Riprendiamo la rubrica Missione poesia con un libro del giovane autore ferrarese Matteo Bianchi: in un continuum di amore e morte, in un passaggio dai ricordi ai lasciti affettivi il tutto sembra condurre a una figura femminile, forse la stessa che l’autore sta cercando ne La metà del letto, la stessa per la quale Bianchi potrebbe dire: la femme que je suis, la féminité que je cherche en moi, la stessa per la quale egli è disposto a perdere il treno, quello della vita, se pure perso insieme: Se mi avessi aspettato,/avremmo perso il treno/insieme.
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Matteo Bianchi è nato a Ferrara nel 1987. Si è laureato in Lettere Moderne e si occupa di comunicazione.
Ha pubblicato le raccolte Fischi di merlo (Edizioni del Leone 2011, Premio Rabelais ’11, Premio Turoldo ’11), L’amore è qualcos’altro (con Alessio Casalicchio, Empirìa, 2013), La metà del letto (Barbera, 2015), e le sillogi L’alba di Ladyhawke (Fara, 2012) e Un’ombra in due (L’Arca Felice, 2014), in parte interpretata dal cantautore Germano Bonaveri.
Suoi versi sono apparsi anche su varie antologie e riviste, tra cui “Poesia”, “Soglie”, “L’immaginazione”, “Capoverso”, “Il Filorosso”, “Tratti”, sull’italo-svizzera “Bloc-notes” e, in francese, sulla “Revue Verso” (Lucenay). Suoi contributi critici, invece, su “Il Ponte”, “Semicerchio”, “Letteraria” e “Atelier”, di cui ha curato il numero monografico sulla poetica di Anna Maria Carpi (n. 73, marzo 2014). Di recente è stato selezionato da Alberto Bertoni tra le voci per l’atlante online di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, Ossigeno Nascente.
Suo il blog d’autore “inedito zero” su Repubblica.it, collabora a Punto. Almanacco della Poesia Italiana (puntoacapo Editrice). Numerosi sono i suoi articoli apparsi sul portale Rai Letteratura, mentre suoi reportage e interviste sono usciti su RaiNews.it, Unità.it, “La Stampa” e “Il Centro”. Ha fondato il Collettivo “Corrente Improvvisa”, di cui ha curato l’antologia Poeti di Corrente (Le Voci della Luna, 2013), e ha composto il primo excursus sulla poesia contemporanea a Ferrara, I poeti del Duca (Edizioni Kolibris, 2013).
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Conosco Matteo Bianchi da diverso tempo e nell’ultimo anno abbiamo iniziato a frequentarci spesso, sia per motivi poetici che organizzativi d’incontri. La sua freschezza e spontaneità, che sembrerebbero frutto dell’età, si conciliano benissimo con la serietà e la profondità di pensiero e d’azione che lo contraddistinguono, tanto da renderlo una persona sui generis, molto speciale insomma. Niente mi è mai sembrato nei suoi gesti o nelle sue parole lasciato al caso, così come niente nei suoi testi – e in particolare in quelli di cui parleremo in quest’articolo, presentando il suo ultimo lavoro “La metà del letto” – mi ha dato l’impressione di qualcosa di incompiuto, di provvisorio o sospeso. Al contrario, e ne parleremo a breve, incontrando Matteo, parlando con lui, ascoltando o leggendo le interviste rilasciate così come i suoi versi, si ha come la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo senza età, a un autore non ascrivibile a categorie o epoche o movimenti, si pensa di aver di fronte un poeta il cui pensiero possa valere a prescindere da qualsiasi etichetta si tenti di affiggere sulla sua produzione e sul suo essere.
Non è mica poco, scampare oggi, a un’inquadratura quasi obbligata, a una messa a fuoco autoriale che ti incardini forzatamente in un contenitore. Certo, non mancano nella sua produzione, riferimenti, autori a cui attingere, maestri ispiratori e imprescindibili ma, il tutto è rielaborato all’insegna di un proprio culto evocativo, di una propria visione più o meno lineare – con cui non c’è obbligo di consenso – ma che risulta ben argomentata, ben ragionata tanto da sembrare edificata da un ardente spirito missionario, il cui scopo è convertire alla necessità indifferibile della parola poetica per la ricerca della verità.
