La generosità di un autore che si fa portatore di valori spirituali dando voce a personaggi umili, ma non meno significativi, del percorso cristologico e della Natività: il messaggio sta tutto in quel Di me diranno che dà il titolo alla raccolta poetica, breve ma intensa, dove la testimonianza chiarificatrice del mistero della vita resta più forte di altre a tracciare un sentiero possibile d’ascolto e comprensione.
Luca Benassi è nato a Roma dove vive e lavora. Ha pubblicato le raccolte poetiche “Nei Margini della Storia”, (2000), “I Fasti del Grigio” (2005), “L’onore della polvere” (2009) e le plaquette “Di me diranno” (2011) e “il guado della neve” (2012, vincitrice del premio nazionale di poesia Don Milani 2012). Ha tradotto “De Weg” del poeta fiammingo Germain Droogenbroodt (“Il Cammino”, 2002). Suoi testi sono usciti su “La Clessidra”, “La Mosca di Milano”, “Atelier” , “Poeti e Poesia”, “Linfera” e in rete. Giornalista pubblicista, cura la pagina dedicata alla poesia delle donne del mensile Noidonne. È presente nell’antologia “Il corpo segreto – Corpo e eros nella poesia maschile” (2008), nel “Calendario della poesia italiana 2009” (Belgio, 2008). Sul numero 1/2004 del “La Clessidra” ha pubblicato una scelta di traduzioni del poeta palestinese Ibrahim Nasrallah. È sua la traduzione italiana nel volume “Čiara horizontu” di Juraj Kuniak (Slovacchia, 2008). È tra i curatori de “L’antologia della poesia erotica contemporanea” (2006). Ha curato l’opera antologia “Magnificat. Poesia 1969 – 2009” (2009), che raccoglie l’intera produzione della poetessa Cristina Annino, “L’antologia percorsi nella poesia di Achille Serrao” (2013) e « La casa dei Falconi, poesia 1974-2014 » che antologizza l’intera produzione di Dante Maffìa. Ha pubblicato la raccolta di saggi critici “Rivi strozzati poeti italiani negli anni duemila” (2010). Insieme a Manuel Cohen e Salvatore Ritrovato dirige la collana Percorsi della Puntoacapo editrice.
Conosco Luca Benassi personalmente da alcuni mesi – di fama da sempre – per averlo incontrato a Roma come relatore alla presentazione di un mio libro. E’ stato un incontro molto significativo perché mi ha dato la possibilità di confermare la mia idea di come, quando una persona vale ed è sincera – ed era questa l’impressione che avevo di Luca -, sia disponibile a mettersi al servizio degli altri donandogli la propria arte. In questo caso Luca infatti mi ha donato la sua interpretazione del mio libro, e lo ha fatto in modo splendido, usando le parole e il significato che avrei voluto si trovassero in questo lavoro, senza risparmiarsi in nessun punto. Questa generosità e capacità espressiva, oltre che interpretativa, Benassi la mette anche nei suoi testi poetici che in una parola io definirei: generosi. Ne parleremo in questo articolo della rubrica, affrontando le ultime due fatiche poetiche dell’autore: “Il guado della neve” di cui riporteremo alcuni componimenti e “Di me diranno” di cui parleremo più approfonditamente, editi entrambi da CFR di Piateda (SO).
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DI ME DIRANNO
Possono bastare sette testi a dar vita a un libro di poesia? Evidentemente sì, se si tratta di un lavoro intenso, complesso e drammaturgico come questo di Luca Benassi. Un lavoro che propongo volentieri in questo periodo in cui cominciamo a riflettere sull’importanza del Natale e della nascita, intesa anche come rinascita spirituale avvicinandosi la data della festività stessa. Quanti testi mi vengono in mente pensando al Natale. Abbiamo una tradizione ricchissima di poeti che hanno scritto su questo tema da Gozzano a D’Annunzio, da Saba a Pirandello, da Quasimodo a Rodari solo per citarne alcuni e ognuno di loro ha dato la propria interpretazione, ha espresso la propria visione sull’evento sottolineando il momento, il personaggio, la situazione che più gli sembrava rappresentativa secondo la propria sensibilità. Ricordo ancora a memoria il testo, ad esempio, di Gozzano “Notte Santa” dove i due pellegrini Giuseppe e Maria cercano rifugio per la notte nelle locande di Betlemme che sono tutte piene:
– Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!/Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei./Presso quell’osteria potremo riposare,/ché troppo stanco sono e troppo stanca sei./Il campanile scocca lentamente le sei./- Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?/Un po’ di posto per me e per Giuseppe?/- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;/son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe. /Il campanile scocca lentamente le sette…
Gozzano decide di far parlare i personaggi, in una sorta di testo che diventa rappresentabile (spesso dai bambini, a scuola, per la festa del Natale. Io stessa mi ricordo che partecipai a una di queste recite: ero orgogliosa di scandire le ore, ero il campanile). E sono proprio Maria, Giuseppe, gli osti e le ostesse, il campanile a raccontarci la situazione che sta accadendo, il contesto nel quale avverrà il prodigio (come dice Gozzano).
