Si è inaugurata a Venezia lo scorso 9 settembre nella sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale una prestigiosa esposizione che racconta la storia della gioielleria nell’Asia Meridionale: “Tesori dei Moghul e dei Maharaja”. Una serie di oltre 270 pezzi, tra cui gemme, gioielli e raffinati ornamenti anche da abbigliamento d’ispirazione indiana degli ultimi 5 secoli, indossati da nababbi e Maharaja, dal periodo Moghul al giorno d’oggi provenienti dalla ricca collezione dello sceicco Hamad Bin Abdullah Al Thani.
La mostra è stata realizzata grazie all’impegno profuso dalla Fondazione Musei Civici di Venezia sotto la presidenza di Mariacristina Gribaudi e la direzione di Gabriella Belli con Bianca Arrivabene e dalla Al Thani Collection Foundation. I curatori, Amin Jaffer e Gian Carlo Calza hanno voluto realizzare un percorso sulla tradizione artigianale indiana in esclusiva per Venezia, nella illustre residenza, luogo delle cariche di governo della Serenissima che a metà Cinquecento – quando nel subcontinente prese il via con l’impero Moghul il fervore per la gioielleria – viveva uno dei momenti artistici di maggior splendore. La Serenissima era un centro di scambi commerciali (spezie, tessuti, pietre dure e preziose) ed era diventata il primo importatore di diamanti in Europa, a parte quelli di epoca romana, eccellendo nella lavorazione delle pietre fino a tutto il Seicento. Un’opera di manualità artigiana resa già importante dalle creazioni in vetro e dal merletto.
Zahir ud-Din Muhammad (1483-1530), più noto comunemente come Babur, discendente sia di Timur (Tamerlano) sia di Genghis Khan, fu il fondatore della dinastia Mogol in India, la cui stessa identità è indissolubilmente legata al possesso delle pietre preziose.
In India, terra ricca di pietre preziose e patria di una tradizione orafa di estrema raffinatezza, i gioielli rappresentavano qualcosa di più di un semplice ornamento. Ogni gemma aveva un suo significato particolare nell’ordine cosmico, o le veniva attribuito un carattere propiziatorio, con un forte riferimento alla luce, simbolo di purezza, come elemento che veniva racchiuso e riflesso da essa.
Nella cultura popolare, alcuni tipi di gioielli riflettevano il rango, la casta, la terra d’origine, lo stato civile, la ricchezza di chi li indossa. Metalli e gemme preziose, del resto, venivano utilizzati anche nell’arredamento degli ambienti di corte, nella confezione di abiti cerimoniali, delle armi e del mobilio.
La mostra è suddivisa in sei sezioni:
nella prima si possono ammirare le meravigliose gemme e i gioielli dinastici, a partire da due diamanti universalmente noti: l’“Idol’s Eye” (Occhio dell’Idolo), il più grande diamante blu tagliato del mondo
e Arcot II, uno dei due diamanti donati alla regina Charlotte, moglie di re Giorgio III (1738-1820) da Muhammad ‘Ali Wallajah, nawab di Arvot (1717-1795), provenienti entrambi dalle leggendarie miniere di Golconda, situate nella zona centro meridionale dell’India. Insieme ad essi vi sono anche smeraldi e spinelli in parte incisi con i nomi e i titoli dei sovrani che li possedettero.
Nella seconda sezione sono presenti delle delicate coppe in giada, considerata una pietra propiziatrice di vittoria, che si riteneva fosse in grado di rivelare la presenza del veleno e di contrastarne gli effetti. Tra esse vi è la “Coppa per il vino dell’imperatore Jahangir” considerata la più antica giada Moghul datata, contenente un’iscrizione in versi in lingua persiana e la titolatura del monarca. Le giade indiane erano molto apprezzate anche in Cina, come testimonia un’elegante coppa decorata con la testa di uno stambecco e con incisa una poesia dell’imperatore Quianlong del tardo XVIII secolo.E ancora, il “Pugnale di Shah Jahan” (1620-1625) con l’elsa sempre in giada, che ha la forma della testa di un giovane e sulla lama riporta l’iscrizione dei titoli dell’imperatore.
