Per Missione Poesia presentiamo l’ultima raccolta di Giacomo Panicucci, un giovane artista che interseca mirabilmente il genere poesia con la canzone d’autore, concentrandosi sulla ricerca di un rapporto armonioso con la natura, e sull’idea che ancora sia possibile salvarsi attraverso l’arte, grazie anche al continuo confronto con i grandi maestri. Il libro contiene anche alcune illustrazioni di Luca Leonetti.
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Giacomo Panicucci (Piombino, 1985), ha conseguito la laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Pisa e parte della sua tesi su Fabio Tombari è stata poi pubblicata nel libro Essere (a cura di G. Rotondo, La vita felice, 2019).
Cantautore e scrittore, nelle sue canzoni cerca di far rivivere l’alchimia che intercorre tra musica e letteratura. Ha pubblicato il libro di poesie Suite di prose liriche (Genesi editore, Torino, 2009) premiato nel 2010 come opera prima al XXIII Premio Letterario Camaiore. Ha studiato violino con la maestra E. Cherkasova e successivamente con la maestra C. Angele. Insieme al polistrumentista cantautore Gabriele Cavallini, ha fondato il gruppo musicale Il Vento dell’Altrove con cui ha pubblicato il doppio album Canzoni Orfiche (La Poesia di Dino Campana) per Materiali Sonori, vincitore nel 2018 del concorso nazionale “Canti Orfici in Musica per Dino Campana’’ (MEI, Materiali Sonori, Centro Studi Campaniani). Nel dicembre 2021 per l’etichetta Radici Music è uscito il suo primo album solista dal titolo A che punto è la notte? e Miraggi (Minerva Edizioni, 2022) è la sua seconda raccolta di poesie edita.
Conosco Giacomo Panicucci da diverso tempo. Con lui condivido la mia città natale, Piombino, gli interessi per l’arte, la poesia in particolare, l’amore per la liricità delle nostre origini e per i classici. Ho seguito la sua evoluzione di poeta e musicista, schivo e piuttosto appartato, nel corso degli anni e sono stata molto contenta quando mi ha inviato la sua ultima raccolta di liriche musicali. Infatti, insieme a Giancarlo Pontiggia, abbiamo deciso di pubblicare, nella collana Cleide che curiamo per la Minerva Edizioni, questa sua opera, sui generis in quanto scavalca quel confine di distinzione tra la poesia e la canzone d’autore, che spesso si sovrappone, ma che su questo punto non trova mai un accordo unanime della critica che, anzi, molto spesso, considera le due forme artistiche assolutamente distinte. Ecco, credo che l’azzardo di questo libro, espresso in forma così pacata ma determinata da Panicucci, possa ritenersi un passo avanti nella rivalutazione di un certo tipo di poesia, magari creandone una nuova definizione capace di tenersi in piedi con le sue peculiarità.
Miraggi – Liriche musicali
“Se per alcuni il confine tra poesia e canzoni d’autore è labile, ciò vale ancora meno per questa raccolta dove i Miraggi sono già testi nati per essere musicati perché, come dice lo stesso Panicucci: il soffio poetico è invisibile e circola dove vuole. E qui circola, in un’alternanza di chiaroscuri, tra solitudini e solarità, in una dimensione contemplativa, a tratti spirituale, in continuo dialogo con i classici e le tradizioni, se pure in cerca di una modernità forgiata dalle domande universali dell’uomo. Scevra dai tecnicismi, se non quelli legati all’uso delle assonanze e delle reiterazioni, questa poesia trova il suo nucleo fondante nella ricerca di un rapporto armonioso con la natura, nell’idea che ancora sia possibile salvarsi attraverso l’arte, nella convinzione che dall’opera di grandi maestri, quali Leopardi e Dante, si possa attingere per la rivelazione di quei misteri legati alla filosofia poetica, su cui continuare a riflettere se il sole e la luna non ci negano la loro voce, se il poeta non smette di essere testimone del suo tempo e di cantare: Ora al viandante che di qui passasse, forse/apparirebbe l’ombra del poeta che un tempo/sorrideva e poi si perse nella selva oscura/dell’inquietudine…” . Questo scrivevo, con convinzione, circa un anno fa, per la IV di copertina del libro di Giacomo Panicucci che sarebbe, da lì a poco, uscito nella collana Cleide della Minerva Edizioni. Oggi mi trovo a riparlare di questo libro, anche in occasione della sua presentazione e non posso che confermare, dopo averlo riletto, quella mia prima impressione, motivandola ulteriormente.
