La doccia è di sinistra, il bagno di destra. Diceva Giorgio Gaber. Quale sinistra, quale destra? La doccia se vogliamo è una roba moderna, da fighetti, da ceti medio-alti riflessivi. Insomma, come dicono in tanti: da bobò, radical-chic (o champagne socialist). Sarà perché è rapida, quindi ottima per la persona ottimista, progressista e di sinistra assai indaffarata, con buone posizioni socio-professionali, che fa tutto sempre di fretta: mille cose da fare, mille impegni! La riunione, l’aperitivo, la serata sui testi gramsciani (far finta di essere sani, concludeva Gaber).
Il bagno è più compassato. Adatto a ritmi lenti. Quando io ero bambino, nel nostro quartiere operaio, si faceva il bagno (quando lo si faceva, ma questo è un altro discorso), mica la doccia. Quindi va a finire che ci siamo sbagliati, vuoi vedere che è il bagno ad essere di sinistra? Se penso a Gramsci che si lava, lo vedo nella vasca da bagno, mica sotto la doccia. (Dice: ma tu che problemi hai, che vai a pensare a Gramsci che si lava?). Comunque, a questo punto, resterebbe da stabilire in quale area politica si colloca la linea del “né-né”: né con lo Stato né con le BR, vi ricordate lo slogan lanciato da Lotta Continua? (Leonardo Sciascia, poverino, lo aveva riformulato con l’abituale sottigliezza dicendo: né con questo stato né con le BR”, però alla fine quello slogan gli è rimasto appiccicato addosso).
Ni Patrie ni patron, ni Le Pen ni Macron, dice adesso qualcuno in Francia. Né la doccia né il bagno, insomma. La sporcizia (risultato inevitabile del né-né, inutile nasconderselo) sarà di destra o di sinistra? Secondo i detrattori del ’68, la sporcizia è di sinistra (per via di quella retorica scema sui capelloni, le pulci, gli hippies etc.).
Però mi ricordo un testo femminista che diceva più o meno: la scena della doccia di Psycho è rimasta nell’immaginario collettivo perché in fondo risponde a uno stereotipo inconfessabile tardo-maschilista: la donna che si lava, eh, sarebbe un po’ puttana. E quindi meritevole di punizione. Mentre la donna sporca è santa. Quindi in quel senso la sporcizia sarebbe di destra. Oh, intendiamoci: non è che le dico io, queste scemenze. Figuriamoci. Io vedo con favore entrambe le cose: il fatto di lavarsi che, senza offesa per nessuno, per me è importante; e (sempre con rispetto parlando) anche l’essere un po’ puttana a me non è che dispiaccia. No, non sono io a pensare queste cose. Le avevo trovate in quel libro femminista di cui ho scordato tutto il resto (titolo, autore). Si vede che anche io sono sensibile a questa suggestione erotico-igienica.
Comunque di due cose sono certo: faccio la doccia, che preferisco senz’altro al bagno e mi sento, mi sono sempre sentito di sinistra. Solo che questa cosa non è mai andata bene a nessuno. Ve lo giuro: una maledizione. Una roba da non credere.
Ero ragazzino e non sapevo dire né ah né bah. Però ero nato e cresciuto in una famiglia operaia, in un quartiere popolare, e per me era chiaro come il sole: la sinistra era la parte giusta, santamadonna, quelli di destra erano dei grandissimi stronzi che si volevano tenere tutti i dindini per loro e inutile stare a farla tanto lunga, il discorso è chiuso. Questa era il mio livello di elaborazione politica.
Giravo con il famoso eskimo, quella della canzone di Francesco (Guccini. Lo chiamo per nome, così per darvi l’impressione che siamo amici, che io e Guccini siamo intimi, abbiamo passato mille serate in via Paolo Fabbri a cantare e raccontarcela. Invece non è vero manco per niente: Guccini nemmeno sa che esisto). Giravo con il famoso eskimo, dicevo. Solo che il mio eskimo era blu. Già questo segnava un errore di prospettiva storica, un terribile equivoco, un’alterità irriducibile rispetto al filone principale della sinistra, che si riconosceva, “al di là delle diverse sensibilità politiche”, nello stramaledetto eskimo verde.
