Su Missione poesia, a cura di Cinzia Demi, la poetica di Michele Brancale (“L’apocrifo nel baule”, Passigli 2019): attraverso l’escamotage del ritrovamento di una raccolta di poesie, rinvenuta molto tempo prima, all’interno di un vecchio baule e appartenente a qualcuno a lui molto vicino, probabilmente il padre, l’autore trova spunto per riscrivere i testi e per dare alla luce una nuova raccolta.
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Michele Brancale è nato in Basilicata nel 1966, da tempo vive e lavora a Firenze. Collaboratore di giornali e periodici come «La Nazione», «Avvenire», redattore della rivista «Gradiva», ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: “La fontana d’acciaio” (Polistampa, 2007), “Salmi metropolitani” (con uno scritto di Antonio Tabucchi, Edizioni del Leone, 2009), “La perla di Lolek” (Giuliano Ladolfi, 2011), “A regime di brezza mite” (LucaniArt, 2012) e “Rosa dei Tempi” (con prefazione di Gianni D’Elia, Passigli, 2014 – finalista al Premio letterario Camaiore). Tra le altre sue pubblicazioni: i racconti di “Soave e invecchiato” (Polistampa, 2007), il racconto “Il braccialetto di Toledo” (con illustrazioni di Paolo Penko, Giuliano Ladolfi, 2012) e il romanzo “Esodo in ombra” (Giuliano Ladolfi, 2016). L’ultima raccolta poetica è “L’apocrifo nel baule” (Passigli, 2019).
Conosco Michele Brancale, sia come autore che come giornalista da tempo, anche se non ci siamo mai incontrati personalmente. La sua poesia da sempre impegnata anche a livello civile e sociale, oggi si rigenera di una nuova linfa andando a riscoprire ricordi che diventano memorie, incrociando la storia familiare e personale con una ricerca esistenziale profonda, attraverso la riscoperta di personaggi, luoghi, sentimenti che rallentano il tempo del vivere e offrono un’immagine necessaria per la conservazione e la trasmissione antropologica del nostro seme, del nostro passato che si proietta nel futuro. Felice di averlo invitato all’appuntamento di marzo di Un thè con la poesia, purtroppo rinviato a causa della nota emergenza sanitaria e di cui, al momento in cui scrivo, non si conosce la nuova data.
L’apocrifo nel baule
« Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla? »… Con questa domanda Alessandro Manzoni iniziava le riflessioni sul manoscritto ritrovato – lo scarabocchio, lo scartafaccio… come lo chiamava – che lo avrebbe portato alla riscrittura de I promessi sposi dal momento che, dopo qualche titubanza, la storia raccontata gli pareva bella e gli sembrava ingiusto che rimanesse sconosciuta. Un artificio usato per le note ragioni storico-politiche, quello del Manzoni, ma che ci viene certo alla mente leggendo l’introduzione in corsivo posta in apertura al libro di Michele Brancale L’apocrifo nel baule (Passigli 2019). Il poeta, infatti, rende noto al lettore del ritrovamento di una raccolta di poesie, rinvenuta molto tempo prima, all’interno di un vecchio baule e appartenente a qualcuno a lui molto vicino, probabilmente il padre, che sarà spunto per riscrivere certi testi rielaborandoli e per dare alla luce una nuova raccolta.