Dunque è indubbio come la raccolta Miraggi afferisca a quella parte dell’autore che sicuramente appare a lui più congeniale, ovvero la musica. Infatti i testi consentono, già a una prima lettura, di seguire un andamento ritmato, scandito da un tempo metrico che ne fa intuire il progetto inevitabile di musicarli, cosa che è stata realizzata. Come ho già detto, è risaputo che sussiste una diatriba, in corso da tempo, sulla possibilità di ritenere i testi dei cantautori poesia, vera e propria, o meno. Panicucci, in tal senso, sembra davvero uscire dal coro e, con molto coraggio, egli si offre al giudizio del lettore e della critica con un libro che viene inserito in una collana di poesia e che contiene testi di canzoni. Alla domanda su come avrebbe pensato di giustificarsi a chi, possibilmente, gli contesterà la scelta (una domanda volutamente provocatoria) l’autore ha risposto, in sintesi, che la diatriba si basa su un equivoco, ed è un falso problema in quanto: “(…) la musica non limita l’espressività di una poesia, così come la poesia non limita la possibilità di fare musica. Nell’antichità non si avvertiva questa scissione e la poesia era cantata e accompagnata dalla lira, dalla cetra, dall’aulòs, dai cimbali e dai tamburi. Nei secoli successivi apparvero altri strumenti come liuti, ghironde, vielle, salteri, chitarre, arpe… Anche oggi, tanti poeti contemporanei, forse inconsciamente attratti da questo richiamo ancestrale, non disdegnano di farsi accompagnare dalla musica durante i readings. L’esigenza di cantare le proprie liriche, oltre che di recitarle, è sempre esistita e sempre esisterà.” Del resto è vero che, spesso, le catalogazioni fanno parte del mestiere del critico mentre l’artista è più propenso a mischiare i generi per farne nascere nuove e brillanti contaminazioni.
E, a proposito di contaminazioni, leggendo la poesia di Panicucci, risulta inevitabile evidenziare i riflessi dei grandi maestri del passato spaziando nelle scuole di pensiero letterarie novecentesche, ad esempio, come quella crepuscolare rilevabile oltre che dall’ambientazione spesso notturna, anche dai pensieri connessi ad anime vaganti e solitarie, fortemente malinconiche. Il termine crepuscolari, coniato da Borgese, inaugura una nuova stagione letteraria, dopo il decadentismo, e si adatta a un nucleo di poeti che influenzati dal simbolismo francese, adottano i toni delle atmosfere dimesse, gravi, poco luminose, e che più si avvicinano alla prosa se vogliamo. Ma, aldilà dell’etichetta che non è indispensabile attribuire a un poeta, se pure introduce a termini di paragone e confronto necessari, per concettualizzare il suo bagaglio culturale, è innegabile, ancora, che si senta, nel sottofondo di questi versi, anche una forte spiritualità che tende a mostrare quasi un altro punto di vista, un punto di vista divino sulla vita, intriso di speranza, alla ricerca di strumenti utili a sopravvivere all’indifferenza, al frenetico mondo in cui viviamo, in cui l’umanità sembra sempre più retrocedere a favore dell’arroganza, e la bellezza e la purezza sembrano diventare irrilevanti a favore dell’oscuro e della mancanza di attenzione alla natura.
E, qui, vengono sicuramente in soccorso a Panicucci gli autori antichi, classici o i grandi contemporanei, certo anche qualche passo del Vangelo. Gli esempi dei riflessi rilevabili sarebbero ancora molti ma ne citerò un ultimo, evidentissimo e, almeno a me, molto gradito, quello di Leopardi che molti giovani neanche prendono più in considerazione, impregnato di romanticismo qual è (romanticismo del quale, volenti o nolenti siamo tutti figli). Ebbene, nella raccolta compare una poesia dal titolo Serenata di un poeta errante alla luna che non può non far pensare immediatamente al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, anche se il testo di Panicucci è molto più breve ma, anche leggendo testi come Guarda la notte o Preghiera del mare invernale, non si può non apprezzare come quantomeno l’ispirazione sia leopardiana.