Ecco, allo stesso modo, si potrebbe pensare di assistere a una rappresentazione dell’opera di Benassi dove a parlare sono dei personaggi insoliti ma presenti nel presepe e nel percorso terreno di Cristo, presenti inequivocabilmente soprattutto per la loro fisicità, raccontata anche attraverso la sofferenza, che si fa testimonianza, invece che solo iconografia puramente didascalica, restituendo in questo modo autenticità alle storie. Per questo concordo con quanto scritto nella prefazione al libro dal poeta Gianmario Lucini (purtroppo recentemente scomparso) «[…] nell’iconografia dei grandi artisti e nella poesia […] gli stilemi rappresentativi […] hanno certo soddisfatto le istanze di fede e ancor più di magia, ma nello stesso tempo hanno allontanato la storicità del Natale, rendendolo un avvenimento astratto, a-storico e irenico, lontano dall’esperienza concreta e spoglio della drammaticità che il nostro autore, Luca Benassi, mette in scena, con queste sue puntuali rappresentazioni, mistiche ma anche di grande realismo.»
Ma, vediamo dunque come si raccontano questi protagonisti-emblema scelti da Benassi come portatori di un nuovo messaggio sul Natale, un messaggio che si fa carne nello spirito – proprio come lo Spirito ha voluto farsi – per riprendersi una verità a volte distorta, storpiata o contorta da falsificazioni del significato stesso del rapporto tra il vivere terreno e il divino, di cui unico mediatore non può essere che il corpo tant’è che già nel titolo del libro, Di me diranno, non può non nascondersi una sorta di autobiografismo che mette il poeta e la sua stessa fisicità in prima linea in questa dimensione di riscoperta.
Di me diranno, dice l’asino, la pazienza della soma; Di me diranno, dice il bue, il fiato caldo; Di me ricorderanno, dice la stella, la luce che segna la strada verso il bimbo; Di me diranno, dice il fico, sterile; Di me diranno, dice il gallo, il pianto amaro del tradimento; Di me diranno, dice la croce, il segno della storia; per ultimo un testo sul lago che prende spunto dal Vangelo di Giovanni nel momento in cui i discepoli, al ritorno dalla pesca infruttuosa della notte, non riconobbero Gesù che li attendeva sulla riva. Sono questi gli elementi a cui dà voce con anaforica forza l’autore nella raccolta e, come si vede già dall’incipit di ogni testo, essi sono pronti a identificarsi con la storia che li contiene, a dare il proprio contributo tanto all’esegesi del racconto quanto alle finalità divine dell’evento vero e proprio. Lo fanno con tutta la loro umiltà e umanità, con il loro carico di sofferenza e il loro destino, con la consapevolezza di essere gli ultimi a dover parlare ma che la loro voce non resterà isolata e nascosta. Ci pensa il poeta a far risaltare il loro sentire. L’asino diventa il portatore del corpo santo e la sua fame soggiace alle esigenze del nascituro; il bue si fa testimone della nascita dolorosa di acqua e sangue dove riscaldare il primo vagito; la stella regala la sua stessa creazione e la sua fiaccola di luce a quanti vogliono vedere il prodigio; il fico esce dalla sua parabola, cerca il contatto col Cristo, prova a giustificare la sua non fruttificazione ma prova anche freddo e paura – forse la stessa paura che verrà di lì a poco al popolo d’Israele quando si renderà conto di non aver accolto Gesù come il Figlio di Dio -; il gallo racconta il suo divenire da araldo del mattino a portatore di presagi di morte senza desiderio o consapevolezza di tradimento; la croce non può che dirsi protagonista dell’ultimo fiato insieme al condannato, sgretolandosi anch’essa col corpo di Dio, fatta strumento di tortura dopo la vita d’albero; il lago è il non luogo, il volto del mancato riconoscimento, la pazienza di Dio che aspetta i suoi figli che non lo pensano. Che ruolo ha il poeta, dov’è la sua presenza, cosa diranno di lui? Immagiamo una risposta: “ – Di me diranno che fui capace di portare il seme del nuovo nel magma dell’infinità interpretativa del Natale, che elevai a dignità umana le voci più nascoste del presepe, che fui lungimirante credendo che negli ultimi stesse la visione più vera della vita. Lo feci usando la mia arte, la poesia, e fu anche la mia visione quella vera che si scoprì nel mondo. -”.
Non c’è dubbio che forse l’autore – per giusta modestia – non scriverebbe così di se stesso ma questo è quello che penso io di lui, della sua poetica in questo lavoro e volevo proporvela.