E allora c’era un mio amico, non proprio amico-amico ma insomma, che se la tirava da maledettissimo-contro-il-sistema, mi vedeva da lontano con il mio eskimo blu e l’anima in disparte, e gridava: “ehi figiciotto!”. Figiciotto stava per militante della FGCI, Federazione Giovanile Comunisti Italiani. Quella da cui viene d’Alema, per capirci; senza offesa per nessuno, né per i comunisti, né per d’Alema. Per il mio amico-non-proprio-amico-amico, “figiciotto” era il massimo degli insulti. Io non lo ero per niente, figiciotto. Non militavo proprio da nessuna parte, stavo molto per conto mio. In un certo senso però il mio amico-non-proprio-amico-amico aveva ragione. Non ero figiciotto ma nella sua percezione corrispondevo a un profilo, come dire, meno ribelle, meno antagonista del suo.
Ero più sensibile a valori, come dire, borghesi? Tipo lo studio. Lui gridava forte e chiaro che la scuola era una truffa, i voti uno schifo, i professori degli impostori, bisognava dare il sei politico a tutti e chiuso. Io pensavo che se uno è un asino è un asino (e lui lo era. Possiamo pensare che questo dettaglio influenzasse, in qualche misura, la sua posizione sul sistema scolastico?). Quindi per lui ero di destra e basta. Un “figiciotto” di destra. Ma si sbagliava: non ero niente, né paglia né fuoco. Non ci capivo molto.
Poi, crescendo, ci ho capito ancora meno. C’era il Partito Comunista Italiano che era (aveva detto Pier Paolo. Sarebbe Pasolini, ma lo chiamo così sempre per quella storia che ho tirato fuori con Guccini: farvi credere per un attimo a un’intimità inesistente), c’era il PCI, dicevo, che era un paese pulito in un paese sporco e tutta quella roba lì. Il partito degli onesti, ecco. Era una storia che aveva tirato fuori Pasolini e su cui si era buttato a capofitto Enrico Berlinguer.
Bisogna capirlo, poveretto; gli era andato tutto storto. Che il famoso “socialismo reale” fosse una schifezza, una cosa orrenda, ormai, a parte qualche irriducibile, era diventato chiaro a tutti. Il sogno di arrivare democraticamente al potere in Italia sull’onda di una poderosa vittoria elettorale gli si era infranto contro la terribile, orrenda storia del golpe cileno; e si era detto, Berlinguer, che non sarebbe bastato nemmeno il 50% più uno alle elezioni. Allora aveva tirato fuori questa roba del compromesso storico: cattolici democratici e comunisti assieme, grande alleanza delle forze sane della nazione. Ma anche questa gli era andata buca. Si era infranta sul sangue del povero Aldo Moro.
Cosa gli restava? Dai e dai, non sapendo bene che fare e dove andare, e annoiandosi un po’, aveva tirato fuori questa cosa dell’onestà. Si deve essere detto, Berlinguer: “taci, che forse c’è quella cosa che ha scritto Pasolini qualche anno fa! Dai, proviamo quella!”. E così il PCI era diventato ufficialmente il partito dei buoni. Io ci credevo, ma non del tutto, perché non è che fossi proprio totalmente rimbambito. Ma un po’ sì. E dai e dai mi sono affezionato a quel partito, dove c’era effettivamente anche tanta gente davvero in gamba, e in effetti a voler vedere anche un po’ più d’integrità che da altre parti.
Però c’era questa contraddizione: votare per un partito comunista (“oggettivamente” comunista, avrebbe detto Lenin), che fino a un certo punto della sua storia prendeva anche dei bei soldini dall’Unione Sovietica; e però avere schifo del comunismo realizzato, perché a forza di leggere Solženicyn e Koestler e poi Salamov, come si faceva a tollerare quella cosa lì?
Poi a metà degli anni Ottanta avevo trovato Milan Kundera, nella bella edizione Adelphi. Con lui c’era un angelo e quell’angelo era Sabina, ragazza nuda con il cappello. Sabina “voleva dir loro che dietro il comunismo, dietro il fascismo, dietro tutte le occupazioni e tutte le invasioni si nasconde un male ancora più fondamentale e universale, e che l’immagine di quel male era per lei un corteo di gente che marcia levando il braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe”.
Era quello che avevo sempre pensato senza saperlo, ti amo Sabina ti amo! Sabina che, “nel mondo dell’ideale comunista realizzato, in questo mondo di idioti sorridenti, con i quali lei non riuscirebbe a scambiare una sola parola, morirebbe di orrore in una settimana…”. Insomma, c’era questa contraddizione: come si faceva ad amare Sabina che sarebbe morta di orrore nel mondo dell’ideale comunista realizzato, e votare Partito Comunista? Eppure si poteva, accadeva. La contraddizione c’è, e va accolta, nella contraddizione si agita il conflitto, la storia, la vita, Sabina, le cose.