Infine, risulta importante da rilevare come l’andamento di Miraggi, intrecci comunque – in sintonia col discorso della contaminazione – stili musicali e ritmi diversi, esplori ballate, rock e pop in un’altalena di odi liriche che a volte rasentano l’invettiva, si fanno aspre e cupe, tra l’introspezione e il confronto con la realtà, indagando anche tematiche socio-politiche alla ricerca di una verità che sembra riemergere negli elementi più naturali, quelli da cui traiamo forza vitale. Ho chiesto per questo a Panicucci di raccontare quale potrebbe essere il messaggio che vuole lanciare con questo libro e la sua risposta è stata, in sintesi questa: “(…) Sarebbe necessario ritrovare almeno il senso del limite e una vitalità umana creatrice di valori. Ritrovare la sacralità della carnalità, dei sensi e del fuoco intellettuale; in queste esistenze anchilosate da codici a barre, algoritmi, virtualità, occupate da febbrili isterie di crescita produttiva-economica di massa. Abbiamo il dovere di non cancellare la saggezza delle tradizioni, di salvare il silenzio e la contemplazione dalla continua tirannia del rumore e della distrazione. Dobbiamo riallacciare il legame perduto con la terra, con il mondo selvaggio e con quello divino; celebrando sì la ragione, ma senza cadere nel »sogno della ragione » che può anch’esso generare terrificanti mostri. Dobbiamo riavvicinarci umilmente e coraggiosamente alla riflessione poetica sul mistero della morte, non eludendolo o svilendolo dietro a folli promesse che né la scienza né la tecnica saranno capaci di mantenere (…).” Un messaggio sano, coraggioso e assolutamente condivisibile, direi.
Alcuni testi da: Miraggi – Liriche musicali
Fresca impressione mattutina
Scalare la notte fin alle vette dell’alba
che al mattino in silenzio scende in città
come gocce di brina da grondaie arrugginite.
Nei sobborghi del centro, su fili di panni e persiane abbassate
di case ancora avvolte nelle guance di tiepidi sonni
si stira e sbadiglia una giovane luce appena svegliata.
E sul campanile dallo sguardo austero e solenne
rondini volano e cantano in un mistico coro
e il cielo ci dona sorrisi di nuvole bianche.
Fresca impressione mattutina…
Fresca impressione mattutina.
Discende dai gradini del cosmo un chiarore
sorvola l’ala diafana dell’alba queste strade
e striscia via la notte.
È una fresca impressione mattutina…
Fresca impressione mattutina.
E quando si accendono i lampioni alla sera
ricordati di noi nottambuli dispersi
nei labirinti della notte.
Ma anche se è l’alba adesso, la luce è amara
inquieti gabbiani ambasciatori del giorno
ci resta nei cuori il buio che il Sole non riesce a cancellare.
Albeggiano vele sul tremolio tigrato del mare
si ormeggia un’altra innocente e timida aurora
a questo frenetico mondo, stanco e insanguinato.
Così la mattina è fata che arriva in punta di pieni
e presto svanisce in un attimo fuori dal tempo
così come è arrivata così se n’è andata.
È una fresca impressione mattutina.
Fresca impressione mattutina
E il traffico ruggisce, si sveglia la città
ma tu stai già fuggendo via, foulard rosa all’orizzonte:
è forse questo il nostro addio?
Fresca impressione mattutina.
Fresca impressione mattutina.
E un arco di fuoco scocca i colori ovunque
si accendono i semafori, riprendono i passi
sarà un’alba anche per noi?
***
La ballata della grande quercia
(alla memoria dell’immortale spirito dell’Olivone di Fibbianello)
C’era una volta una grande quercia
che svettava solitaria dall’alto di un colle.
Il suo tronco era grinzoso di rughe secolari
intrecciato alle sue foglie improvvisava ottave rime il vento.
Si raccontavano al fuoco delle veglie leggende di streghe
che intorno a quella quercia si adunavano in tregende a mezzanotte,
e poi storie di amori fra contadine e partigiani
che sotto alle sue fronde si incontravano all’aurora.
