L’Intelligenza artificiale è solo una sfida al cambiamento

Simona Michelon è impegnata in un dottorato di ricerca nazionale sul tema – attualissimo – dell’uso dell’intelligenza artificiale nell’istruzione, un argomento che lei si propone di approfondire mano mano sul nostro giornale se vi incuriosirà.

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Ogni volta che compare una nuova tecnologia, l’umanità si divide: da una parte c’è chi esulta per nuove promesse di progresso, dall’altra chi teme catastrofi, la parte da cui stiamo dipende da come viviamo il cambiamento.

Oggi accade lo stesso con l’intelligenza artificiale. C’è chi la considera un’intelligenza autonoma, destinata a superare l’uomo, e chi la guarda con sospetto, convinto che distruggerà posti di lavoro, creatività e persino la capacità di pensare. La verità, forse più semplice ma anche più scomoda, è che l’IA non è né un amico né un nemico: è soltanto uno strumento. Potente, sì, e pervasivo come nessuna tecnologia prima d’ora, ma pur sempre un mezzo nelle mani dell’uomo.

Per comprendere meglio possiamo riprendere tre grandi riferimenti della nostra tradizione culturale: il mito della scrittura nel Fedro di Platone, il metodo educativo di Socrate e l’insegnamento di Lacan, interpretato da Massimo Recalcati.

Platone, nel dialogo Fedro, racconta un mito che suona oggi incredibilmente attuale. L’inventore Theuth porta al faraone Thamus le sue scoperte: i numeri, il calcolo, l’astronomia e soprattutto la scrittura. Secondo Theuth, scrivere sarà un dono per gli uomini, perché consentirà di fissare il sapere, di conservarlo e trasmetterlo. Ma Thamus risponde con durezza: la scrittura, dice, non renderà gli uomini più sapienti, ma solo più smemorati. Chi si affida a segni esterni non esercita più la memoria viva e si illude di sapere, mentre in realtà possiede soltanto simulacri di conoscenza.

Quella discussione di duemilaquattrocento anni fa sembra anticipare i dibattiti odierni sull’IA. Non rischiamo forse anche noi di diventare “smemorati”, di affidare troppo alle macchine, di illuderci che ciò che generano sia conoscenza? Eppure, la storia ci mostra che la scrittura non ha distrutto la memoria: l’ha trasformata. Ha liberato la mente umana da parte del peso mnemonico, permettendo lo sviluppo del pensiero astratto, della filosofia, della scienza.

Così, oggi, l’IA non è destinata a cancellare l’intelligenza umana: può piuttosto trasformarla. Sta a noi imparare a governarla, come abbiamo fatto con la scrittura, con la stampa e con Internet. Sta a noi gestire il cambiamento.

Socrate, maestro della parola viva, guardava con diffidenza la scrittura proprio perché temeva che cristallizzasse il pensiero. Un testo scritto non può rispondere alle domande, non può difendersi, non può dialogare: resta muto, fisso, immobile. Per questo Socrate preferiva l’incontro diretto, il dialogo, il movimento dinamico del pensiero che si costruisce nella relazione.

Il suo metodo maieutico era basato sull’interrogazione reciproca: non trasmetteva nozioni, ma aiutava l’altro a “partorire” ciò che già possedeva dentro di sé. L’apprendimento, per Socrate, non era mai passivo: era il frutto di un rapporto, di un esercizio di confronto e di ricerca comune.

Se guardiamo all’intelligenza artificiale da questa prospettiva, vediamo subito il limite evidente: l’IA può generare testi, simulare dialoghi, produrre argomentazioni. Ma non può partecipare a un vero incontro. Non può desiderare, non può rischiare, non può trasformarsi nel dialogo con l’altro. Al massimo, può restituire schemi plausibili, combinazioni statistiche di parole. È utile, sì, ma non è dialogo. Non è relazione.

Qui entra in gioco un terzo riferimento, più vicino a noi. Jacques Lacan, uno dei grandi psicoanalisti del Novecento, ha insistito sul fatto che l’apprendimento è mosso dal desiderio. Massimo Recalcati, suo interprete contemporaneo, lo dice con chiarezza: non si impara senza passione. Apprendere è un atto d’amore.

C’è un’energia vitale che sostiene l’allievo e l’insegnante: un movimento che non si riduce a tecnica, a procedure, a competenze. Senza desiderio, senza il “calore” di una relazione, il sapere diventa sterile. È il transfert, quell’incontro tra il desiderio del maestro e quello dell’allievo, a generare vera conoscenza.

L’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, non conosce né passione né amore. Non desidera, non si innamora del sapere. Può imitarne le forme linguistiche, produrre discorsi appassionati, simulare emozioni, ma resta un simulacro. Non c’è vita, non c’è eros. Per questo non potrà mai sostituire l’educazione e la formazione nella loro dimensione più autenticamente umana.

Se uniamo questi tre riferimenti — il mito di Fedro, la lezione di Socrate e la psicoanalisi lacaniana — otteniamo una cornice chiara: l’IA è uno strumento. Può amplificare le fonti cui attingere il nostro pensiero, come la scrittura ha trasformato la memoria; può aiutare a organizzare informazioni, ma non potrà mai essere un dialogo vivo; può imitare l’entusiasmo, ma non potrà mai accendere un desiderio.

La provocazione vera del nostro tempo non è farci travolgere dall’AI ma accettare la sfida del cambiamento che questo strumento pone dinanzi a noi. Aprirci e imparare ad usarla come un supporto che può amplificare le nostre possibilità cognitive e in grado (forse) di liberarci del tempo e delle energie, da dedicare a ciò che davvero ci rende felici.

Simona Michelon

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Simona Michelon
Simona Michelon è un'insegnante italiana di economia, ora impegnata in un dottorato di ricerca nazionale sul tema dell'uso dell'intelligenza artificiale nell'istruzione. Collabora con Generazioni Connesse del MIM e si occupa da anni di progetti e formazione docenti. Attualmente sta concludendo il coordinamento di un polo di formazione POLO-ONLIFE volto alla formazione del personale scolastico sull'uso della tecnologia nell'insegnamento.

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