Poi il tempo è andato, assieme alle stagioni, il PCI ha cambiato nomi come volano aquiloni.
Tutto è cambiato: il mondo, le case, le chiese. Sono successe cose incredibili, “epocali”, come si dice. Solo per citare le maggiori: è caduto il muro di Berlino. La Sampdoria ha vinto uno scudetto e disputato una finale di Coppa dei Campioni. C’è stato l’11 settembre. Un giorno mi sono ritrovato con una ragazza bellissima che, nuda davanti a un grande specchio, si è messa in testa un cappello nero, e mi ha detto: “Sabina”: come afferrare il capo di un filo che si credeva perduto, ritrovare un anello in un prato. Tutto, è cambiato, tutto.
Tranne una cosa. Rimasta identica, immutabile: ho continuato a sentirmi di sinistra e a sentirmi dire invariabilmente che no, che mi sbagliavo, che ero di destra. (A dire il vero ce n’è anche un’altra, di cosa che non è cambiata: faccio sempre la doccia, che preferisco senz’altro al bagno). Ho seguito la cosiddetta sinistra storica italiana nelle sue trasformazioni (qualcuno, furbetto, direbbe: trasformismi), cercando di farlo (per quanto ho potuto e saputo) liberamente, laicamente e criticamente.
Mi dicono, oggi, che la sinistra non esiste più, che si è persa. Se è così, ci siamo persi assieme. In Francia, mentre scrivo, siamo alla vigilia del secondo turno delle elezioni presidenziali. Sento dire che la scelta è tra la destra estrema di Marine Le Pen e quella che sarebbe la “destra neoliberista” (ahi) di Emmanuel Macron. Può darsi.
Ma se guardo alla sinistra di Jean luc Mélanchon la trovo dura, autoritaria, ritrovo in lei quei vecchi tic che Sabina non poteva sopportare. Ho l’impressione che nel mondo dell’ideale mélanchoniano realizzato, io morirei di orrore, insieme a Sabina. Se guardo a quella, sconfitta alle elezioni, di Benoit Hamon, la trovo simile alla sinistra della doccia: perfetta per una sinistra da aperitivi, che considera il lavoro un noioso impiccio.
Emmanuel Macron? Se vogliamo, è un po’ troppo pulitino, perfettino, per me. Non credo conosca la malinconia delle periferie, degli organi di Barberia, a volte ho l’impressione che i poveri li abbia visti in cartolina o nei grafici delle stime macro-economiche. Inoltre, Macron dice, più o meno, che destra e sinistra sono superate, e che lui prende il meglio dell’una e dell’altra – e questo a me, figlio del Novecento, non può che suonare lontano, falso, estraneo; perché in questa dicotomia tra destra e sinistra ci sono nato e cresciuto, perché è rispetto ad essa che mi sono sempre orientato e definito, magari per negazione. Però.
Però, anche se c’è tutto questo, in Emmanuel Macron trovo cose che sento vicine: l’apertura al mondo, non la stupida chiusura; e, molto più del famoso “neo-liberismo” (con cui ormai a sinistra si etichetta tutto quello che non piace: basta un attimo e zac! Ti ritrovi neoliberista), trovo una roba che si chiama (almeno, qualche filosofo la chiamava così) “libéralisme égalitaire”. Quel pensiero liberale che parla di eguaglianza delle opportunità (e non di eguaglianza forzata degli esiti). Non è il candidato ideale, Emmanuel Macron, e meno male: l’idea stessa del “candidato ideale” mi riporta al terrore di Sabina, nei confronti del mondo dell’ideale realizzato, ridotto a una marcia collettiva di ebeti sorridenti.
Ma nella sua visione delle cose trovo, insomma, qualcosa di quello che cercavo senza saperlo, forse fin già dai tempi dell’eskimo. Qualcosa di liberale nel senso di far fare un passo indietro allo stato rispetto agli individui e riconoscere il diritto di ognuno a cercare, trovare, la propria strada; e qualcosa di socialista nel senso di lottare contro la più odiosa delle ingiustizie, che è la diseguaglianza delle opportunità, e nel senso di soccorrere chi ha bisogno. Insomma: un’idea bellissima, quella di un socialismo liberale. Bella (quasi) come la mia ragazza nuda davanti allo specchio, con il cappello di Sabina.
Maurizio Puppo