Era l’ultima grande quercia, l’ultima vecchia quercia
L’ultima grande quercia,
E oggi non c’è più
Sentiron le sue radici il tradimento fra due amici,
restava il patto stretto come cicatrice nella corteccia.
Sotto ai suoi rami muli e pastori trovavano
riparo dalla frusta del Sole.
E d’inverno si curvava tutta carica di neve
come vecchio carbonaio sotto a un fascio di legname
ma regina coronata di gemme a primavera rinasceva
e ospitava nel suo grembo vite ormai perse.
Il signorotto della zona era da tutti rispettato, portava cilindro, ghette, fumava pregiati sigari orientali e sorseggiava whisky. I suoi commerci andavano a gonfie vele e si diceva facesse affari d’oro anche con il contrabbando. Alle pareti del suo podere teneva attaccate teste di cervi imbalsamate e la domenica nella piazza del paese, mentre già si spargeva il profumo delle resine e i biancospini e i mandorli già erano in fiore, lui esibiva con superbia la moto fiammante rosso sangue.
Un giorno pagò il fattore zoppo dal volto enfio e butterato, quello che nella sua baracca nascondeva tagliole, fucili e un’accetta. Bracconiere dall’animo spento e avvizzito, il cuore un tizzone di carbone arso dalla fiamma dell’avidità. Così per trenta denari, una lugubre notte di Novembre, si incamminò sul colle e ammazzò la grande quercia.
E oggi là nel bosco l’incanto si è frantumato; si alzano alti muri di cemento laddove prima battevano cuori di animali. Di caos riecheggia e si riempie la valle; concimi chimici e diserbanti corrodono la terra e il fiume silente che scorreva trasparente, ora si ubriaca tramortito con la schiuma degli scarichi soffocando in chiazze d’olio, tra estathé e lattine che vi galleggiano sopra come file di metalliche bare opache; sotto cieli sempre più laceri, accecati dal fumo e drappi di gas velenosi.
Era l’ultima grande quercia, l’ultima vecchia quercia
L’ultima grande quercia, l’ultima quercia
E oggi non c’è più.
L’uomo preferisce le tenebre alla luce,
l’uomo non riesce a custodire e amare la Bellezza.
Sparge semi di morte e apocalisse sulla vita
e poi si dispera quando coglie i frutti della distruzione.
Dov’era la sua ombra c’è il parcheggio di un supermarket,
al posto dei suoi rami tante insegne pubblicitarie.
A sera va il pianto innocente di una capinera
che cerca un nido che mai più ritroverà.
Era l’ultima grande quercia, l’ultima vecchia quercia
L’ultima grande quercia, l’ultima quercia
E oggi non c’è più.
***
Serenata di un poeta errante alla luna
Ora che ci siamo accampati in queste steppe,
ti guardo lassù Luna galleggiare nella nebbia:
fiore di loto in uno stagno senza tempo
scuro e profondo di oblio e di silenzio.
Quando gli occhi si chiudono nel buio
e gli incubi si affacciano nei templi della psiche
e dormono le campanule in attesa dell’aurora
c’è solo il tuo febbrile sguardo a spiare il mondo.
Vegli come sfinge su ciò che è tabù e mistero:
i gufi, le civette, l’eros, i ladri, la follia e le paure;
l’ululio dei lupi, i fantasmi, i ragni e i pipistrelli;
le carovane estatiche di remote, erranti stelle.
Stregano i tuoi raggi le acque e il flusso degli umori
cullano i passi insonni di tormentati amori
soffiano su braci di ferite ardenti di passioni
sciolgono i segreti dai raggi del Sole sigillati.
Oh Luna, regina inquieta della notte
zingara apolide su fili d’argento in equilibrio,
che cèli il tuo volto oscuro e più sinistro a noi mortali
sempre ispirerai serenate a noi nottambuli poeti!
Perché anche se è vero che ti hanno profanata
lasciando orme e una bandiera sulla tua sabbia incantata,
ancora noi lunatici la voce tua seguiamo
e nel tuo dolce mare di sogni ogni notte naufraghiamo…
Cinzia Demi
Bologna, 22 gennaio 2023
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