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La metà del letto
La metà del letto di Matteo Bianchi, uscito nel 2015 per Barbera Editore, porta un’importante introduzione a firma di Roberto Pazzi e una nota di presentazione a nome di Anna Maria Carpi, due autori storici della poesia italiana che già danno un timbro di validità al lavoro, si fanno garanti di una corrispondenza d’intenti fra il loro sentire e quello del poeta che è giovane sì, ma che ha già al suo attivo una notevole produzione poetica e saggistica.
Veniamo dunque al contenuto del libro senza lasciarci ingannare dal titolo che, apparentemente, sembrerebbe alludere a una vicenda amorosa tra il sentimentale e l’erotico.
Un libro di poesia, può dirsi compiuto, quando il suo nucleo fondante è univoco, al di là del numero dei testi che lo compongono (nel nostro caso un centinaio), quando lo stile che lo rappresenta è riconoscibile: qualsiasi testo si vada a leggere dell’opera deve potersi individuare come appartenente alla stessa.
La metà del letto non prescinde da questa regola e Bianchi è arruolato nelle fila degli autori che riescono in questo, non sempre facile, compito. Non ci sono stonature o bruschi cambi di rotta fra le pagine: un uomo si racconta – così come da sempre l’uomo intende la narrazione sia poetica che prosastica – partendo dalla propria storia, dal proprio vissuto, dal proprio io profondo, per approdare alla conoscenza dell’altro e del mondo (come più volte abbiamo detto, in questa rubrica).
Bianchi parte dall’inizio, dalla stagione fredda, dove la neve copre col suo manto la terra e le cose, una neve che non si sa a chi appartiene, una neve che abbacina, ma che protegge anche i frutti della terra, tra i quali viene annoverata dallo stesso autore la poesia, una neve utile allo scopo di trovar metafore per ricordi ancora vivissimi: I fiocchi di latte e pane in mezzo/alle ciglia – gli stessi occhi -/delle scuole lontane.//Facevamo a palle di neve/e i colpi di freddo ti crepavano fra le mani/tornavi quello che eri. Inusuale davvero è la capacità di inserire la quotidianità del ricordo, la poetica della memoria – che pure è recente – in un autore così giovane, così com’è abbastanza inconsueto un confronto con la poesia stessa alla quale, quasi fosse un excusatio, Bianchi si rivolge, personificandola: Neppure il conforto/delle mie convinzioni:/ ti scrivo, Poesia, opposta resistenza/al mio cambiamento… o in leggero tono d’accusa: Mi dicevi che non tutto/è spendibile in versi, un sentimento che si trasforma nell’incedere del testo, che si rovescia in afflato umano, rivolgendosi a un qualcuno per il quale – ora sì – sembra sia nato un amore, già destinato a finire, poco duraturo: io per sempre non lo so dire/e nemmeno tu.
Ma l’amore, che anch’esso non ha età e non ci bada ai suoi limiti – che non ne ha – affiora in tutta la sua profondità nel testo dedicato Alla zia Rosa – e nella sequenza che segue il racconto della sua scomparsa – intersecandosi con la morte e con un altro amore il tutto vissuto con la similitudine dell’esistenza delle farfalle, quasi a indicare la precarietà della vita dell’uomo, dei suoi amori e l’ineffabile destino: Le farfalle, sai, non si fermano,/a loro non è permesso:/vivono unico un giorno./Colgono la bellezza/e l’assaporano sui fiori,/prima che essa divori nell’attesa/lo smalto delle loro ali.
Non c’è interruzione di pensiero in questo continuum di amore e morte, in questo passaggio dai ricordi dell’affetto e dei gesti legati alla zia, alla sua sofferenza, i suoi lasciti sembrano portati in dono a un’altra figura femminile, forse la stessa che l’autore sta cercando ne La metà del letto, la stessa per la quale Bianchi potrebbe dire: la femme que je suis, la féminité que je cherche en moi, la stessa per la quale era disposto a perdere il treno, quello della vita, se pure perso insieme – Dante per conservare il ricordo del grande amore di Paolo e Francesca, li mette insieme all’Inferno, nello stesso girone dei lussuriosi come se a scontar le pene insieme ci fosse meno dolore -: Se mi avessi aspettato,/avremmo perso il treno/insieme.
