a questo ideale di bontà.
E’ insomma diventato il santo di una religione laica, di cui si parla per frasi fatte, come in una specie di giaculatoria: ribelle antinconformista amen un intellettuale scomodo amen un eretico amen e cosi’ via. E questo non va bene, perché cosi’ facendo si finisce per negare la realtà e la complessità della sua vicenda biografica e culturale. Un saluto, Maurizio
I complici morali…
Sandro Pertini commemoro’ cosi’ Giuseppe Stalin in Senato:
« Signor Presidente, onorevoli colleghi il dolore e l’angoscia che sono in noi impediscono ogni frase retorica ed ogni accento polemico. Dinanzi a questa morte non si può rimanere che stupiti e costernati.
Stupiti, per la grandezza che questa figura assume nella morte. La morte la pone nella sua giusta luce; sicché uomini di ogni credo politico, amici ed avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin.
« Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto. Siamo costernati dinanzi a questa morte per il vuoto che Giuseppe Stalin lascia nel suo popolo e nella umanità intera. Signori, se abbandonate per un istante le vostre ostilità politiche, come le abbandono io in questo momento, dovete riconoscere con me che la vita di quest’uomo coincide per trent’anni con il corso dell’umanità stessa. Quattro tappe, soprattutto, della esistenza di Stalin rappresentano quattro pietre miliari della storia universale. »
Sugli Ungheresi che, dopo la fallita rivolta del 1956, cercavano di riparare all’estero, l’Unità parlò di «una minoranza che, resasi colpevole di massacri o presa dal panico, cerca oggi di fuggire dall’Ungheria.»
L’Unità nei confronti dei profughi giuliani (tra cui la famiglia del sottoscritto):
« Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi. »
“E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere dieci volte più del migliore italiano“. (XVI Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, pagina 185 del resoconto stenografico dell’intervento di Palmiro TOGLIATTI).