Ai fini della riuscita dell’opera poco importa, in verità, se si tratti di un artificio di manzoniana memoria o di un fatto realmente accaduto: i testi scorrono con una loro verità, una loro cifra stilistica, un loro andamento e questo è ciò che conta. Certo, è soprattutto la prima sezione del libro, Guerra e Pace, ad essere interessata a questo gioco del riflesso, tra la poesia del padre e quella del figlio, laddove è l’esperienza della guerra vissuta e combattuta sul mare dal padre, ad emergere nel presente di oggi, senza confini di storia, di tempo, di luogo con tutta la violenza e tutto il dolore indimenticabili dei naufragi, del frastuono dei bombardamenti: riconosco ad uno ad uno quei volti/ riemersi dal mare mosso di ieri,/ scosso nel profondo dal loro grido,/quando la torpediniera arrancava/ sotto il fuoco delle altre navi intorno… con la disperazione per le perdite infinite di volti e identità: Da quando sua madre passa il giorno affacciata/ alla finestra con i gomiti appoggiati/al davanzale ormai da più di nove anni,/anche noi abbiamo preso l’abitudine /di guardare al pomeriggio giù sulla strada/ per vedere se cammina, se è possibile/che quella attesa abbia un senso, uno sbocco,/oltre le trincee da cui non è tornato… con il desiderio di pace, appicciato addosso, pregato a un dio quale speranza di lenire l’orrore: All’alba un gabbiano rapace/vola su corpi ammassati in un campo./Vorrei abbracciarli e dare sepoltura,/dare il nome alla croce di ciascuno./Dalla bocca del mare un vento freddo./«Dio, quanta sofferenza. Dammi pace».
Poi, come a sfogliare un album di famiglia, o una collezione di vecchie cartoline di paese ecco che compaiono, sempre in un dialogo aperto tra le due generazioni di poeti, altri ricordi, altri riflessi: ora sono i parenti, o gli amici come il ciabattino: Mi affacciavo a trovarlo nel negozio/per fargli compagnia. Era un mio amico./Si era trasferito da qualche anno/a Firenze; come Donatuccia che: Per l’orgoglio ferito la bambina/ promise a se stessa la ricompensa,/la rivalsa sugli studi mancati,/ebbe la promozione a voti alti; come Filomena, che si sposa e che suscita al poeta un pensiero di affetti, forse interrotti: Vedendo gli amici che si sposano/ripercorro tappe d’affetto; ora sono i luoghi d’infanzia che cambiano negli occhi ad ogni ritorno mentre nel cuore restano sempre gli stessi: È un mucchio di case su crete arse./Anche da lontano riesco a sentirne/il suono nelle gradazioni offerte/dal giorno…
Come non essere d’accordo? Come non condividere queste immagini e i sentimenti del poeta? Come non pensare alle nostre tradizioni, alle nostre fiere, con le loro leggende: c’era una volta un drago/ di sembianze quasi umane./Usciva dagli alberi all’improvviso/ facendo strage di piccoli e bestie,/lasciando nel terrore gli abitanti…;alle atmosfere: Capita a volte di incontrare in queste/ zone abbandonate vecchi binari/di ferrovie dimesse, che interrotte/ per alcuni tratti, si intravedono/ tra i cespugli…; come non pensare ai sentieri, alle case: Affacciato al balcone della casa/presa in affitto a Spadarea, ripenso/allo spavento che ti dava il vento/di ponente – che invece mi rilassa,/ m’avvince – stasera così forte/sul monte… ma soprattutto come non rivedere i personaggi del paese, ben descritti, ben impressi nella memoria che si fa collettiva, che diventa epopea del ritorno, migrazione antropologica dei miti e degli archetipi in figure umane e reali, che diventano a loro volta narrazione poetica, tra cui troviamo: Nonna Palmira(che) adorava un armadio/ che credeva una montagna ripiena/di denaro; Don Gaetano, vecchio,/ con la mano tremolante, avida/di affari; Donna Notizia,/radio/degli inganni e delle rogne di paese./ Con l’aria della signora in vacanza… e altri ancora che, se ci pensiamo bene, sono gli stessi personaggi dei nostri stessi paesi, dei nostri stessi borghi, quelli che abbiamo conosciuto da piccoli o di cui ci parlavano i nostri genitori, i nostri nonni.