Così, tra Venezia e Ferrara, spazia l’ambientazione del libro come a voler concentrarsi, a voler alternarsi – allo stesso modo che nelle pagine dove l’alternanza è tra l’amore e la morte – su due linee opposte di confine: la propria città natale, dalle nebbie basse, appena reduce dai disastri del terremoto che ha colpito tutta l’Emilia, nella quale risuona l’eco del campanile – omaggio al poeta Govoni – , pervasa nella sofferenza dalla scorta del profumo di mele, ingigantita dalla presenza del duomo, Il mio duomo, dove la stessa diventa una Ferrara [che] uccide sia i demoni/sia i santi… e Venezia, la città degli anni universitari e dell’apertura verso il mondo, che pure è rappresentata come una sfatta/libertina di tarda età… e che nondimeno affascina il poeta diventando la sua salata Canossa, come lui stesso dice: Chiunque ti abbia guardata/- il desidero di tornare/e farti propria -/ti ha resa estranea alla vita,/intoccabile.
Le fila possiamo tirarle in uno dei testi conclusivi del libro nel quale, pascolianamente, Bianchi riaffronta e porta a compimento il senso del fare poesia così come del vivere, perché un senso c’è sempre anche nell’accettazione del nostro stare al mondo: Poesia è un soffio sui narcisi:/il mio legno diviene anima/e il mio sasso ragione./ Noi siamo/solo se accettiamo di non essere.
Qualche testo da: La metà del letto
Mi manifesto
Nella città dei nostri silenzi,
piedi aderenti al freddo,
non c’era modo di confrontarsi
tra i fuori porta e i percorsi differenti.
Le mie radici come d’edera
sprofondavano tra le pietre a vista.
Fumo e in angolo specchi
per riflettere su di sé
la profondità dell’ambiente:
una forma diffusa d’isolamento.
Una lingua cominciava a descrivermi
incespicando sui ciottoli del ghetto,
tra i nomi qui scalfiti degli ebrei,
Gatta Marcia, via degli spettri.
Il dramma era che andavo scoprendomi
scrivendo di tutt’altro, non di me stesso.
Procedere con senno su una via,
non accumulare segmenti,
pavimenti d’acqua veneziani:
«ho fame di sentenze,
una soltanto, fate la carità
almeno per un caffè
irreversibile».
Avevo di scorta, però,
il profumo delle mele
della vasta piana ferrarese.
*****
Nella nube di neve
smessa dal diretto in ritardo
sui pendolari fiaccati
dalla Bora impertinente,
mi travolgeva un sogno:
smarrire di continuo qualcosa
durante il viaggio di ritorno.
A rendermi inquieto, però,
non erano gli oggetti
i ghiacci sotto le coperte
theòs, radice del mio dubbio.
*****
«Non spegnerla nel vaso,
le avveleni»
– mi riprendevi materna –
«si potano i rosai
per impedire che, marcendo,
i rami secchi mandino in cancrena
l’interno indifeso e le rose
non sboccino più».
Quante ore del tuo tempo
nell’attesa che qualcuno ritornasse,
disperse oltre i campi, nel paese,
nella corte intorno alle case basse
annaffiavi le piante.
Alla fermata del vapore
ripensavo a te da lontano:
non c’erano i minuti
per finire le sigarette
che accendevo, fumavo
male, fumavo a mezzo.
Tu eri tra quelle, soffocata
dal vizio di durare
per i tuoi cari.
(A Rosa)
*****
Morire così incollati e nudi
finendoci a vicenda in un rantolo,
un gemito prolungato di vergogna
l’uno dentro l’altro,
e la finestra affacciarsi cauta
sul primo pomeriggio di un’estate,
dopo esserci svuotati in apparenza
di ogni energia vitale.
*****
Umida e cieca invadeva le mani,
penetrava la giacca.
Languida compagna del freddo infimo,
quello in fondo all’autunno,
in atomi, bulloni solitari
scomponeva i barlumi dei lampioni
imitare la luna,
l’alito dei pedoni marciare
giù in strada, fuori casa.
La scelta era evitata:
fragile coerenza del ghiaccio,
presenza in blocco congelata,
o apparente assenza dell’acqua,
muta scorrevolezza.
L’accendino non reggeva la fiamma.
Nebbia, nebbia padana.
*****
Canta, o Musa malinconica,
di chi attende il ritorno a sé, coerente,
immagina e sorprende il corpo
in questo purgatorio.
Cinzia Demi
Bologna, ottobre 2016