Di questo piccolo, magico, grande libro di Adelia Battista colpiscono tante cose. In primis la copertina e non tanto per il quadro della Prunas, ma per la grafica (ottima) del titolo: L’Angelo bianco, sovrastato in alto dal nome dell’autrice e simmetricamente sotto al titolo con identici caratteri Anna Maria Ortese, che poi è la protagonista di questo piccolo o breve romanzo, ultimo lavoro della scrittrice avellinese.
Colpisce la simmetria e l’identicità di quei caratteri grafici, perché l’autrice e la protagonista del romanzo nella narrazione si fondono in una perfetta simbiosi di caratteri, questa volta, della personalità.
Grande esperta e biografa della Ortese, l’autrice raccoglie articoli di giornali, interviste e la memoria dei suoi incontri con lei a Rapallo e a Milano, che diventano fonti per raccontare, interpretandola in prima persona, uno dei periodi più magici, impenetrabili, solari, ma allo stesso tempo oscuri dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autrice del Porto di Toledo.
Quando la bambina Ortese, al seguito del padre impiegato di prefettura, lascerà la Lucania per giungere, con la sua famiglia numerosa in Africa, in Libia, a Tripoli e poi gli anni dell’adolescenza, quando ripartiti dalla colonia arriveranno nella città più significativa per la scrittrice, Napoli.
I luoghi aridi, immersi nel sole fanno da cornice ad una vita familiare perennemente nuova, dove nulla è stabile e definito, come sono le stesse relazioni di una famiglia numerosa segnate dalla magia degli occhi dell’infanzia e da quelle misteriose sinergie che nascono e muoiono tra contrasti e pacificazioni, che sono l’humus di formazione dell’inquieta e ribelle Anna Maria, il terreno dove si costruisce la sua vita, naturalmente anche nel ricco contrasto con la società sì povera, ma meno aspra, della città partenopea, teatro della sua adolescenza che si alimenterà poi, in età adulta, di viaggi e nuove residenze come quella romana o milanese e naturalmente di nuove esperienze.
Inquieta e ribelle la Ortese bambina, teneramente legata alla nonna che la lascerà poco prima del viaggio che dalle coste libiche la porterà a Napoli, siamo tra gli anni Venti e Trenta. Poi, a Napoli gli studi superiori, presto abbandonati, per insofferenza verso i rigidi rigori dell’autoritarismo scolastico del tempo, e poi la meravigliosa scoperta da autodidatta della cultura, della scrittura e in particolare l’amore per la poesia, pur restando in lei il libero e insanabile dissapore verso una cultura scolastica indotta più che dedotta.
L’agile libro, si legge con piacere ed è ben alla portata anche di chi della Ortese proprio non conosce nulla. Adelia Battista ne è una perfetta interprete tanto che la sua scrittura riesce a modellarsi benissimo agli scritti autentici della Ortese che sono opportunamente riprodotti in corsivo all’interno delle pagine in un perfetto incastro tra realtà e finzione, finzione pur sempre frutto di un’attenta ricerca sugli anni della formazione umana, esistenziale ma anche culturale della grande scrittrice.
Di questa abilità di interpretazione semantica va dato atto alla Battista che sicuramente tra le sue tante, opere realizzate, molte delle quali dedicate proprio alla Ortese, segna con questo libro, uno dei suoi scritti più riusciti, direi anche più completi sul punto narrativo riuscendo ad avvicinare tanti potenziali lettori alla conoscenza di una delle autrici più complesse del nostro recente panorama letterario.
Un’autrice capace di unire aspetti dell’esistenzialismo a quelli di un aspro contesto sociale e a volte finanche ambientale, lavorando sulle illogiche trame che vi sono nell’oscura complessità del vivere e del crescere in una famiglia numerosa dove, come sempre, si creano misteriosi vincoli di sangue, intrecci di solidarietà ma in un inevitabile amaro senso di trascuratezza, di mancanza, di incompiutezza.
Spesso, questo è il mistero fra i misteri della famiglia e della vita, disgrazie colpiscono proprio quei nuclei più numerosi, nel caso del libro non mi riferisco tanto alla perdita della nonna, che è nella natura delle cose, piuttosto, a quella del fratello Emanuele, che, ancora giovane, muore in un disgraziato incidente sulla nave dove lavora, la navigazione era stato sempre il suo sogno.
Emanuele è l’Angelo bianco del titolo del libro, qualcuno che più volte è comparso in sogno alla giovane Ortese, una figura con cui lei, sempre in sogno, cerca disperatamente e vanamente di parlare, mentre ogni volta lui, l’angelo, sembra alzarsi per darsi il volo. Nelle famiglie numerose un lutto è qualcosa che può vincolare o meno ancora più gli affetti: “Il nostro esistere nel tempo sta nel ricordare” dirà verso la chiusura del libro una commossa Battista/Ortese.
La tumultuosa vita esistenziale della protagonista contraddittoriamente procede nello scorrere lento della vita di un tempo, sotto tappeti di stelle e cieli che illuminano, ora i paesaggi desertici della periferia di Tripoli, ora il Mediterraneo nella traversata verso Napoli, e ora la stessa via verso la maturità della scrittrice.
E non è certo casuale che di stelle parli anche Adelia Battista nella sua immaginaria lettera finale alla Ortese, nel ricordare il suo pellegrinare, importante per la sua formazione culturale e letteraria, anche lei infine si ritrova alla sua base di partenza, Avellino, come se l’esistenza si concludesse sempre e comunque in un eterno ritorno: “Due piccoli abbaini lasciano intravedere un fazzoletto di cielo azzurro che muta lentamente a seconda del sole e del vento e quando sopraggiunge il crepuscolo appare un cielo pieno di stelle (…) Dai lucernari, ormai il mio osservatorio, scorgo Sirio, la cintura di Orione, il Piccolo Carro dell’Orsa Maggiore e mi viene in mente la novella Il capitano, una delle liriche più belle della Sua prima raccolta, Angelici dolori”.
Ecco, questo lavoro si segnala anche per la sua originalità. Raccontare l’Ortese questa volta non con un saggio, come spesso ha fatto Adelia Battista, ma attraverso il racconto credibile in prima persona, credibile nella forma ai racconti della stessa protagonista raccolti con attento studio, nonché attraverso l’uso della lingua e della scrittura con cui, data la profonda conoscenza del soggetto, da parte di Adelia Battista, ci si riesce perfettamente ad immedesimarsi nella figura della piccola e poi adolescente Ortese, una perfetta simmetria come ci mostra la stessa copertina dell’opera, ritrovando poi, nel lettore come me, figlio anch’esso di famiglia numerosa, tanti elementi comuni in una rappresentazione fedele del tempo in cui chi ha vissuto quell’epoca ben potrà riconoscersi.
L’Angelo bianco diventa così un libro che, nella sua magia e nella sua fedeltà “storica e sociologica”, può essere un ottimo conduttore delle nostre memorie e delle nostre emozioni.
Nicola Guarino
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