E ancora, in questo lavoro di Brancale non possiamo non notare un elemento che torna più volte, e che evoca immancabilmente ricordi di altre narrazioni, di altri autori, di altri poeti: la fontana. Pensando ad alcuni nomi notissimi, che si sono serviti di questo elemento nelle proprie poetiche, ci piace citare, ad esempio, Fogazzaro che fa accompagnare dalla voce della fontana alcuni dei momenti più significativi del romanzo Malombra; D’Annunzio che nel dramma La Fiaccola sotto il moggio usa la fontana Gioietta per evidenziare il legame tra la mancanza d’acqua con la sorte della casata dei Sangro; Palazzeschi che ne La fontana malata descrive, anche con l’uso di suoni onomatopeici, la malattia della fontana, metafora di quel sentirsi morire crepuscolare, dato dal senso di inadeguatezza ai tempi che introdusse la corrente del decadentismo. Ebbene in Brancale la fontana, prima luogo di un sogno, dove la Fortuna attinge l’acqua, diventa successivamente vero luogo della poesia, nel testo La fontana del Capperone, luogo da cui bere gocce rade di acqua chiara che non disseta, fonte che non sta al centro del paese ma alle porte dell’abitato e che avvia il lettore alla conclusione del viaggio in questo bellissimo libro, da cui ci si commiata incontrando la nonna che raccontava le favole e che come in una favola si è portata via lasciando nel poeta l’anima di quel bambino che l’ascoltava e che ancora gli fa credere alla forza dei sogni.
Né crepuscolare né decadentista Brancale è un poeta di questi tempi, un comunicatore che conosce la tecnica di scrivere poesia, gli strumenti retorici, riadattandoli a suo uso e consumo, che conosce e dosa in modo equilibrato la musicalità del verso con la quale ricrea le stesse atmosfere incantate dei racconti dell’amata nonna, conscio che solo attraverso l’incantamento si realizza la vera poesia.
Alcuni testi da: L’apocrifo nel baule
Al disperso
Da quando sua madre passa il giorno affacciata
alla finestra con i gomiti appoggiati
al davanzale ormai da più di nove anni,
anche noi abbiamo preso l’abitudine
di guardare al pomeriggio giù sulla strada
per vedere se cammina, se è possibile
che quella attesa abbia un senso, uno sbocco,
oltre le trincee da cui non è tornato.
Il corpo sparso prese il nome di Disperso.
L’Africa… Così vicina, così lontana.
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Rimpianto
Capita a volte di incontrare in queste
zone abbandonate vecchi binari
di ferrovie dimesse, che interrotte
per alcuni tratti, si intravedono
tra i cespugli, lasciando riaffiorare
la coincidenza del percorso in treno
con un incontro non voluto, fatto
con gente che non m’aspettavo così
la stessa a cui, guardando quei binari,
ripenso stasera ringraziandola.
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A Rosa
Tornando a casa, al tramonto, ho incontrato
la disperazione: c’era la madre
di Rosa che implorava, mentre usciva
dal camposanto, e piangeva per tutto.
E a tutti, anche a me, andava ripetendo
«È morta Rosa».
Ricordo la madre
che chiedeva il pane per quella figlia
malata e che non sempre le fu dato.
Rosa assente,
Rosa morta per niente.
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La voce del mondo
La voce del mondo si fa sentire
di sera, quando raggiunge le cose
con leggerezza, annunciando la forza
indifesa di chi non ha che un grido
da offrire per festa o cedimento.
Quella voce arriva se non si chiude
la strada per essere umani ancora.
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La fine della favola
Guardo la nonna distesa in silenzio
e quasi mi vergogno di tornare bambino,
accanto a lei in ascolto dei racconti,
nelle giornate di pioggia o se fuori
cadeva la neve, al caldo del fuoco.
Ho conosciuto così la grandezza
dei castelli, le sirene, le fate,
le favole create inseguendo
la nave dei sogni.
C’è in questa posa,
accanto a lei, la certezza che quanto
resta del bambino che l’ascoltava,
quanto in lui resta di disponibile
a credere ancora alla forza dei sogni,
è in quel nuovo sorriso che scorgo
tra le sue rughe, sul suo volto assorto:
è nella favola che lei si porta via.
Bologna, marzo 2020
Cinzia Demi
P.S.:
“MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale di poesia italiana contemporanea, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani di Parigi. Altri contributi e autori qui: https://altritaliani.net/category/libri-e-letteratura/missione-poesia/