Due articoli, l’uno della psicoanalista Julia Kristeva, l’altro dell’etnoantropologo francese Marc Augé, spingono a riflettere sul fenomeno dell’immigrazione così violento da destare palesi e inconscie paure.
Essere invasi. È questo il contenuto della paura, un fenomeno nuovo ed inatteso, l’incubo che si è materializzato di fronte alle nostre coste mal custodite.
Che significa esattamente? Su questo punto interviene Marc Augé: significa non avere la certezza dei confini ossia della propria identità ma, soprattutto, significa aver seppellito il futuro sotto il presente, non avere più speranza di futuro. Il suo libro “Futuro” è un classico come la definizione di nonluogo e nontempo. Il futuro non è memoria del passato. È la proiezione del se’ nelle future generazioni.
Julia Kristeva dal suo canto insiste: “Siamo stranieri a noi stessi, questo significa la paura dello straniero”.
Ma, al di là dell’approfondimento psicologico, è da indagare il perché siamo così angosciati dall’esodo di massa che è sotto i nostri occhi.
Ho una mia teoria.
Noi non sopportiamo l’incognita del mondo composito che verrà, delle mescolanze di tradizioni e culture che inevitabilmente avrà luogo. In una parola non sopportiamo di contemplare la fine del nostro mondo e l’avvento di un mondo che non conosciamo e che certo sarà profondamente diverso.
S.Agostino, all’avvento dei barbari e alla caduta di Roma, fu profondamente angosciato da quella eclissi che sembrava impossibile, tuttavia nel celeberrimo Sermone sulla caduta di Roma, confortava i suoi dicendo che dal declino si vede l’avvento del futuro
Un futuro a noi sconosciuto ma che tuttavia esprime la continuità della vita e della storia.
Carmelina Sicari
Da Reggio di Calabria