Per concludere: che stile usa Benassi per scrivere questi componimenti? Uno stile che sarebbe riduttivo ricondurre a mera prosa poetica – concordo ancora con il prefatore – ma che d’altra parte risulta così composto, se pure intervallato da qualche sprazzo di versi brevi. Forse perché si adatta di più a ciò di cui sta parlando il poeta, la prosa, comunque poetica (tra l’altro molto usata ultimamente anche da vari autori contemporanei), risalta per un’assoluta adeguatezza ai contenuti, facilita la visione d’insieme sul testo e rende tutto molto fruibile senza spezzare il continuum del messaggio di cui ci si vuole fare portatori tra allegorie e metafore che suggeriscono alternanze e immagini costruite con maestria. Ecco un assaggio dell’opera:
il fico
Di me diranno sterile,
il palpito verde delle foglie stese al vento del sole d’agosto, il ramo secco (che secco non era) che non dà frutto, l’ombra tremolante che offrii al viandante, il ristoro della brocca d’acqua, il sapore dell’aria.
Altrove ricorderanno la parola gentile del vignaiolo, la pazienza della zappa, il dolore del solco sulla fronte della terra polverosa sotto la lama d’ombra dell’astore. Avrei messo a frutto l‘anno dopo. O forse qualcuno prima di Lui venne e piegai i rami, i seni delle foglie come promesse di donna, frutto di ventre; e fu sazio e mi lasciò spoglio del frutto; carnoso, dalla buccia nera e la polpa rossa come sangue versato nella coppa.
Lo vidi arrivare da lontano, nel giallo della polvere del mattino, lo seguivano le vesti lacere e gli occhi bianchi della fede migliore.
“Rabbi” gridai con un suono verde e legnoso “Rabbi, ho l’ombra del riposo e Tu hai camminato tutta la notte”.
Gridai ossigeno puro alla figura lontana dell’uomo affamato: “Rabbi, quest’anno non ho frutto per il pasto degli uomini”.
Ma Lui non mi intese. Venne vicino, frugando fra le foglie.
“Rabbi, non ho colpa” dissi ancora, sussurrando l’aria del mattino.
“Rabbi” dissi
ed ebbi freddo
e paura.
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IL GUADO DELLA NEVE
Da Il guado della neve, ultima fatica letteraria dell’autore, silloge risultata vincitrice al Premio don Lorenzo Milani (Gioiosa Ionica – RC) nel 2012 costruita tra l’altro con un’alternanza di testi in lingua italiana e tradotti in sardo, vi riporto alcune poesie, sottolineando la sensibilità dell’autore nel parlare di luoghi, di problematiche sociali, di rivisitazioni mitiche e fiabesche, e l’attenzione nel rivolgere il proprio sguardo e la propria voce alla donna, attenzione davvero rara perché facilmente riconoscibile come vera e non artefatta da manierismo.
(dalla sezione: Il guado della neve)
Un tempio di pietra con gradini di vento
Camena, ti facciamo sulla collina.
Scaviamo un pozzo, profondo quanto
il ventre di una donna può contenere
un’acqua muta, una sete dolce di vena
una tana di volpe sotto il lentischio.
Dicci la strada, curva su curva
albero dopo albero lontano dal mare
racconta il tornare, accendi
un fuoco di mirto, una culla sospesa
alla porta dell’ovile.
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A Mario O.
Ti diamo la prima buona notte nella terra:
c’è una musa per questo, una stella incerta che buca
la lapide pregando in una lingua senza scrittura.
Mentre la sera chiude la faccia stralunata al mare
il maestrale come un Salmo sgranato
piega una terra fatta di sangue
e che sangue chiede ai suoi figli.
E’ questa una buona notte, una stretta di mano
una processione del silenzio che mai
chiude l’orbita vuota incisa nel granito.
Ti salutano i figli, i nipoti
quelli che ti hanno amato
l’estrema generazione.
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(dalla sezione: Su logu, su contu)
Mi chiedi dove sia stato la sera,
quale tramonto violetto, quale giorno
abbia trattenuto i denti sul cuore.
Mi chiedi del mare
del filo di bisso, dell’abbraccio cavo
del sole all’ultima pietra.
Ero solo, ti dico, su una sedia
ad ubriacarmi al cospetto di Dio.
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(dalla sezione: Matteo Boe)
Ecco l’uomo del coltello, i capelli neri bagnati
d’uguaglianza nel taglio senza suono e rosso
ecco l ‘uomo che cerca la luna travolta dalla pietra
l’uomo del ricatto e della carne
che intaglia nella bocca della notte
nel sentiero di lama,
una lingua di bimbo forestiero.
Dove sei inverno del cisto e dell’asfodelo
ruga di vecchio bagnata di sangue
sulla fronte bianca del supramonte
dove sei uomo della fuga e dell’abbraccio
che mi guardi dalle tue sbarre
appallottolato al confine del rancore
a fronteggiare la corte stellata
dei ginepri.
Cinzia Demi