La terza sezione presenta oggetti in oro e smalto, spesso caratterizzati da una raffinata decorazione a smalto policromo e dall’uso del “kundan”, una tecnica che consentiva di montare le gemme con l’oro senza il ricorso di griffe, ma semplicemente avvolgendo il castone con lamine malleabili d’oro puro che sviluppavano un legame molecolare intorno alla pietra. Inoltre, a differenza di quel che avveniva in Occidente dove le pietre venivano tagliate in fogge simmetriche, in India le gemme erano tagliate in modo da preservarne quanto più possibile la dimensione originaria. Sempre durante il periodo Moghul comparve la smaltatura, probabilmente ispirata dall’apprezzamento dei raffinati gioielli smaltati delle botteghe rinascimentali che venivano portati in dono dagli ambasciatori d’Occidente. Sono presenti alcuni oggetti a smalto verde con gemme incastonate, risalenti al XVIII secolo. Invece tra i manufatti possiamo ammirare uno splendido set da scrittoio con portapenne e calamaio (Deccan o India settentrionale, 1575-1600) realizzato in oro massiccio tempestato di pietre preziose, un pezzo considerato un vero “unicum”. Questo genere di oggetti venivano spesso utilizzati dai funzionari d’alto rango per scrivere i decreti imperiali.
Sempre in questa sezione è presente l’ornamento del trono di Tipu Sultan a forma di testa di tigre, in oro e tempestato di gemme, realizzato in occasione della sua ascesa al potere. Dopo la morte di Tipu e la conquista di Seringatapam da parte delle forze britanniche nel 1799, il trono fu smembrato, e alcune parti finirono nella collezione della Famiglia reale britannica, mentre altre, tra cui questo oggetto, sono state ritrovate solo di recente.
La quarta sezione è incentrata su ornamenti e simboli del potere. In Indi, il possesso di gioielli importanti era parte dell’essenza stessa della sovranità. Erano gli uomini a indossare le gemme più belle per fare sfoggio della ricchezza dello Stato. Gli ornamenti principali per un sovrano andavano da quelli per turbanti o per corone, a collane, orecchini, bracciali, braccialetti, anelli, cinture e cavigliere.
Si può quindi osservare la collezione di collier di diamanti e oggetti preziosi come la “Spada del nizam di Hyderabad” e il favoloso Baldacchino che faceva parte del “Tappeto di perle di Baroda”, commissionato dal maharaja Khanderao Gaekwad tra il 1865 e il 1870. Esso è stato realizzato in seta che riveste una pelle di cervo, ed è riccamente decorata in argento, oro, vetro colorato, diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi e arricchito con circa 950.000 perle. Uno splendido oggetto che era stato confezionato con l’idea di collocarlo all’interno della tomba del profeta Maometto a Medina, ma il dono non partì mai per la morte del committente.
Nella quinta sezione invece è protagonista l’Europa con una selezione di gioielli realizzati da prestigiose “maison” occidentali su richiesta dei principi indiani, ispirati dalla stessa oreficeria indiana. Tra gli incantevoli oggetti spicca la sublime piuma di pavone in smalto creata da Mellerio (detto Meller, Parigi 1905) e acquistata dal maharaja Jagatjit Singh di Kapurthala.
E ancora, il girocollo di rubini disegnato da Cartier per una delle mogli del maharaja Bhupinder di Patiala;
inoltre un meraviglioso “Occhio della tigre”, un diamante color oro montato a ornamento per un turbante, e una splendida collana déco impreziosita dai rubini appartenente alla collezione personale del maharaja Digvijaysinhji sempre realizzati dalla “maison” francese.
L’esposizione si conclude con la sesta e ultima sezione, con un omaggio all’arte orafa contemporanea. Van Cleef & Arple e Bulgari hanno entrambi creato importanti gioielli su commissione usando gemme indiane storiche. Anche il celebre gioielliere parigino JAR ha incorporato pietre indiane nelle sue opere. Le sue creazioni si sono a volte ispirate a motivi indiani, come quelle del gioielliere Bhagat di Mumbai, il cui lavoro è caratterizzato dall’impiego di diamanti piatti tagliati su misura e di perle naturali su invisibili montature di platino, che spesso richiamano le forme dei gioielli tradizionali.
Questa straordinaria collezione, una vera delizia per gli occhi, è accompagnata da un importante catalogo edito da Skira. Non è possibile descrivere a parole la magnificenza di così tanti gioielli, occorre visitarla, anche per il suggestivo allestimento, dove prevale il buio e l’oro e gli oggetti sembrano sospesi nelle loro bacheche per essere valorizzati al meglio dai piccoli spot luminosi. Una vera opportunità per cogliere anche l’intreccio di relazioni tra la società e la cultura orientali e quelle occidentali. L’esposizione resterà aperta fino al 3 gennaio 2018.
Andrea Curcione
Sito ufficiale della mostra e info pratiche